22. (A) Perché la notte appartiene a chi ama
È ormai buio, quando usciamo dai cancelli del Sansoucci Schloss e ci incamminiamo verso il bus che ci porterà alla stazione dei treni.
Matthew avanza deciso, una mano infilata nella tasca dei jeans e l'altra stretta contro il mio fianco sinistro, il braccio che mi avvolge la schiena tenendomi ancorata a lui. Non so perché lo fa, ma quando abbiamo lasciato i giardini mi ha afferrata così, senza mollarmi più, e io non ho chiesto spiegazioni: mi sono fidata, mi sono lasciata prendere come voleva e trascinare dove voleva. Mi bastava – e mi basta – ascoltare le sue chiacchiere sui Melting Pots, i suoi diverbi solitari su quale gruppo inglese sia il più rappresentativo del nuovo millennio, le sue raccomandazioni sul concerto dei Led Zeppelin che ci attende tra un mese – «siamo in parterre, e tu non sei mai stata a un concerto rock. Se oserai anche solo allontanarti da me ti prenderò a botte, giuro.»
Insomma, sta facendo le prove per la ressa del concerto, forse. O forse vuole semplicemente starmi vicino, e io sono così presa da tutto quello che è successo oggi, dalle velate allusioni a una frequentazione seria e senza verità nascoste, che mi crogiolo in questo quieto abbraccio e non desidero null'altro, nulla di più: voglio solo stare così, a sentirlo parlare di ciò che ama e di ciò che fa, fino a che non torneremo a casa e io dovrò ricordarmi che siamo soltanto all'inizio, che le tappe si superano piano piano, e che ogni cosa verrà a suo tempo.
«Perché ti sei portato dietro questo borsone?» gli chiedo, una volta saliti sul bus.
Matthew si accomoda sul sedile a fianco al mio, apre la cerniera della sacca che si è trascinato dietro tutta oggi e mi fa vedere un paio di scarpe, due guantoni – da boxe? –, un cambio di vestiti da palestra.
«Ogni tanto faccio un po' di boxe. Yuriy, il nostro batterista, allena dei ragazzini del quartiere, e io gli do una mano. È stato lui a insegnarmi le quattro mosse in croce che so. È divertente, ottima valvola di sfogo.»
«Non pensavo fossi tipo da boxe.»
«E con questo cosa intendi? Che sono grasso?» esclama, con un'espressione esageratamente sconvolta.
«Ma no! Scemo! Soltanto non ti facevo da pugni, ecco tutto» mi difendo.
«Guarda che non sono grasso» ripete, insistente.
«Non l'ho mai detto né pensato!»
«Non ci credo, non ci credo proprio. Tu pensi che io sia poco in forma» ribatte ancora.
«Dai, smettila! Non è vero!»
«Invece sì. Dammi una mano» mi ordina, tornando serio.
«Perché?»
Non risponde: mi afferra una mano e se la tira in grembo, appoggiandola contro la parte bassa del ventre.
Io trasecolo: «Ma Matthew che stai facendo dai mollami!» esclamo, tentando di ritrarre il polso dalla sua morsa.
Lui non mi lascia andare: ride sguaiatamente, e mi forza a tastare con il palmo sopra la sua cintura. «Senti gli addominali? Eh?»
Non so come liberarmi da questa cosa, quindi prendo un respiro e provo a muovere le dita – sperando che la smetta di imbarazzarmi. Però... però gli addominali non li sento. C'è una lieve pancetta, sotto alle mie dita, niente muscoli bruti né addome piatto.
«Ehm...»
Il suo volto mi si avvicina. «Dillo. Dai, dillo.»
«Non li sento» mi esce, un sussurro sottile quasi inudibile.
Matthew lascia andare la mia mano, e io me la riporto subito in tasca. «Eh sì, ho la pancetta da quarantenne!» esclama tra le risate. «O così, o niente.»
«Ma cosa ti importa, degli addominali e della forza fisica?» chiedo.
«A te non importa che io sia forte e palestrato?»
«Perché dovrebbe?»
Matthew annuisce, poi tira fuori quel ghigno che so non porterà mai a nulla di buono. «Giusto. A te interessa un solo muscolo. E ti assicuro che quello è bello duro, e ben allenato.»
