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24. (A) Con calma, Matthew

Matthew è una tempesta di emozioni. Pochi minuti fa mi stringeva a sé implorandomi di non staccarmi dalle sue mani, ora sta tracannando birra scurissima mentre spara battute una dietro l'altra.

È impossibile stargli dietro, comprendere ciò che pensa, rispondere adeguatamente ai momenti in cui ha le difese abbassate e a quelli in cui torna il cazzone di sempre. Eppure, anche se impazzisco dietro a ogni suo sghignazzo e a ogni singhiozzo di timore, tutta quest'altalena non fa altro che renderlo sempre più vero ai miei occhi.

Non si difende più, Matthew, non si nasconde più da me, e mi lascia cogliere ogni sua piccola crepa e ogni dettaglio come se fosse un dipinto e io potessi sondarlo a raggi x. E lo fa con un'innocenza e una semplicità tali che mi sento male a pensare quanto io stia celando ai suoi, di occhi: padre, madre, vita a Istanbul, di cui lui non sa niente e che ho il terrore di rivelare.

«Alyna!» esclama Matthew, trascinandomi al suo fianco con una presa ferrea sul polso. «Mostra i tuoi occhi a Lucs: dice che prima erano le luci a farli sembrare viola.»

Io sorrido imbarazzata, perché so che questo sguardo è da sempre una specie di attrazione per tutti quelli che riescono ad avvicinarsi a meno di un metro dal mio volto.

«Cristo santissimo» mormora Luciano, le iridi scure puntate come laser dentro le mie. «Sono blu così scuro che pare viola. Proprio vero.»

Io mi ritraggo leggermente, fingendo un sorriso che non mi appartiene; Matthew pare cogliere la mia incertezza, perché infila una mano dietro la mia schiena e aggancia tra le dita un passante dei miei pantaloni. «Su, adesso basta romperle le scatole» mormora, e io sento il suo tono basso risuonarmi sulle costole che tengo attaccate al suo fianco.

«Matt la vuole tutta per sé, ragazzi. Niente comunione dei beni, oggi» butta lì Theobald, un sorriso sardonico sul volto che lo rende immensamente comico.

«Non è un bene, lei» sibila Matthew, tirandomi più stretta a sé, tanto che mi trovo con l'orecchio appoggiato contro il suo bicipite, improvvisamente aderente a lui in ogni mia parte.

Arrossisco, imbarazzata dal suo tentativo – un po' brillo – di mostrarsi geloso e dalla vicinanza così intima che mi trovo a condividere in questo momento. Matthew, vai con calma, per piacere.

«Si scherza, Matthew. Lo sai» interviene Yuriy, alzandosi dalla sedia per avvicinarsi a noi. «A proposito di scherzi: hai visto, allora, che coltiva davvero erba

Io annuisco, sfilandomi con calma da questo abbraccio troppo denso. Ma Matt mi trattiene per i pantaloni, e quando mi giro a guardarlo scorgo nei suoi occhi una supplica che sa quasi di nostalgia. Che ti succede?

«Pensati che stava per bruciarle tutte, il cazzone!» riprende Yuriy, attirando la mia attenzione.

«E perché mai?» mi trovo a chiedere, il cervello che elabora parole mentre le mie viscere si chiedono insistentemente cosa stia pensando Matt, cosa gli sia capitato, perché stasera sia così giù di morale – c'entro mica io, vero?

«Erano infestate dai tripidi» interviene Theobald, tra le risate generali. «Insomma, insetti. E l'unico modo per disfarsene secondo lui era bruciare tutto, lavare con la candeggina, imbiancare di calce e ricominciare daccapo.»

Percepisco distintamente Matthew che sbuffa, dietro di me, ma sorrido e invito i suoi amici a proseguire: mi sembra di stare dentro la loro vita, ascoltando queste cose, e non voglio perdermi l'opportunità di capire di più l'uomo che mi sta a fianco, e che in questo momento sta sfiorando con un dito il bordo dei miei pantaloni – Matthew, ti prego, con calma.

