2. (A) Tante nuove, buone nuove
Oggi mi sposo.
Oggi la mia vita ha raggiunto finalmente il termine che le era stato imposto: a ventidue anni ho già tagliato l'unico traguardo che mi fossi mai posta - o meglio, che mi sia stato imposto. Stasera sarò sposata con Emir, e da domani sarà lui a decidere cosa sia meglio per me, assieme a mio padre e alla sua famiglia. Ho studiato, mi sono laureata, ora mi sposo, e così i miei compiti terminano qui.
Alyna, ventidue anni, donna fatta e finita, pronta a sorridere e a fare figli. Nessun'altra aspettativa, nessun desiderio: sono qui, sono arrivata dove dovevo arrivare, e adesso basta.
L'unica cosa che ancora mi manca da spiegarmi, l'ultimo tassello che mi serve per accettare con rassegnazione questo passo, è il motivo per cui Emir non abbia cambiato idea sul matrimonio. Non so cosa abbia detto a Serena, cosa sia successo tra loro, cos'abbia capito o cosa invece non abbia capito. So soltanto che io sono rimasta sveglia tutta la notte, in attesa di una chiamata da parte sua, di un avviso di Hasan, di sentire mio padre inveire contro qualcuno. E invece niente di niente: ho passato ore intere a rigirarmi nel letto, a guardare fuori dalla finestra, finché mamma non è venuta a svegliarmi alle sette. Poi, inesorabile, è venuta la consapevolezza che il momento era giunto, e che non potevo più rifuggirlo. Mamma mi ha aiutata a vestirmi e a truccarmi, mi ha fatta sedere nel retro del SUV nero di papà e mi ha stretto la mano mentre entravamo nella stanza in cui dovrò sposare Emir.
Provenendo da una famiglia atea, mi è stato concesso un matrimonio civile, e quindi adesso sono rinchiusa in una stanzina dell'ufficio preposto, con un incaricato statale, mia madre e mio padre. Stiamo aspettando Emir e Massud, suo fratello, che farà da testimone assieme a baba. Oggi è il giorno che aspettavano tutti da una vita, eppure io vorrei essere da tutt'altra parte: vorrei cancellare dal mio campo visivo queste pareti bianche e questa scrivania di mogano, il volto compìto dell'uomo che dovrà rendere ufficiale quest'unione, il sorriso trionfale di papà e quello mesto ma felice di mamma. Vorrei essere felice io, al posto loro. Peccato che così non sia.
«Tranquilla, tesoro mio» sussurra baba, sfiorandomi la guancia con il dorso della mano - non mi tocca la pelle, le carezze non sono permesse tra noi. «Tra poco chiamo Hasan, avranno sicuramente avuto un contrattempo.»
Io annuisco, sovrappensiero. Perché dovrebbe saperne qualcosa, Hasan? Quell'Hasan che si è battuto per anni affinché Emir mi sposasse e che oggi nemmeno presenzierà alla cerimonia perché è impegnato all'estero? Hasan? Che ne sa Hasan di suo fratello?
Sento mamma scostare con tenerezza le pieghe del vestito bianco, che si è leggermente spostato e ora non è più perfetto, con lo strascico diritto dietro la mia schiena. Siamo tutti tesi e nervosi, qui dentro, e sembra quasi che l'elettricità che i nostri corpi emanano possa prendere fuoco da un momento all'altro.
Mentre osservo l'unghia del mio pollice - lo smalto un po' scheggiato sulla punta - la porta della stanza si apre di scatto, e io mi appresto a voltarmi verso il mio sposo.
Una voce che conosco bene, invece, mi blocca.
«Alyna.»
Bastano queste poche lettere a farmi capire che oggi la mia vita cambia. Ed è strano, strano davvero, che mentre mi giro a guardare la faccia di Tareq, ricolma di scuse non sue, il mio cuore inizi a battere più forte e più coraggioso. È strano che io mi senta tremendamente felice, e che a donarmi questa felicità sia stato l'uomo che per primo mi ha fatto del male, ma anche colui che così facendo mi ha permesso di provare la vera libertà almeno per qualche mese. È strano che sia Emir il primo ad avermi ferito, ad avermi permesso di assaporare la realtà, e che ora sia l'unico a donarmi la libertà di vivere.
