25. (A) Niente fiabe
Quando Becky arriva in cucina, io sono già sveglia da un pezzo: il pigiama ancora addosso, una felpa a tenermi caldo, il barattolo di marmellata di fronte e la tazza di caffè forte sotto il naso.
«Aly, non è ancora presto?» borbotta, avvicinandosi al frigo per tirare fuori la bottiglia di latte.
Guardo l'orologio che sta appeso sopra i fornelli, e mi dico che sì, forse le sei sono troppo presto per essere già sveglia, aver già fatto la doccia, quasi finito la colazione e preparato i vestiti da mettermi addosso. È presto, tremendamente presto, ma oggi non è un giorno come ieri.
La convocazione per l'esame di tedesco è alle otto e mezza, e da qui all'università ci vuole un'ora di tram. E poi io ho bisogno del mio tempo, per prendermi un altro caffè, andare in bagno, dominare la nausea che mi innervosisce lo stomaco in vista del mio primo esame qui a Berlino.
«Buongiorno, Becky. Forse è presto, ma io ho dei tempi lunghi» dico, sorridendo nel tentativo di reprimere l'ansia.
Becky si siede di fronte a me, e con gli occhi ancora socchiusi intinge i biscotti nella tazzona di latte caldo. «Vuoi che ti accompagni?»
«All'università? No, perché?»
«Perché è il tuo primo esame qui, e andare da soli fa stare solo peggio. In più alle nove mi devo trovare con delle compagne di corso, quindi dovrei andarci comunque.»
«Ma... non serve» mormoro, alzandomi per sparecchiare. «Alla fin fine è solo una propedeuticità, no? Se non lo passo ci riprovo in estate o altrimenti finché non ci riesco.»
Becky tossisce, poi si schiarisce la voce. «Alyna, smettila di tergiversare. È un esame importante, è il tuo primo test in Germania, e hai studiato tanto proprio per passarlo indenne, per mettere già questi crediti in vista del Master che inizia a settembre. So che ti farebbe stare meglio, essere in compagnia, e lo faccio proprio per questo: per te. Okay?»
Mi volto verso di lei e annuisco, sincera. Che bello avere una persona come te, Rebekka.
Quaranta minuti più tardi, incredibilmente, io e Becky siamo davanti alla fermata del tram, in perfetto orario sulla mia tabella di marcia, vestite, profumate, truccate - io solo un velo di rossetto neutro, più per difendere le labbra dal vento di Berlino che non per mostrarmi bella - e sveglie.
«Allora, che numero sei?»
«La quarta» sbotto, secca. Il nervosismo mi sta per uccidere e non ho idea di come farò a sopravvivere alle prossime due ore: qualcuno mi aiuti, 'sta cosa mi mangia dentro.
Becky ridacchia, poi mi afferra la mano e mi trascina sul tram che si è appena fermato. Riesce a scovare due posti vicini, sul fondo, e mi adagia al suo fianco come si farebbe con un sacco di patate. Fruga incessantemente dentro la borsa, finché non ne tira fuori il cellulare e due paia di cuffie: inserisce i jack - ormai, a forza di stare con Matthew, ho imparato una terminologia tutta elettro-strumentale - in uno sdoppiatore e poi mi allunga le cuffiette rosse.
«Dammi retta. Dai retta a me e a Matthew: la musica ti aiuta.»
Le ho parlato di Matt, in queste settimane. Le ho parlato a cuore aperto, come si fa solo con le amiche profonde, vere, irrinunciabili. Le ho detto che inizio a sentirmi normale, con lui, a prenderci gusto con le sue battute, ad attendere col sorriso le volte in cui fa quel ghigno che adoro, i momenti in cui si china verso di me e mi sfiora con le labbra. È stato un modo per rendermi conto io stessa di quanto ci siamo avvicinati: Matthew è ormai un qualcosa che bramo, che desidero avere in ogni istante, con le sue risate, con le note che mi fa percepire attraverso di sé, con l'imprevedibile e il dinamico che si porta dietro.