Che sta... oh, no, no! Cavolo, sto diventando un peperone. Perché mi deve sempre imbarazzare così? «Cazzone» sibilo, a denti stretti.
«Esatto!» esclama lui, quasi urlando. «È proprio un cazzone!»
Dopo qualche istante di vergogna assoluta, scoppio a ridere anche io, inevitabilmente, mentre il resto dei passeggeri ci guarda male e la mia sfumatura di rosso raggiunge senz'altro il suo grado massimo.
«Matthew» sussurro, avvicinandomi al suo viso, «... non è un muscolo.»
Lui mi guarda, scuote la testa. «Come no! Certo che il pene è un muscolo. Involontario ma lo è. Cioè, si alza, no?»
«In realtà» inizio a dire, il rossore che mi scotta le guance, «è una questione di vasi sanguigni e tessuti spugnosi. Non so molto di più, però sono certa che non sia un muscolo.»
«Vabbè, non cambia la questione: a te interessa lui, mica la mia pancia» ribatte, strafottente.
«Lui?»
«Il mio cazzone.»
Io non rispondo, ma lo guardo e sorrido. E basta. Non mi importa se sia vero o meno ciò che insinua, non mi importa se crede che il pene sia un muscolo, non mi importa quanto tutto questo pungolarsi sia un gioco e quanto invece sia reale: Matthew è così, sboccato, volgare, deciso e immensamente ridicolo, quando ci si mette. Però va bene così. È lui. È Matthew. Mi fa sentire a casa, pure se arrossisco come un peperone e finisco a parlare di peni su un autobus pieno di gente. Non mi importa.
Casa è stare bene, e io sto benissimo, qui. Ora. Con Matthew e la sua immensa, strafottente allegria.
***
Sul treno, seduti uno di fronte all'altra, Matthew mi allunga una cuffia, tacito invito a rilassarmi ascoltando musica con lui. Smanetta come un pazzo sul telefono, e alla fine fa partire una radio che trasmette musica rock. Non mi dice nulla, non fa un fiato: rilassa le spalle, appoggia la testa al finestrino e chiude gli occhi, lasciandomi qui da sola ad ascoltare la sua musica. Io non riesco a smettere di guardarlo, passando dal collo largo ai capelli che sprofondano sotto le sopracciglia, dalle due linee sottili delle labbra alla mascella dal taglio duro che scompare sotto le ciocche scure. E ascoltando queste note, quelle di canzoni che gli piacciono, non riesco a non immaginarlo sopra un palco, mentre le sue mani corrono sulla chitarra rosa shocking e si lascia trasportare dal suono. La sua dimensione deve mancargli immensamente. Lo leggo nelle gote tese, nei muscoli sotto il mento che sembrano serrare i denti tra loro: Matthew soffre persino ad ascoltarla, questa musica.
Allora allungo la mano, forte di questa nuova minima intimità che si è creata tra noi quest'oggi, e afferro il cellulare tirandolo a me. Matthew non si scompone: non mi ha sentita, oppure vuole lasciarmi fare. Lo schermo ha come screensaver una foto che ritrae lui, Theobald, Yuriy e Luciano, accatastati uno sopra l'altro, con le bocche spalancate in sorrisi immensi e gli occhi chiari di chi è felice: sono un miscuglio di colori, stature e corporature inebriante, bellissimo. Sblocco lo schermo senza difficoltà – non ha nemmeno una password, e la cosa mi infonde un senso di sicurezza strano, che invidio: non ha nulla da nascondere, di sé – e mi trovo davanti una schermata di Spotify che segna il titolo della canzone: "Dude looks like a lady" degli Aerosmith, e non mi stupisco della scelta perché ormai ho capito che questo gruppo gli piace da impazzire. Dopo qualche istante di confusione trovo finalmente il pulsante di ricerca e digito le due parole che ho intesta da qualche minuto.
Quando le prime note entrano nelle cuffie, Matthew stacca la testa dal finestrino e spalanca gli occhi: mi trova qui, sicuramente arrossita, con le palpebre socchiuse, il suo cellulare tra le mani e un sorriso a metà tra lo «scusami» e il «sorpresa!»