Non mi sposerò. Lo so. L'ho capito. Emir ha finalmente fatto la sua scelta, e io so perfettamente che è quella giusta. Non provo né dolore né tristezza, in questo momento, nemmeno di fronte ai volti confusi e arrabbiati dei miei genitori, che scrutano Tareq come se volessero incolparlo di ogni sconfitta. Io mi sento semplicemente leggera, felice, e non riesco a trattenere un sorriso sollevato.
Tareq lo scorge, mi si avvicina e mi abbraccia forte. «Hai capito tutto, vero? Sono contento per entrambi, Aly. Non meritavate una situazione simile.»
Io annuisco contro la sua guancia, poi lo lascio andare e lo seguo con lo sguardo, mentre esce veloce dalla stanza: sta sicuramente andando da Emir, per dirgli che può partire, che ho accettato la sua decisione. Non l'ho solo accettata: ne sono sollevata. Avrei voluto avere il potere di farla io, quella scelta, ma sono donna e figlia di mio padre, perciò non avrei mai potuto ribellarmi al suo volere.
Mentre respiro dentro lo stretto corpetto del mio abito bianco, baba mi stringe il braccio esclamando qualcosa; non riesco a capirlo: sono ormai in un'altra dimensione, una dimensione in cui non ci sono traguardi né limiti, soltanto una vita intera davanti tutta da decidere e da costruire, pezzo per pezzo, da sola.
Scosto il braccio dalla mano di mio padre, sorrido a mamma e contorcendomi sbottono le prime asole del mio vestito, attenuando la stretta del corsetto. Mi fa paura, questo futuro nebuloso e incerto che mi si prospetta di fronte, ma sono estremamente entusiasta all'idea di poterlo affrontare da sola, di potermela cavare senza aver bisogno degli altri.
«Alyna!»
Riesco a sentire l'urlo di baba, mentre corro fuori dalla stanza abbandonando le scarpe sulla soglia. Riesco a sentire la rabbia nel suo tono, accompagnata dai singhiozzi di mamma. Ma non mi fermo, non lo faccio. Affretto il passo, esco in strada ben sapendo che sono scalza, che ho il vestito slacciato sulla schiena, che sembro pazza, che non ho con me né soldi né cellulare. Ma non mi interessa.
Sul marciapiede, poco distante da dove sono uscita, Tareq mi sta aspettando.
Quando mi avvicino mi attira a sé per un braccio e mi stringe di nuovo, con forza. «Aly, sicura che vada tutto bene?»
Io annuisco, sfregando il volto contro la sua camicia che sa di pulito. «Sì, va tutto bene» mormoro. Ed è la verità: va tutto benissimo.
«Vuoi venire a stare da me e Irina per qualche giorno?»
Mi stacco dall'abbraccio e lo guardo, cercando di capire cosa mi stia offrendo: sostegno, conforto, aiuto? Ma per cosa? Non sono una bambina. Non lo sono mai stata, per tutto questo tempo. Sono una donna adulta, laureata, in grado di cavarsela da sola, con le possibilità economiche sufficienti a vivere serenamente.
«No, Tareq. Non serve.»
Lui annuisce, ma sembra confuso dalla sicurezza della mia risposta. Gli è davvero così difficile credere che io possa vivere da sola? Davvero?
«Cos'è successo a Emir?» chiedo, curiosa di scoprire almeno a lui com'è andata.
Tareq scuote il capo e ride. «Ha capito ciò che stava perdendo. Ieri sera lui e Sere... si sono appartati e... beh, immagina. Poi però Emir è scappato via, è venuto da me e mi ha detto che non poteva cambiare idea. Io sono andato a prendere Serena, l'ho portata da me e Irina, in attesa che prendesse l'aereo per tornare in Italia; stamattina quindi lei stava per ripartire, ma Emir si è presentato a casa mia e ha ammesso che stava commettendo uno sbaglio, sposando te e lasciandola andare via. Se ne sono andati assieme, Aly. Come avrebbe sempre dovuto essere.»
Nessun dolore, nessuna freccia nel fianco, nessun sussulto mi coglie a queste parole: è perfetto così. È così che doveva andare, e io sono felice per Emir, per Serena, per tutti loro. Non sarei mai stata davvero contenta, viva, realizzata, qui con Emir e con le nostre famiglie. Lui ora può tornare a Venezia con la donna che ama, e io sono libera di fuggire.