«Alla fine siamo riusciti a salvarle tutte perché Aaron, il collega di Matt, conosce qualche trucchetto utile: abbiamo sciolto del sapone di Marsiglia – non hai idea di quanto costi! – in un paio di litri d'acqua e annaffiato il tutto per una settimana. Alla fine, come nuove» conclude Theo.

«Anzi, forse ancora più buone!» esclama Luciano. «Che dite, ragazzi? La prossima volta le facciamo provare la produzione?»

Matthew molla improvvisamente la sua lenta carezza, e me lo ritrovo davanti. «La prossima volta, sì» ribadisce. «Al prossimo raccolto.»

Sorrido, quasi inebetita di fronte a questi quattro ragazzoni che in una cucina al secondo piano di un palazzo grigiastro alla periferia di Berlino mi propongono di fumare la loro marijuana la prossima volta che faranno "raccolto". «Quando, circa? Tanto per tenermi libera» chiedo.

Matthew si volta, le labbra socchiuse e gli occhi sorpresi di chi non si aspettava parole simili. «Che diavolo...» mormora, prima di venire travolto dalle risate degli altri.

«Due settimane, secondo i miei calcoli» ribatte prontamente Luciano, gli occhi scuri che cercano Matthew quasi a trovare una conferma.

Matt scuote la testa, allunga una mano verso Theo e gliela batte contro la spalla. «Ci siamo portati in casa un mostro» dice, con un sorriso che stenta a nascondere dietro le spalle larghe.

Ma io l'ho visto, sorridere, l'ho capito che è contento di vedermi a mio agio, serena, pacifica, tra i suoi amici – la sua famiglia. E io sono così felice di sentirmi bene qui dentro, di vederli ridere, sentirli scherzare su di me, con me, che non mi sembra vero di aver avuto tutta questa fortuna.

L'ilarità si trasforma presto in un nuovo round di battutacce su vecchi avvenimenti, e quando Theobald accende lo stereo – piccolo, bianco, Yamaha di classe – si perdono tutti e quattro nei ricordi di «quella volta che l'abbiamo suonata in quel parco, e quella in cui siamo andati al concerto degli Stones com'erano vecchi decrepiti, ma sì dai "Rock the Casbah" è quella del video con gli sceicchi, ma davvero non ricordi la tipa che ti ha regalato le mutande di pizzo rosse per San Valentino?»

I minuti e le ore si perdono dentro i loro aneddoti, dietro alle loro risate, addosso alle mani che Matthew lascia vagare insistenti su di me: un pollice sul collo, poi la mano sul ginocchio, l'indice che tamburella sulla coscia, il palmo aperto contro la fine della schiena che mi spinge verso di lui.

Lo lascio fare: è caldo, delicato, arrogante quanto basta per farmi sentire bene, vicina a lui, quasi desiderata.

I ragazzi parlano delle canzoni e lui mi sussurra all'orecchio piccoli sprazzi di storia e teoria, come sempre sbilanciato tra scale di note e pure goliardate di Oasis che saltavano concerti perché Liam non si presentava sul palco.

«Lo sai che una volta a un concerto degli Stones ad Altamont un tipo della "sicurezza" – circa, sicurezza: erano tipi pagati per tenere l'ordine quanto bastava – ha accoltellato un ragazzo? Non hai idea del putiferio.»

«E tu mi vuoi portare a un concerto? Quando potrebbe succedere una cosa simile?»

«Ehi, bambina» mi risponde Matt, chinandosi su di me. «Era il sessantanove, appena dopo Woodstock. Io ti porto in posti sicuri. E poi comunque ci sarò io, a difenderti. Te ne starai sempre tra le mie braccia. Incastrata lì. Nessuno ti tocca» mormora, lasciandomi un lieve bacio sul lobo.

«Ehi, io devo andare» se ne esce Yuriy, tagliando a metà quest'atmosfera d'incanto e di musica. Guarda l'orologio sul polso, lancia un'occhiata a Luciano. «Domani ho i ragazzi al mattino.»

Tutti si affrettano ad annuire, ribadendo i propri impegni: Luciano deve studiare, Theobald ha appuntamento dal suo capo – e io mi trovo a pensare a come sono diversi, a quante cose differenti fanno della vita, e a quanto poco ne so io: che ragazzi, Yuriy? – e Matthew deve iniziare il turno al bar prima di pranzo.