Non si arrabbia, non dice nulla: inizia soltanto a mormorare sottovoce le parole della canzone, e quando arriva a quel famoso ritornello sento un improvviso movimento sotto il tavolino che ci divide. Fatico a raccapezzarmi, subito, ma poi comprendo che ciò che percepisco ai lati delle mie ginocchia sono le sue gambe: mi sta stringendo in una morsa forte, prepotente oserei dire. Nel frattempo continua a canticchiare «call me any day or night», e la presa sulle mie giunture si fa ancora più pressante, più desiderosa di chissà cosa.
La canzone finisce, lui si riprende il cellulare e ne fa partire subito un'altra: un piano suona basso ma ritmico, poi emerge una voce roca, piena, credo di donna. Una batteria, dei sonagli. Mi concentro sul testo, e quando la musica si alza e io capisco cosa sta dicendo ho un sobbalzo.
Come on now try and understand
The way I feel when I'm in your hands
Mi tiro più dritta, cerco inconsapevolmente di sfuggire alla morsa ancora presente delle gambe di Matthew, come se dovessi scappare da qualcosa di più grande di me, che non so gestire nella sua interezza perché mi sommerge, mi annebbia, mi porta in un mondo altro da questo.
Ma Matt non mi molla, anzi: una mano sotto al tavolo, mi stringe con forza un ginocchio, finché io non lo guardo. E lì mi calmo. Mi calmo, respiro, vedo. I suoi occhi scuri sono placidi, tranquilli, la bocca sorride, i capelli gli cadono su una guancia, e lui mi sta guardando come per dirmi che posso essere serena, felice, lasciarmi andare finché fuori il mondo scorre. Mi sta dicendo che è tutto normale, ciò che sento e vedo e percepisco, che è tutto ciò che nella vita deve succederti, almeno una volta.
Because the night belongs to lovers
Because the night belongs to lust
Because the night belongs to lovers
Because the night belongs to us
Mi guarda, Matt. Mi guarda con una profondità, un languore, uno scintillio negli occhi che mi fa perdere la coscienza di ogni cosa.
Questa donna mi canta nelle orecchie che la notte appartiene agli amanti, ma la notte ora è confinata fuori dal finestrino e io riesco solo a sentire il cuore che mi sbatte da qualche parte tra il cranio e la cassa toracica. Non riesco bene a capire dove sia finito, il mio cuore: sembra rimbalzare coma una pallina del flipper, perso in quegli occhi castani che mi sorridono sornioni.
Cosa mi succede, Matt? Glielo vorrei chiedere, cosa mi sta succedendo, perché non capisco più niente e sento solo aria nel cervello, ma non riesco a farlo. Mi sono persa, eppure vorrei non ritrovarmi mai più. La notte appartiene a noi, e se noi siamo io e Matt non mi interessa altro: voglio solo rimanere qui a guardarlo e farmi guardare, da qui a quando spunterà l'alba a schiarire la mente e a frenare questa corrente elettrice che mi scuote dentro. Fino ad allora, ben venga l'ubriachezza che sento.
E poi Matthew rompe la magia. Blocca la canzone, lasciandomi sospesa a metà tra un sogno e il resto, poi mi afferra la mano e mi spinge ad alzarmi. Mi trascina al suo fianco, mi fa sedere nel sedile vicino al suo e si tiene la mia mano, prigioniera scura e olivastra, tra le candide dita delle sue.
«Alyna, non vorrei che stessimo tutti e due a farci un'idea sbagliata» mormora, con lo sguardo fisso fuori dal finestrino.
Io mi blocco. Cosa sta dicendo?
«Io non so cosa tu faccia nella vita, quali avventure abbia percorso e da dove esattamente tu sia uscita fuori. Ma con quegli occhi viola già immagino che tipo di vita hai avuto.»
Il suo discorso non ha senso: non ha senso per me questo grumo di parole strane, articolate con calma e dirette al buio che circonda la carrozza del treno.
Si volta verso di me, mi caccia gli occhi negli occhi, serra la stretta sulla mia mano. «Sei così timida. Perché non ti butti?»
«Perché non so come si fa» rispondo in un sussurro.
