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13. (A) Cosa succede?

«Cosa intendi con "io posso aiutarti"?»

La domanda mi esce naturale, elementare, dopo la proposta che Matthew mi ha appena fatto. O almeno, credo che la sua fosse una proposta. Non mi ha forse appena detto che potrebbe insegnarmi qualcosa?

Il bassista sorride, contento. Sembra diverso da come l'ho sempre visto finora, sembra sereno. Si allunga sul tavolino, poggia i gomiti a metà strada tra me e lui e mi guarda fisso, tenendosi il mento con le mani. Io mi tiro istintivamente indietro, almeno di qualche centimetro, a cercare aria e refrigerio in questo spazio diventato improvvisamente più piccolo. Ma lui non si scompone, non si sposta: continua imperterrito a sorridere, a guardarmi dritto negli occhi.

«Posso parlarti di musica. Posso raccontarti la sua storia, insegnarti ad ascoltarla, al limite anche a suonarla. Non vale la pena di viverci, senza.»

Sembra così sicuro di ciò che dice, così certo che questa sia l'unica verità possibile. «E vale per tutti, l'impossibilità di vivere senza musica?»

Gli occhi scuri gli si aprono un po' di più: ho colpito un nervo scoperto, temo. Perché gliel'ho dovuto dire? Come mi sono permessa di fare un'osservazione simile, quando so benissimo che noi due non ci conosciamo seriamente e quando ho ben capito che ultimamente non è un bel periodo, per lui?

«Non ho in mano la conoscenza di tutte le persone del mondo, penso che nessuno possa averla. Credo semplicemente che vivere con la musica, anzi, con la coscienza di ciò che si ascolta, di ciò che dentro una canzone è nascosto o mostrato, possa rendere differente la vita. In qualche modo migliore, in qualche modo forse peggiore.»

«Perché peggiore?»

È inutile tentare di non rispondergli, è inevitabile finire per controbattere a ogni cosa che dice: ancora una volta, come quella notte sotto il lampione, mi sembra di guardare in faccia qualcuno che conosco benissimo, mi sembra di stare con un amico di vecchia data, di rivolgermi a un amico che mi considera come persona fatta e finita, completa, intelligente. Non mi è mai capitato di sentirmi così a mio agio, nemmeno con chi conosco da lungo tempo, figurarsi con qualcuno che ho più o meno appena incrociato.

«Tu leggi?»

Che domanda è? «Se intendi romanzi, sì, leggo. Ma cosa c'entra con la musica?»

Ed eccolo ancora una volta, questo sorriso un po' strano, pieno di significati che non conosco, che gli spalanca gli occhi e lascia intravedere la dentatura – imperfetta, irregolare, non candida.

«C'entra. Se leggi, sai benissimo che un libro può piacerti in tanti modi: perché ti fa stare bene o perché ti fa piangere, perché ti insegna qualcosa di nuovo o perché ti ricorda qualcosa che avevi dimenticato. Può aprirti la mente, o chiuderti in te stessa finché non sorpassi il dolore che ti ha rivangato dentro. Con la musica funziona allo stesso modo: ti può far scoprire nuove cose, può mostrarti nuovi mondi e nuovi modi di osservare la realtà, oppure può farti rivivere i momenti peggiori che hai conosciuto, può farti scoprire cose che avresti preferito non sapere. Per questo dico "migliore o peggiore": perché apre nuove strade, oppure ti rivolta dentro. E il fatto che questo sia buona cosa o meno, dipende solo da come lo vivi tu.»

«Ma tu sei sicuro di essere solo un musicista? O hai studiato filosofia?»

La mia battuta pseudo-involontaria fa sorridere il bassista. «Sono laureato in lettere, in realtà. Ma sì, sono...» Le palpebre si abbassano repentine, mentre la voce si taglia e il sorriso si perde. «Forse ero, un musicista.»

Eccolo che rispunta, il malessere che ho intuito sere fa. Forse è più profondo di quanto avessi immaginato: il volto di Matthew ha una smorfia che sottende una ferita, prodotta quasi dalle sue stesse parole.

«Io non penso che si possa smettere di essere qualcosa.»

Gli occhi scuri ritornano su di me, mi si appoggiano contro. «Che dici?»

«Che non credo un artista smetta mai di esserlo. Un cantante che non canta più non smette per questo di essere un cantante. Lo stesso vale per scrittori, pittori, illustratori... qualsiasi categoria ti venga in mente. Non si smette di essere ciò che si è stati. È un etichetta che ti rimane addosso comunque. Nel bene o nel male.»