«Tutto è andato per il meglio, quindi. Iniziavo a credere che avrei dovuto passare il resto della mia vita qui, con un uomo che non amo e la presenza assillante di mio padre dietro il collo. Invece la vita mi ha sorpresa in positivo, questa volta. E ora mi dà una grande opportunità.»
Tareq mi osserva. «Che opportunità? Cosa vuoi fare, Aly? Tuo padre non accetterà niente che non sia un matrimonio con un uomo ricco, lo sai vero?»
Annuisco e sbuffo. «Lo so benissimo. Ma io non ci voglio stare, alle sue condizioni. Ora posso decidere per me stessa, riprendermi la mia vita e farla andare dove voglio io, una buona volta.»
«Quindi che farai?»
Alzo lo sguardo verso il cielo, un luminoso telo celeste steso sopra questa giornata fuori dall'ordinario, e sorrido. «Scappo. Fuggo. Me ne vado via.»
Un taxi si avvicina al marciapiede e fa scendere un uomo vestito di tutto punto; io faccio cenno all'autista di aspettare, e Tareq, capendo le mie intenzioni, apre la portiera posteriore per me. Mi sorride, gli sorrido, spalanco gli occhi e mi infilo nella vettura.
«Dove andrai? Come fuggirai dai tuoi?» mi chiede Tareq, il volto che mi osserva dal finestrino.
Io scuoto la testa, a corto di parole, afferro la gonna e me la tiro dietro mentre lui richiude lo sportello. Ho ancora gli occhi spalancati, quasi bruciano per quanto gli ho tenuti aperti, ma non voglio chiudere le palpebre, non voglio smettere di vedere questa realtà diversa, nuova, vera. Lo sguardo mi cade sui volantini ripiegati nella tasca del sedile di fronte a me, e scorgo l'immagine della Tour Eiffel sbucare da un cielo blu cristallino.
Mi volto verso Tareq, sorrido, capisco, decido. «Berlino. Vado a Berlino. Ma non mi cercare: voglio farcela da sola.»
Tareq mi fa cenno di sì, poi sposta la mano dalla macchina e mi lascia andare, mentre indico al tassista l'indirizzo di casa mia. Prenderò le mie cose, andrò all'Ataturk, sceglierò un volo per l'Europa e ripartirò da zero.
Perché ora non mi interessa cosa diranno i miei: io me ne vado. Me ne vado da qui, me ne vado a cercare la mia strada. E non voglio nessuno al mio fianco, né papà né mamma né vecchi amici né mariti. Io da sola. Alyna. E tutti i miei sogni a farmi compagnia.
***
«Vuole qualcos'altro, signorina Kaya?»
Le parole della hostess mi risvegliano dai pensieri in cui mi sono persa, e mi ricordano - quasi un lampo improvviso nella tempesta che anima la mia mente - che non mi sono sposata, oggi: mi ricordano che sono ancora signorina. Le sorrido, poi faccio cenno di no con il capo e torno a guardare fuori dal finestrino. Le luci di Berlino sono sempre più grandi, sempre più definite, in questa discesa che si sta avvicinando e che sancisce per me un passo definitivo: quando toccherò con i piedi il suolo tedesco la mia vita avrà compiuto davvero una svolta.
Ho paura di ciò che mi aspetterà lì fuori, ma non per questo temo di aver commesso uno sbaglio: infilare vestiti, computer e libri in valigia è stata una delle cose più entusiasmanti che mi sia capitato di fare. E non perché mi aspettasse un nuovo viaggio, no. Stavolta mi aspetta una nuova vita.
Quando l'aereo si adagia al suolo traballando, l'unico altro passeggero della business class si infila un auricolare nell'orecchio, pronto a continuare le trattative che probabilmente ha dovuto sospendere quand'è salito a bordo. Sento in sottofondo l'applauso dei passeggeri della seconda classe, dietro di me, e sorrido pensando alla felicità che invade tutti noi per qualche istante, quando questi veicoli alati tornano a toccare terra come la natura ci impone di fare.