Matthew tace per un attimo. Mi si avvicina, impedendomi di ritrarmi con una mano che si infila dietro la mia schiena per bloccarmi. Appoggia la fronte sulla mia, e da questi due centimetri sfocati che ci dividono appoggia le labbra sulla punta del mio naso.
Io rimango inerme, a sentirmi avvampare mentre lui sorride e rimane lì, tutto vicino a me.
«Ti sei mai toccata?» mormora.
«Toccata?»
«Toccata come ti toccherei io, adesso» dice lui, e sorride, ancora, sempre.
Io non so cosa rispondere. Vorrei essere capace di stare al gioco, vorrei essere adulta come sono, vorrei sapergli chiedere come mi toccherebbe lui, adesso, vorrei saper sfruttare quest'occasione con arguzia e sensualità. Invece non ce la faccio, non ce la faccio perché sono tremendamente inesperta e tremendamente agitata al pensiero che lui si decida finalmente a sfiorarmi. Non ce la faccio perché ho paura, perché tutto questo – lui, il bacio di prima, le allusioni che lancia ogni dieci minuti – mi fanno immensamente paura.
«Scusami, probabilmente ti imbarazzo. Non sono discorsi da fare a una signora, vero?» ribatte infine Matthew, tornando a sedersi ritto sul suo posto.
Io sento le guance bruciare come ustionate, ma non voglio smettere di parlare con lui: non posso pensare che decida di stare in silenzio, non posso pensare che si offenda per il mio comportamento, che si ritiri di nuovo dalla mia vita e mi lasci sola altre due settimane. Non posso. «Diciamo che la mia famiglia è stata molto rigida, in questo campo.»
«Libertaria fino a un certo punto, eh, Aktivist?»
Lo guardo negli occhi, prima di annuire. «Sì. Ti ho detto che non sono un'Aktivist. Ho avuto libertà soltanto in alcune occasioni. In questa, mai.»
«E quindi non hai mai fatto esperienza di rapporti... corporei, eh?»
Il modo in cui pronuncia "corporei" mi fa capire che sta cercando di trattenersi, di non dire ciò che vorrebbe: pensa di non potersi spingere troppo oltre, con me. Ma io voglio che lui dica tutto ciò che pensa, anche se mi farà arrossire, anche se mi coprirà di vergogna. Il suo valicare ogni limite è uno dei motivi che mi spinge a cercarlo continuamente. «Sono vergine, Matthew. Esatto» sussurro piano, puntando lo sguardo sulle mie mani per trovare la forza di dirlo. «Ma questo non significa che non abbia imparato cosa significa stare bene tra le mani di un'altra persona» concludo, tornando a guardarlo per vedere la reazione che avrà.
Un sorriso gli tende le labbra fino a far comparire i denti. «E allora ci sono buone possibilità che qualcuno ti abbia toccata sul serio, Alyna.»
Io annuisco. Sì. È così. Ma questo dove ci porterà, ora? Cosa stai cercando di tirarmi fuori, o di dirmi, con queste strane circonvoluzioni di parole?
Matthew getta uno sguardo fuori. «Siamo quasi arrivati» borbotta, poi appoggia la testa al sedile.
Io incrocio le braccia al petto, riporto la mia attenzione al tavolino di fronte a me e cerco di scacciare questo senso di eccitazione che mi pervade tutta. Riuscirò a smettere di pensarci? Riuscirò a cacciare dalla testa quel suo «toccata» che mi riverbera in ogni vena, che mi stringe e mi soffoca? Perché, perché adesso stai in silenzio? Perché ti allontani ancora?
Quando il treno si ferma Matthew si alza, afferra la mia borsa e il suo borsone e si incammina lungo il corridoio per scendere. Giù dagli scalini, mi porge la mano e mi aiuta a raggiungerlo.
È quando gli passo a fianco, saltando sulla banchina, che lascia andare la sua ultima promessa, con quel suo ghigno strafottente disegnato sul viso: «Mi farò posto in quelli che lo hanno fatto, Alyna, in quelli che ti hanno toccata. C'è un posto tutto mio, nella tua vita, che ho tutte le intenzioni di prendermi.»
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