E quindi ora Becky sa, sa cosa provo - forse lei lo ha capito meglio di quanto ci sia riuscita io - e sa che Matthew è importante. Tanto.
Sotto lo sguardo attento della mia coinquilina, infilo le cuffie nelle orecchie, pensando ancora al bassista, a quando dovrò dirgli se sarò passata o meno all'esame, a cosa penserà di me, e ti vorrei qui ora, Matt, a tenermi per il passante dei jeans e a farmi scudo col braccio.
«Non ascolto la sua musica, dovrai adattarti agli anni ottanta» spiega Becky con un sorriso sornione, e poi preme play.
Io mi lascio invadere dal suono, da queste tastiere e dalla chitarra e dalla batteria e da questa voce di uomo che canta «boys don't cry». Anche se il testo è triste - così tanto triste - la musica è davvero bella, quasi spensierata, e se fa a cazzotti con le parole quantomeno mi cede un attimo di conforto, una serena tranquillità che sfuma passo passo nella successiva, e in quella dopo ancora, finché perdo il conto dei minuti e mentre mormoro tra le labbra il ritornello dell'ennesima canzone - «girls just wanna have fun» non è una frase che si dimentica in fretta - Becky mi fa segno che è ora di scendere.
Come, di già? No, aspetta, io torno indietro.
E invece scendo dal tram, mi incammino verso l'università, entro, cammino lungo i corridoi... e faccio tutto in silenzio, con Becky al mio fianco che per qualche minuto smette di parlare. Quando arriviamo davanti alla porta dell'aula di tedesco sono le otto in punto: la mia ansia dovrà rimanermi compagna per un'altra ora, almeno.
Mi guardo in giro, alla ricerca di qualche viso noto. Thomàs è già qui, da solo: mi si avvicina e saluta Rebekka con un cenno. «Gli altri arrivano dopo, sono in fondo alla lista» dice, con un sorriso che mi rivela che anche lui è intimorito.
Becky mi abbraccia e mi lascia un bacio sui capelli. «Spaccagli il culo a quel rincoglionito del prof, meine lieben Veilchen» sussurra, e quando le faccio cenno di sì - io ci provo, Becky, ma non rimanere delusa se non ci riesco - si allontana, lasciandomi qui a mordermi le labbra.
Mi siedo vicino a Thomàs, la schiena contro il muro e le gambe incrociate, in attesa che qualcuno venga ad aprire l'aula per permetterci di entrare.
«Nervosa?» fa lui, piano.
«Un pochino» ammetto, anche se pochino è decisamente riduttivo.
«Non dovrebbe essere atroce, lui. Dicono che fa domande generiche sulla grammatica, ti fa leggere e tradurre un testo, qualche quesito su argomenti banali e poi ti da cinque minuti per scrivere una lettera.»
«Una lettera?» domando, l'ansia che mi scavalca lo stomaco e risale la gola, graffiandomi con le sue unghie affilatissime.
«Ma sì, una decina di righe di presentazione, o di richiesta di lavoro... tranquilla.»
Facile, per lui che è mezzo tedesco, dirmi che posso stare tranquilla: Thomàs e i suoi compagni devono dare questo esame perché non hanno una votazione di prima laurea sufficiente ad accedere ai Master direttamente, ma loro sono originari di questo paese - Thomàs solo per metà, ma parla fluentemente sia tedesco che spagnolo - mentre io vengo da un posto completamente diverso e sto studiando solo da pochi mesi.
«Speriamo» sussurro, incastrando la testa tra le mani.
Respira, Alyna, respira.
Qui fuori comincia ad essere affollato, e io continuo a guardarmi attorno, perché inconsciamente credo mi aspettassi di vedere qualcuno, qui fuori, di ricevere un altro «in bocca al lupo», un altro «sarai grande».
Invece non c'è nessun'altro, per me.
Dieci minuti prima dell'appello l'aula viene aperta: ognuno di noi prende posto, silenzioso, con pile di appunti e libri davanti a sé. C'è chi batte il piede contro la sedia - facendoci sussultare tutti - chi snocciola declinazioni chi ascolta qualcosa dalle cuffie chi chiude gli occhi e ripassa muto chi fa domande a raffica al vicino.