Così, in un batter d'occhio, mi ritrovo in cucina da sola, con Matt e Theo, l'orologio del cellulare che segna le quattro del mattino e l'ansia che mi divora al pensiero che oggi è domenica, ormai, e mercoledì dovrò sostenere il mio primo esame in una lingua che non sento di conoscere ancora.

«Alyna...»

Il mormorio di Matthew mi coglie impreparata, col suo sorriso tenero e il fiato da birra che mi avvolge le sinapsi.

«Devi tornare anche tu?» chiede. «Vuoi che ti accompagni? Ci vuole almeno mezz'ora da qui a Charlottenburg.»

«In realtà... Mi sono trasferita a Fennpfhul da qualche settimana. Condivido l'appartamento con Rebekka, una mia collega. Costa... decisamente meno» rivelo, vergognandomi un po' per non aver mai trovato il tempo di dirlo a Matthew.

Lui non fa una piega, ma si avvicina ancora di più. «Ci vuole comunque mezz'ora, Ayna. E la metro va a rilento, di notte.»

«Me la so cavare da sola, sai?» gli chiedo, sorniona. Non mi fa paura, questa città. E anche se non devo più nascondere nessun hotel a farmi da casa, voglio comunque tornare da sola.
Con calma, Matthew.

Lui mugugna qualcosa, facendo sorridere Theobald, poi si offre di accompagnarmi almeno alla fermata. «Così ti saluto.»

Scendiamo le scale, io davanti lui dietro, che traffica col cappotto per riuscire a infilarselo sopra la t-shirt.

«Fa un freddo cane» mormora una volta in strada, e a me non riesce che sorridere davanti al suo giubbetto di jeans stretto alle braccia pallide, mentre mi crogiolo nel tepore del mio caldo cappotto di lana.

«Non è ancora primavera, Matt» ribadisco, guardando gli alberi sopra di noi. «Lo vedi?» dico, indicandone i rami. «Sono ancora spogli, le gemme non si vedono.»

Quando mi giro per cercare la sua approvazione, Matthew non c'è più. Il cuore mi precipita sotto lo sterno, mi manca il respiro, e in un istante vengo invasa da una paura irrazionale e tremenda. Sono da sola. Ma lui, lui dov'è? Di questo, ho paura. Non per me, non di altri. Per lui. Perché non c'è? Perché se n'è andato senza dire niente? Perché mi ha lasciata qui, su uno squallido marciapiede, alle quattro della domenica mattina? Chi l'ha preso? Cos'è capitato?

«Ehi, Alyna.»

La voce che mi sussurra dritto nell'orecchio ha il potere immediato di farmi calmare. È calda, profonda, così conosciuta che ormai la sento parte della mia vita. Mi volto di scatto, e allaccio le braccia al collo di Matthew, che mi guarda stupito e un po' pensieroso.

«Che succede? Ti volevo solo fare uno scherzo.»

«Non ci provare più» mormoro, le labbra attaccate al jeans della sua giacca. «Mi hai messo il terrore addosso.»

«Terrore di cosa?»

«Che te ne fossi andato.»

«E dove?»

«Non so...»

Matthew mi solleva il viso con entrambe le mani, e mentre mi guarda negli occhi riesco a capire che davvero era preoccupato per la mia reazione. «Posso portarti a casa?» mi chiede, serio.

E non posso dire altro che sì, non posso far altro che accettare la sua proposta, perché sento le gambe ancora di gelatina e il cuore non smette di battere impazzito sotto la maglia.

Seduti uno di fronte all'altra, sui sedili blu della metro, non riesco a levarmi di torno gli occhi di Matthew: mi continua a osservare, calmo e pacato, con quelle iridi nocciola a cui vorrei fare più domande di quelle che riesco a formulare.

Perché non riusciamo ad andare con calma, Matthew?
Perché mi stai già accompagnando a casa?
Perché sono le cinque e mezza del mattino e io ho soltanto voglia di una colazione al bar con te?

«A che pensi?» mi chiede Matthew, alla costante ricerca di sondarmi dentro.