«E se io ti dicessi che il tuo ragionamento è troppo astratto? Un muratore che smette di lavorare non è più un muratore. Una maestra che smette di insegnare non è più una maestra. Il tuo ragionamento vale solo nel campo artistico.»

«Tu sei un artista, Matthew» rispondo. Possibile che davvero non capisca cosa voglio dirgli? Che non capisca il mio tentativo di mostrargli che l'arte che ha dentro non può morire? Non l'ho mai sentito suonare, mai visto all'opera, ma se suona allora è un artista e se è un artista non smette di esserlo solo perché è in un momento difficile. Per me questa cosa è elementare, oggettiva, chiara, anche se non me ne intendo di musica. Com'è che lui non pensa lo stesso?

«No. Sto iniziando a capire che non lo sono nemmeno mai stato.»

Sono consapevole dell'espressione sconvolta che ho sul viso, ma mi è impossibile non mostrarla, nasconderla. «Cosa significa? Se sei un musicista sei un artista.»

«No. Nel modo più assoluto.»

La placida calma con cui dice queste parole mi mette addosso un moto di rabbia istintiva: perché lotta contro l'ovvietà? Adesso sono io, a sporgermi sul tavolino, a invadere un po' del suo spazio, per finirgli a tanto così dal muso con tutta la mia improvvisa decisione. Non esiste che mi contraddica su cose oggettive: non esiste e basta.

«Ma cosa dici? Com'è che si fa a suonare e a non essere artisti? È come dire che uno che dipinge non è un pittore. Non ha senso.»

«Quand'è che un pittore diventa tale?»

Uh? Cosa mi sta chiedendo, adesso? Retrocedo ancora una volta, torno nel mio spazio limitato e sicuro, nella mia sedia lontana da lui e da sui dubbi che mi investono con la potenza di un uragano.

«Ti rispondo io: quando la critica lo nota. Elementare da qui dedurre che, dato che nessuna critica mi ha mai notato, io non sono mai stato un musicista.»

La critica non l'ha mai notato? Ma tutta la gente che ho visto quella sera al concerto, cos'era lì per fare, se non per ascoltare i Melting Pots? C'è qualcosa di strano, in quello che dice. Qualcosa che non capisco, un rifiuto che non conosco. «Quello che dici mina la concezione di arte alla sua stessa base. Distrugge l'idea che l'arte non sia una merce, ma il prodotto di un'emozione, di un'idea, di un uomo e basta.»

«È vero, forse hai ragione» risponde lui, sguardo concentrato su di me e mani ferme sul tavolo. «Ma non puoi negare che il mondo funzioni così. Per quanto questo sia perverso.»

«Il mondo funzionerà così, ma non ti ci devi per forza adattare» dico, e mi sembra di aver appena sputato una sentenza, di essere stata crudele e spietata, ma è quello che penso e che sento dentro, e con lui non riesco a trattenermi: devo dirgli tutto.

«Eccola, torna l'Aktivist!» esclama lui, e ricomincia a sorridere tutto ad un tratto. «Ma dimmi la verità, in che famiglia sei cresciuta?»

La sua domanda – che è spontanea, neutrale, lo so – mi raggela in un istante. Sposto lo sguardo attorno a me, sento che vorrei avere una via di fuga, sento che vorrei piangere. Ma non piangerò e non fuggirò: devo rispondergli. Solo che non è ora, il momento adatto, non è ora il tempo giusto per rivelare chi sono, cosa mi ha portata realmente qui, com'è stata la mia vita finora. E quindi che gli dico, a questo qui? Che rispondo a quest'uomo fragile e sbruffone che mi si avvicina di continuo e mi fissa – instancabile, insistente, irriverente – negli occhi, come a volermi cavare fuori le parole?

«Normale» sussurro. Poi ingabbio aria nei polmoni, mi dico che non è un agente del ministero dell'interno – almeno, spero. Non ci voglio nemmeno pensare – e che non capirà che questa è un'immensa bugia. «Né particolarmente progressista né retrograda. Ho letto tanto però. Non mi è mai stato impedito di leggere ciò che desideravo, e questo mi ha fatto "scoprire" nuovi mondi, proprio come dicevi tu prima.»

«Devi ringraziare la tua famiglia normale, allora» dice lui, e sorride, continua a sorridere levandomi un peso – che non sapevo di avere – dallo stomaco. «Se ti hanno lasciata libera, almeno in quello, ti hanno permesso di vivere altre vite. Di scoprire, sì, di imparare.»