Mi alzo in piedi, infilo il libro nella borsa, mi metto il cappotto pesante - l'unico che possiedo, infilato a forza nel borsone per difendermi delle basse temperature che mi aspettano qui - e scendo dalla carlinga.
L'hostess mi accompagna dentro l'aeroporto, e le mie valigie sono le prime ad arrivare sul nastro trasportatore. Le guardo, ben sapendo che tutto ciò che possiedo, in questo nuovo paese, in questa nuova città che spero diventerà la mia casa, è racchiuso in due enormi trolleys, un borsone di Louis Vuitton e la borsa che stringo contro il fianco.
Mi servirà aiuto per portare la mia vita da qui a un taxi.
Mi guardo attorno, ma so che non conosco nessuno e fatico a prendere una decisione. Alla fine mi infilo il borsone a tracolla, afferro i trolleys con entrambe le mani e li trascino con me, facendoli correre sulle loro quattro ruote.
Ce la devi fare da sola, Alyna. Sei una donna forte, grande, vera. Puoi vivere da sola, aiutarti da sola.
Fuori dall'aeroporto l'aria fredda e satura di gas di scarico mi avvolge, facendomi sentire spaesata per la prima volta da quando ho lasciato casa mia. Non so dove andare, non so come muovermi, non ho nemmeno pensato di cercare un hotel. Che ho fatto? Perché mi sono lanciata nel vuoto senza riflettere?
«Need help?» chiede un uomo al mio fianco.
Mi volto a guardarlo, sorpresa e un po' impaurita. Indossa un giaccone elegante e stringe tra le mani un borsone da viaggio; ha gli occhi scuri, ma un bel sorriso sul volto e i capelli brizzolati che si muovono attorno alle tempie. Annuisco, intimidita, e lui si avvicina cautamente.
«Non siete di Berlino, vero?» dice, continuando a sorridermi.
Io scuoto il capo. Non so che dire, non so che fare, come comportarmi. Si vede così tanto che non sono europea, che non sono di qui? E questo potrebbe causarmi problemi? Non voglio vivere in un posto in cui non mi sento sicura, accettata, normale. Forse ho fatto il passo più lungo della gamba.
«Stia tranquilla, signorina. Non ho intenzione di farle un interrogatorio» dice l'uomo, ridacchiando. «Mi dica, dove deve andare?»
«In realtà non ne ho idea» rispondo, impacciata nel mio inglese solido ma inutilizzato da un po'. «Sono venuta qui impulsivamente e... immagino di dover trovare un posto in cui dormire, intanto.»
Lo sconosciuto spalanca un po' gli occhi, poi ride e mi porge la mano. «Gustav, piacere. Io sono di Monaco, sono qui per lavoro. Se vuole le posso indicare l'hotel in cui alloggerò io: non costa troppo ed è davvero un bel posto.»
Afferro la sua mano e intanto annuisco. «Va benissimo, la ringrazio. Io sono Alyna. Turchia. Istanbul.»
Gustav sorride. «Mai stato. Mi piacerebbe farlo, un giorno. Magari quando andrò in pensione. Senta, l'hotel non è troppo distante da qui... le dispiacerebbe dividere il taxi con me? Andiamo nello stesso posto, no?»
Un improvviso timore si fa strada dentro di me, e senza darlo troppo a vedere cerco di scuotere la testa con gentilezza. «Non vorrei sembrarle scortese, ma sono appena arrivata da un lungo viaggio e...»
«Non si preoccupi, signorina» mi interrompe Gustav, sorridendo. «Sono io che sono troppo sfacciato e intraprendente. Mia moglie lo dice sempre, che così rischio di impaurire qualcuno, ma è la mia natura, non ci posso fare niente! Senta, le fermo un taxi e indico l'indirizzo all'autista. Se il posto le piacerà e deciderà di fermarsi ci vedremo nei prossimi giorni.»
Accetto, felice di avere qualcuno che mi aiuti nonostante abbia capito il mio timore, e aspetto che Gustav faccia strada verso la piazzola dei taxi. Scambia qualche parola in tedesco con il tassista, poi mi apre la portiera con galanteria e la richiude dietro di me.
«Spero di incontrarla ancora, Alyna. Buona permanenza a Berlino» mi dice, poi il taxi parte e ci lasciamo dietro l'aeroporto.