«Che stasera eri diverso.»

«In che senso?»

Lo dico o non lo dico? «Sembravi... non lo so, Matthew. Sembrava che io ti servissi. In qualche modo.»

Ecco, l'ho detto. Ma vorrei non averlo fatto: gli occhi di Matt si sono scuriti e ora mi guardano in modo strano, quasi a chiedermi se davvero la penso così, se davvero ho iniziato a credermi così importante per lui.

«Tu mi servi, Alyna. Non per qualche scopo specifico, per un lavoro di gruppo universitario, per diminuire le spese, per farmi da spalla, per accompagnarmi ai galà...»

«Non ti ci vedo proprio ai galà, sai?»

Matthew fa un piccolo ghigno dei suoi, puoi scuote la testa. «Mi servi perché mi fai stare bene, perché mi stai facendo tornare felice, perché... perché sei tu e tu sei importante.»

Non so rispondere, a questo. Devo rispondere? Questa corsa mi leva il fiato e le parole.

Matthew allunga una mano, afferra la mia. «Alyna. Tu, i tuoi occhi, il tuo sorriso, il tuo calore, mi fate stare bene. Ti serve sapere altro? Ho ancora momenti di crisi. Ma se ci sei tu e posso sentirti su di me vedo un po' meno disastrosa tutta la mia vita.»

Annuisco, strofino le dita contro le sue. «Va bene. Mi piaci, mi piace stare con te e sentirti vicino. Mi piace...»

«Cosa?»

Le guance mi avvampano e i polpastrelli sudano, mentre tento di tirare fuori quelle due parole che volevo dire ma che ora si sono incastrate nella mia gola. Perché sono sempre così timida, così imbarazzata quando devo parlare di cose così importanti? Perché nessuno mi ha insegnato a spiegare cosa mi piace?

«Alyna» mi riprende Matthew, guardandosi attorno, «non c'è nessuno. Dimmi.»

«Mi piace come mi sfiori. Le tue mani, le tue dita... sono delicate. Suoni.»

«Quanto hai bevuto?»

Io sbuffo, contrita. «Di certo non quanto te» dico. «E comunque le penso, queste cose.»

«Non avevo dubbi» ribatte lui, il suo ghigno strafottente sul volto. «Ma temevo non me le avresti mai dette.»

Tutto questo scambio anche troppo sincero è interrotto dall'annuncio della fermata successiva: è la mia.

Ci alziamo in piedi assieme, quando si aprono le porte scendiamo e risaliamo lo stretto corridoio che ci porta in superficie.

Lì, con la notte che inizia a schiarirsi sopra le nostre teste, Matthew allunga una mano per raccogliere una ciocca dei miei capelli. Se la rigira tra le dita chiarissime, e io mi attardo a guardare come sono diversi i colori che portiamo su di noi.

«Ti va di fare colazione assieme?» mi chiede.

«Okay» rispondo, improvvisata bugiarda. Perché volevo dire "sì, Matthew, portami dove vuoi e io ci verrò. Con te."

E così finiamo in un bar, al caldo, dietro una vetrina che dà sulla strada mezza deserta, un pasticcino tra le mani e due tazzone di caffè americano che fumano davanti ai nostri occhi. Matthew legge il giornale, il Berliner Zeitung che ha preso assieme alla nostra colazione, e sembra dimenticare che io sono qui con lui. Ma tutta questa scena – il caffè scuro, i suoi occhi stanchi cerchiati dal sonno che leggono voraci, le mie mani attorno al pasticcino rosso scuro, i lampioni fuori che pian piano si affievoliscono lasciando spazio all'alba – è così familiare, così vera, così giusta che io mi attardo a scrutarne ogni dettaglio.

E quando Matt mi allunga il giornale per lasciarmelo leggere mentre beve il suo caffè io lo prendo, sfoglio le pagine, leggo i titoli e i sottotitoli e la gioia di capirli mi riempie di sicurezza in vista dell'esame. Un articolo su un nuovo centro artistico attira la mia attenzione, e mi ritrovo a leggere tutte le colonne e a capire perché tutti amino così tanto questa città: è piena di occasioni, di persone, di cose da fare e vedere e provare.