E io mi sento piccola, piccola piccola, e il timore mi assale: vorrei fuggire non sono pronta ho dimenticato tutto.
Poi il professore fa il suo ingresso: cade il silenzio, tanto che si percepisce ogni suo movimento - sono in decima fila e sento il fruscio della sua cravatta contro la camicia quando apre la giacca. Al suo fianco si siedono due assistenti, e assieme iniziano a fare l'appello. Io rispondo subito, e mi rendo conto che la mia ora è vicina: troppo vicina, sono in tre e io sono la quarta, tra dieci minuti tocca a me.
Il primo turno di ragazzi viene chiamato in cattedra. Io li guardo, con gli occhi strabuzzati e le orecchie sorde, e la tentazione di fuggire è sempre più grande.
Ma poi, quando il professore fa il mio nome, mi alzo come un autonoma: nei suoi occhi leggo gentilezza, e mi ricordo improvvisamente che ho qualcosa da dimostrare, qui, oggi. Non posso fallire, non con baba che crede sia una perdita di tempo, non con anne che so sarebbe felicissima di vedermi riuscire bene, non con Becky che mi ha supportato per tutti questi mesi, non con Matthew che dice che lo so, il tedesco.
«Buongiorno, signorina Kaya. Prego, si sieda.»
***
«Sei stata bravissima, Alyna!» esclama sottovoce Thomàs, mentre infilo il badge nella borsa nella fretta di fuggire da qui.
«Grazie» rispondo sorridendo, poi lo saluto e gli auguro buona fortuna. «Fatti valere, Thomàs. Poi dimmi com'è andata!»
Una volta fuori dall'aula, accendo il cellulare e invio subito un messaggio a Becky.
"Fatta! É andata superbene, 30. Sei stata la mia salvezza, ti adoro."
Una mano mi afferra il gomito, mentre ancora sto guardando la chat sullo schermo. Alzo gli occhi di scatto, un po' impaurita, e mi trovo davanti il volto corrucciato di Matthew.
«Matt! Che ci fai qui?» chiedo, stupita.
Sei qui. Matt. Sei qui. Mi tieni il passante dei jeans, per favore?
Lui non risponde. Ha gli occhi gonfi, la linea della bocca dritta e serrata, i capelli che gli cadono sulle tempie senza un ordine.
«Matt. Che c'è?»
Lui sbatte le palpebre, si passa la lingua sulle labbra. «Com'è andata?»
«Bene» sussurro. «Ma cosa succede?»
Una fitta di preoccupazione inizia a invadere il mio cervello, ancora ottuso dopo l'adrenalina e l'ansia e il timore di poco fa.
«Bene cosa significa?»
«Matthew, ma che...»
«Quanto hai preso?»
«Trenta» sbotto. «Ma non importa mi vuoi dire che succede o no?»
In un istante tutta la stanchezza e il timore che leggevo nel suo volto mutano forma: sorride, Matthew - anzi, ghigna, come sempre -, e mi fa vedere i denti pallidi e le gengive rosse. «Lo sapevo» sussurra.
Io rimango inebetita, a guardarlo per cercare di capire che diamine sia successo.
«Sono qui dalle otto e mezza - non era quella l'ora della convocazione? - e stavo aspettando che uscissi. Cristo, credimi: avevo più ansia dentro io di quella che hai tu. Mi veniva voglia di vomitare.»
«Ma perché sei venuto qui?» esclamo, ridendo. «Ero capace di tornare a casa da sola, eh! E pure di fare l'esame» anche se ora che ci sei tu è tutto diverso, tutto più vero e bello.
Matthew mi tira a sé, abbracciandomi, stretta. «Perché volevo accertarmi che fosse andato tutto per il meglio, Alyna.»
Io sento un grumo di malinconia salirmi allo stomaco: è così rassicurante avere qualcuno che aspetta con te, che è in pensiero per i tuoi risultati, che spera nei tuoi successi. «Grazie di essere venuto» mormoro, spingendo la guancia contro il suo sterno.