«Non è di qui, vero?» mi chiede il taxista, con un buon inglese.
Io abbasso leggermente il capo. «Lei è la seconda persona a chiedermelo, oggi. Si vede così tanto?»
L'uomo sorride e scuote la testa. «No, non credo sia così evidente. Ma il suo amico mi ha detto di parlarle in inglese perché non conosce il tedesco, quindi è chiaro che lei sia straniera. Le dispiace se provo a indovinare di dove?»
Sono stanca e affaticata dal viaggio, ma lo lascio fare e gli rispondo con un sì.
Lui mi scruta dallo specchietto, sempre con l'atteggiamento gentile con cui mi si è rivolto in questi minuti. Pare tentennare, poi torna a osservare la strada. «Direi zona araba, ma non so con certezza. Magari ora salta fuori che è messicana, e allora getto la spugna!»
Scoppio in un'involontaria risata: non è così chiaro da dove vengo, almeno questo pare essermi concesso. Mi sporgo verso i sedili anteriori. «Sono turca. C'era quasi, dai. Non è tutta da buttare la risposta.»
Il tassista ride alla mia battuta, poi si lancia in una filippica sull'importanza del diverso e delle culture, che penso sia un po' frutto della sua intelligenza e un pochino invece studiata per fare il piacione con i turisti arabi - che non devono mancare nemmeno qui, come nel resto del mondo. Mentre lui parla a vanvera, mi lascio incantare dalle luci fuori dal finestrino: riesco a scorgere persone che camminano sui marciapiedi, automobili piccole e colorate che scorrazzano in giro - saranno mica le Cinquecento italiane che vedo sempre nelle pubblicità? - e le sagome di alti alberi che sembrano cingere un parco pubblico. Che meraviglia. È tutto così grigio, attorno a me, così diverso da casa mia, ma così maledettamente bello e attraente.
Alla fine della corsa, il taxi si ferma davanti a un edificio alto in cemento, con una miriade di finestre che si stagliano nel buio della notte ormai calata. L'entrata è elegante e lussuosa: ci campeggia a caratteri cubitali Steingenbergen, il nome dell'hotel, e mi accoglie come un faro luccicante nel buio della notte. Dopo che l'autista ha scaricato le mie valigie e ha infilato i soldi che gli ho dato nel portafogli, subito mi si avvicina un ragazzo che sorride e con un perfetto accento british mi invita a entrare nella hall.
Dopo poco più di venti minuti sono già nella mia stanza: è spaziosa, bella, luminosa e piena delle comodità necessarie. Tv al plasma, vasca da bagno, macchinetta per il caffè, scrivania con ogni tipo di adattatore per il pc...
Estenuata da questa caotica e sconvolgente giornata, abbandono le valigie nell'accesso alla camera e mi distendo sul letto. Rimango per qualche minuto a guardare il soffitto, il vuoto nella mente e uno strano sorriso sulle labbra. È tutto così assurdo e paradossale che ancora non mi rendo conto di ciò che ho fatto. So benissimo che domani il peso delle mie decisioni tornerà per farmi soccombere, ma per ora ho deciso di non pensarci. Calcio via le scarpe, mi tolgo piumino, maglia, pantaloni e tutto ciò che indosso. Mi infilo un pigiama corto - qui dentro si muore di caldo, dovrò capire come abbassare il riscaldamento - e accendo la tv. Subito si apre il telegiornale, e guardando la giornalista che parla una lingua incomprensibile sorrido di nuovo, ancora.
Sono felice. Felice di sentirmi completamente in balia del destino. Per una volta, nessuno ha deciso per me. Per una volta, non so cosa farò domani.
Berlino, è un piacere conoscerti. Sei la mia prima, vera libertà.
✽ ✿ ✾ ✽ ✿ ✾ ✽ ✿ ✾
Eccoci qui con il secondo capitolo. Aly è finalmente fuggita da Istanbul e arrivata a Berlino: da ora in poi la sua storia cambia.
Perdonate la lentezza nella pubblicazione, ma ho avuto qualche problemino con il polso (tendinite) il che mi rende difficile scrivere (tanto a mano quanto a pc). In ogni caso non disperate, che torno 🤗
Bacioni enormi,
Elly
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