Quando sollevo gli occhi dalla carta trovo Matthew che mi guarda, la bocca spalancata sopra il suo cornetto e un baffo di zucchero sulla guancia. Allungo una mano per pulirlo – calma, Alyna, calma! – e poi gli sorrido, ripiegando il giornale.

«L'hai letto velocemente. All'esame farai un figurone» dice, la bocca impiastricciata di marmellata.

Io abbasso la testa, pensando che lui si ricorda del mio esame e io nemmeno so che tipo di musica suoni. Matthew, vai veloce solo dove vuoi. «Speriamo.»

«Quand'è?»

«Mercoledì mattina. È orale, ma sono tra i primi della lista quindi finirò presto, spero.»

«Vedrai che andrà bene. Non ho dubbi.»

«Ma se non mi hai mai sentita parlare tedesco!» ribatto io, ridacchiando.

Matthew finisce di sgranocchiare il cornetto, poi si pulisce le mani e si allunga verso di me, sopra il tavolo. «Avanti, parlami dell'articolo che hai letto.»

«Io non... sono le sei del mattino, Matthew, sono stanca e non penso proprio che...»

«Avanti, Alyna» sillaba lui, gli occhi attenti che non mi si scollano di dosso. «Lass mich fühlen, Aktivist. Fammi sentire.»

E invece di alzarmi e andarmene, invece di dirgli di no, che non voglio, che mi imbarazza, che mi fa sentire inadeguata, io lo guardo dritto in viso – in quelle pupille grandi e curiose – e inizio a parlare.

E parlo, parlo, parlo finché il bar non si riempie di persone e il chiacchiericcio mi sommerge, ma io continuo a parlare e a rispondere a Matthew, che mi chiede come andavo a scuola, com'era l'università che ho frequentato, a cosa mi piaceva giocare da piccola.

E le domande gliele faccio anche io, e scopro che ha fatto il calciatore finché non si è iscritto all'università, e che ha imparato a suonare il basso da piccolino con l'aiuto di un amico più grande, e che sua madre lo voleva insegnante e lui invece ha deciso di venire qui per provare a vedere dove lo porterà la musica.

«E sai qual è la prima canzone che ho imparato a suonare?» mi fa, tornando all'inglese che gli arrotola le r e lo fa sembrare di nuovo quello che è.

Scuoto la testa, curiosa. «Quale?»

«"Love in an elevator".»

Mi viene da ridere. «Dai! Beh, è bellissima.»

«Allora, mi sto facendo amare un poco di più?» chiede di botto, una mano così vicina alla mia che ne sento il calore.

Can I see you later
And love you just a little more?

Le parole degli Aerosmith mi suonano nella testa, mentre ripeto tra di me che deve rallentare, deve assolutamente rallentare.

«Nur ein bisschen. Just a little» mormoro, perché in realtà tutta questa calma io non la voglio per davvero. Voglio solo lui, ancora, come oggi e come ieri, con le battute e la tenerezza, e le risate e il giornale letto alle sei della domenica mattina.

Matthew sorride, poi mi afferra il mento con le dita – piano, quasi una carezza – e strofina il pollice contro il bordo delle mie labbra. «Con calma. Abbiamo tempo» sussurra.

E io mi ci sento, calma, pure con la sua mano sulla bocca e questi occhi grandi e scuri che mi sorridono. Sono calma, calmissima. Lui mi fa stare così: in bilico tra la pazzia e il batticuore, ma con una pace dentro che non ho mai sentito prima.

E se la calma è questa – i sussurri e le emozioni confabulate, il caffè e il Berliner Zeitung, le mani sulla cintura e le dita sulla pelle – non immagino cosa succederà quando la calma verrà meno.

Perché allora non saprò resistere, a questa finta calma.
Allora vorrò avere tutto. E ho paura che quel tutto sarà troppo, per me.

«La delusione è sempre dietro l'angolo» dice spesso anne. E io vorrei imparare ad ascoltarla, ma con Matthew è impossibile, pensare a domani, al "dietro l'angolo": con lui è tutto adesso, ora.

Ed è così bello che non mi voglio fermare più.

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