Rimaniamo così per un po', e più tempo passa più sento la tensione svanire e la stanchezza scendermi addosso. «Ti va un caffè?» chiedo. «Ne ho assoluto bisogno.»
«Certo, berlinese!» risponde Matt, staccandomi le braccia dalla schiena e afferrandomi la mano. «Ora sei proprio berlinese, sai? Hai superato un esame di lingua, qui dopo quello è tutto in discesa.»
Io sorrido, e nel mentre sento che le sue dita si infilano prepotenti tra le mie. Il cuore mi balza al petto, le guance si scaldano e io non riesco più a muovermi, so solo che sto iniziando a sudare e guardo i suoi occhi scuri nel tentativo di trovarci una risposta a tutto quello che non capisco.
«Alyna, arrossisci per così poco?» mormora Matthew, alzando le nostre mani intrecciate finché non entrano nel mio campo visivo.
Io non so rispondere: chiudo gli occhi e cerco di staccarmi dalla sua presa. Ma lui non molla, mi strattona.
«Matt, per favore...»
«Alyna, non... che succede?» mormora, posandomi l'altra mano sulla fronte.
Le sue dita si infilano tra i miei capelli, lasciandosi dietro solo calore e una sensazione immensamente piacevole. Matthew, ho paura. Sento troppe cose.
«Usciamo fuori un secondo, per favore?»
«Certo.»
Apro gli occhi, e lo vedo ancora qui, davanti a me, il volto un po' corrucciato di chi sta cercando di capire cosa mi passa per la testa. Vorrei saperlo anche io, Matt. Vorrei così tanto stringerti e starti addosso, ma allo stesso tempo ho una paura folle. Perché tu sei tremendamente diverso, da me. E io non ti so affrontare.
Matthew mi sorride, e mi accompagna - le dita ancora ancorate alle mie - verso il cortile esterno, che dà sulla strada.
Fuori, al sole, con la luce che mi tocca le palpebre e l'aria che mi entra nei polmoni, mi lascio invadere da questa sottile sensazione di nuovo che la primavera sta iniziando a portare in città.
Mi volto verso Matthew, e mentre lui mi osserva tranquillo - gli occhi così scuri, così grandi, così placidi - mi sento di nuovo persa.
«Va meglio ora?» sussurra, posandomi la mano libera contro il fianco.
La strofina contro la maglia, poi scende e fa il giro dietro, arriva alla schiena, passa con un dito dove sa che c'è il bordo dei miei pantaloni.
Continua a sorridermi, con una calma che sente solo lui - perché io ho perso il filo del discorso e della ragione - e che gli dona un'aria tremendamente sincera, reale, da ragazzo. Mi guarda negli occhi, sicuro, mentre la mano alza il mio maglioncino sottile e un polpastrello raggiunge la pelle. Si ferma lì, con un centimetro quadro di pelle contro la mia. Immobile.
Lui è immobile, mentre io non riesco a stare ferma: mi trema tutto, dalle ginocchia al labbro superiore. Cosa mi fai, Matt? Mi avvicino istintivamente, fino a toccare la sua cintura con la pancia, perché non ce la faccio, voglio qualcosa e anche se non so cos'è so che è lui che può darmela.
Sorride di nuovo, Matthew, con quel ghigno insolente che ho imparato ad adorare. «Che fai, Alyna?»
Non parlo, ma stringo la presa sulle sue dita, e anche se i nostri palmi sono umidicci lui risponde posando tutta la mano contro la mia schiena nuda, come se volesse davvero tenermi vicina a sé, in questo scambio di calore. Si stringe a me, mi appoggia il petto contro, mi continua a guardare negli occhi senza battere ciglio.
«Ehi» sussurra, chinando la testa fino a sfiorarmi i capelli con la guancia. «Questo è un ritmo da Roger Taylor, piccina. Non ci siamo ancora arrivati ai Queen» dice.
«Co-cosa?»
«Il tuo cuore, Alyna. Batte come una grancassa.»