«Sì. Sono loro riconoscente per la libertà che mi è stata data.»

Altra immensa bugia: sono riconoscente per la libertà di lettura, quello sì. Ma per quella di studio, di abbigliamento, di attività, di movimento, di amore? Cosa devo dire, sulla libertà di amare che i miei genitori mi hanno dato? Non è mai esistita, ecco tutto. Mi hanno impedito di amare, di capire cosa significasse scegliere un amore, scegliere chi o come amare.

«Che succede?»

Matthew è tremendamente più vicino di come l'ho lasciato due secondi fa. La mano a un passo dalla mia, quasi la sfiora con le dita; il volto così prossimo che fatico a distinguere l'attaccatura dei suoi capelli castani. Perché, perché ha questa mania di invadere lo spazio, di farsi parte dell'aria che respiro?

Mi tiro indietro di scatto, afferro la borsa che tengo sulle gambe, scuoto la testa. «Niente. Devo solo andare.»

«Dove?» fa lui. Ignaro, innocente, tranquillo.

«In università. Ho una lezione tra mezz'ora» dico.

E non so realmente se è tra mezz'ora, un'ora, due ore – non ho guardato l'orologio da che siamo qui – ma so che devo andarmene e riprendere lo spazio di manovra che finora avevo sempre avuto attorno a me. Matthew è il primo a invadere i miei tempi e il mio stretto circondario di aria: nemmeno Becky, con i suoi abbracci improvvisi e il suo modo di fare così insistente, ha mai oltrepassato la linea che il bassista ha valicato almeno dieci volte solo oggi. È troppo da sopportare, per me, un contatto così ravvicinato e invadente, nelle parole e nei gesti. È troppo simile a ciò che volevo da una vita, troppo simile all'attenzione e all'affetto che cerco da sempre. Mi destabilizza, e non sono pronta ad affrontare ora la questione. Ora voglio solo tornare a stare per conto mio.

«Ti accompagno, se vuoi» dice Matthew, alzandosi in piedi assieme a me.

Io scuoto la testa con violenza, mi faccio pure male, ma devo spiegargli che non voglio aiuto né conforto né compagnia: voglio solo spazio e silenzio. «No, grazie.»

Il suo movimento si arresta: quando lo guardo di nuovo negli occhi scuri ci vedo dubbio, incomprensione, un filo di timore. Si starà chiedendo con chi ha a che fare, se sono pazza o meno. Ma non mi importa. Devo solo andare.

«Okay. Non ti preoccupare, non volevo insistere. Allora... ciao, immagino.»

«Ciao, Matthew. E grazie del caffè» mormoro, poi mi sfilo finalmente dalla sedia e vado fuori dal bar, quasi correndo.

Attraverso la strada, sto per entrare dalla porta e finalmente tornare una tra tanti, quando una mano mi blocca il polso. Mi volto di scatto, impaurita: è solo Matthew. È Matthew, nuovamente troppo vicino, che ora addirittura mi tocca l'unica pelle scoperta che ho oltre al viso.

«Che succede?» chiedo. E sento riecheggiare nelle mie parole la sua domanda di prima, quella a cui non ho risposto per paura di crollare di fronte a una persona che non conosco ma che sento terribilmente nota.

«Vorrei rivederti» dice lui, calmo, ancora col sorriso.

«Perché?»

«Perché la tua vita merita la musica, Alyna. Per favore, lasciami provare.»

Eccolo qui, il mio nome. Finalmente gli è uscito dalla bocca, quando ormai temevo lo avesse pure dimenticato. E che dirgli, ora? Vorrei, ma non posso? Non posso perché non so cos'è la musica, cos'è la libertà di uscire con un uomo solo per sorridere e andare a vedere un concerto, solo per entrare in un bar e prendere un aperitivo? Non posso perché tu mi stai troppo vicino e io non riesco a gestire questa... questa cosa come dovrei?

«Va bene. Sai dove trovarmi, sono sempre qui. Buona giornata, Matthew.»

Lo dico e poi lo guardo: vedo ancora il suo sorriso, più grande di prima, e allora scosto la mano dalla sua giusto in tempo per afferrare la porta che un ragazzo sta lasciando aperta. Mi infilo dentro le mura sicure, insensibili, indistinte di questo posto che oramai funge da rifugio, grata al cielo per avermi permesso di prendere finalmente fiato.

Cos'ho appena fatto?

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