Io non posso impedirmi di ridere, perché è vero, verissimo, che me lo sento contro i polmoni e la cassa toracica, quasi volesse uscir fuori e farsi vedere. «È colpa tua.»
«No, qui è merito, non colpa.»
«Uh, davvero?»
«Quando un cuore batte così, non può essere che per cose belle.»
E il tuo, batte? Come batte?
«È una cosa bella, per te? O è... normale?» chiedo in un sussurro.
«Normale? Non ho mai sentito un cuore battere come il tuo, Alyna. Non con questo ritmo. E sta battendo contro di me, quindi... lo sento anche io, ed è bello. È bello, con te.»
«Okay.»
Non dico altro, perché la mia mente cerca di ricordarmi che non sono l'unica e non sono la prima, e sicuramente lui ha fatto mille cose più belle di questa che è solo abbracciarmi e toccare la mia pelle - quante altre pelli migliori della mia esistono, al mondo? Migliaia, milioni, miliardi...
«Alyna, il mio... c'è... uhm, a qualcuno piace più che al tuo cuore» dice Matthew.
Lo guardo, confusa. «Che?»
Matthew digrigna i denti, spalanca le labbra, sorride come solo lui sa fare. «Indovina... finisce per -one.»
Mi ha abituata a capire i suoi pensieri, ormai, e quindi ci vuole poco per giungere alla conclusione che, come sempre, sta facendo una battuta volgare delle sue. «Ma la smetti di dire cavolate?» esclamo, le mascelle che mi fanno male da quanto sorrido. «Non si può mai fare un discorso serio con te.»
Lui strizza gli occhi in un'espressione di disaccordo. «Invece è molto importante questo discorso, signorina. Oggi come oggi, coi tempi che corrono, è essenziale essere uomini prima che protuberanze...»
Ma che sta dicendo? Davvero? Non ci credo, ancora con i suoi farfugliamenti sulle dimensioni. Ma quanto mi piace, quando fa il cretino così. Quanto mi piace la sua ilarità sconcia. Quanto mi piace.
«...bisogna farsi amare per la tenerezza invece che per la durezza...»
Riesce a essere così serio pure quando dice queste scemenze. È così divertente, così ridicolo, così vivido e colorato il suo modo di fare, di parlare, di prendermi in giro. È così bello, stare qui, sentirlo ovunque e stare ad ascoltare mentre blatera a caso... è così bello. Mi sento così bene. Vorrei poterglielo dire, quanto adoro stare così. Vorrei poterglielo urlare, che mi ha ridato la gioia da quando lo conosco.
«... si deve pensare con il cervello invece che con il cazz-»
E Matthew ora tace, mentre i suoi occhi si sgranano e la mia bocca arriva a toccare la sua. Mi sono lanciata, con una paura tremenda ma la voglia atroce di fargli sentire quanto bene mi fa. Dovevo farlo, oggi che sono felice, ora che l'adrenalina sta scemando e mi sento chiusa in una bolla di spensieratezza. Dovevo, dovevo sentire finalmente sul serio che si prova a contatto con lui. Dovevo sfogare questa eccitazione repressa che lui stesso mi mette addosso da settimane, ormai.
Ed è assurdamente diverso da qualsiasi altra cosa.
Matthew mi molla la mano sinistra e posa il palmo sopra i miei occhi, costringendoli a chiudersi. L'altra mano spinge ancora di più - e sembra impossibile, stare più vicini di quanto stiamo - in fondo alla schiena. Mi lecca le labbra, e io non esito un secondo a schiuderle.
È tutto caldissimo, qui, e non riesco a pensare non riesco a sentire non riesco a fare niente se non a lasciare a lui il comando di questa cosa. È assurdo, bellissimo. È Matthew.
Poi, inaspettatamente, Matt mi morde un labbro: sento il lieve dolore causato dai suoi incisivi sulla carne della mia bocca, e per un attimo rimango, a sentirmi completamente dentroa questa cosa... poi mi scosto, di scatto.
Apro gli occhi, sbattendoli per ritrovare il giusto contatto con la luce del sole, e lo guardo malissimo. Matthew non dice nulla: ghigna, ride, mi afferra il mento con una mano e si fionda di nuovo sulle mie labbra.
Mi bacia ancora, con lo stesso vigore di prima, la stessa impaziente decisione, poi fa schioccare le nostre bocche e si allontana di qualche centimetro. «Sai di Alyna.»
Ma che dice? «Tu... tu, invece... Come ti è venuto in mente di... mordermi?» sussurro, una via di mezzo tra arrabbiata e imbarazzata. Lo sapevo, che non sono alla sua altezza, che non so tenergli testa, che lui è diverso da me. Troppo.
Matthew non cede di un millimetro: mi afferra per i fianchi e mi guarda dritto nelle pupille. «Volevi un primo bacio da film? Non sono quel tipo di uomo, Alyna. E tu non sei quel tipo di donna.»
Che stai dicendo?
Alza una mano, mi accarezza la guancia. «Questo non è un film, Aktivist. Qui ci siamo io e te e la verità. C'è un cazzone che lavora in un bar e suona il basso e coltiva marijuana, c'è una ragazza di Istanbul che è fuggita via da casa e studia e non ascolta musica, c'è una città enorme e bella e piena di gente ma rumorosa e affollata e inquinata. Niente fiabe, niente romanzi d'amore, qui. Solo realtà.»
E tutto quello che hai detto ha senso, Matt. Ha fin troppo senso, perchè io e te siamo diversi e non è una storia d'amore, non è un incontro di anime affini, non è incrocio di battiti e carne. «Lo so» rispondo. «Non cerco film, io.»
«E allora perché mi hai chiesto del morso?»
«Perché...» Dai, dillo. «Perché non mi immaginavo qualcuno lo avrebbe mai fatto. Non a me.»
«Non sono qualcuno. Sono un bassista cazzone che coltiva erba» sussurra, quasi fosse un segreto.
Io sorrido davanti alla sua spontaneità, e annuisco. Lui è Matthew. E lo sto scoprendo piano piano, che uomo è. Fidandomi più del lecito, desiderandolo più del necessario. «E io sono una turca scappata di casa che nonascoltavamusica. Ora l'ascolto.»
«Vero. Con un grande insegnante, pure.»
«Che suona il basso» dico, sondando la sua reazione. Mi sono accorta che ha parlato al presente, non al passato. «Suoni di nuovo, Matthew?»
Lui, incredibilmente, per la prima volta da quando l'ho conosciuto, abbassa lo sguardo e arrossisce un po'. Io rimango in silenzio: aspetto, ho tutto il tempo del mondo. So che me lo dirà.
Quando torna a guardarmi, sono io ad allungare una mano per passare le dita tra i suoi capelli: li sistemo, gli infilo una ciocca dietro l'orecchio, strofino il pollice contro il suo collo.
«Potrei aver ricominciato a suonare, sì» mormora, un lieve sorriso a dirmi che ha paura di ciò che ha detto.
«Bene» rispondo. «Adesso me lo offri un caffè, bassista cazzone?»
Lui annuisce, mi prende di nuovo per mano e mi fa strada verso il bar.
Non diciamo altro, sulla musica, sul suo basso Charlotte, sul perché e quando e come abbia ricominciato a suonare: lui ha il terrore - lo vedo e lo sento - che sia solo una parentesi, e io ho la certezza che facendogli domande peggiorerei solo le cose. Scoppio di gioia, a pensare che lui si sia ritrovato un po' come io sono riuscita a scoprirmi finalmente, in questi mesi, ma voglio aspettare che sia lui, a parlarne.
Dopotutto, abbiamo tempo per fare le cose con calma. Ora che ho sentito cosa provo sul serio a lasciarmi andare, ho tanta voglia di mollare i freni ancora e ancora e ancora. Con calma o veloce, non mi interessa: basta che ci sia lui, il bassista barista cazzone con la marijuana, che ci sia io, la turca fuggita di casa che studia, e che ci sia Berlino, la città grande e bella ma grigia e odorosa.
Niente fiabe, solo realtà.
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