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19. Respira.

I feel alive and the world / it's turning inside out - yeah / I'm floating around in ecstasy
Don't stop me now (Queen)

Il rintocco delle campane della Madonna dell'Orto mi riscuote da un sonno tormentato e devastante. Sono nel mio letto e dietro di me è sdraiata Sofi, che sta ancora dormendo e tiene una mano appoggiata alla mia anca. Mi alzo piano per non svegliarla ed esco dalla camera.

In cucina trovo Emma seduta davanti al tavolo, le mani che tremano, il viso lungo e gli occhi contornati da occhiaie. Quando mi vede alza il volto e tenta di sorridere. «Sere, tesoro, sei sveglia. Come va?»

Non rispondo, ma getto un'occhiata al suo e al mio cellulare, che giacciono immobili in mezzo al tavolo. «Ha chiamato qualcuno?» chiedo con voce rauca.

Em scuote la testa. «Vuoi del succo?»

Annuisco, dato che il mio stomaco implora almeno una buona dose di zucchero. Prendo posto su una sedia e il piccolo Thomas mi balza subito in grembo, miagolando affranto. Gli accarezzo dolcemente la testolina mentre Em si siede di fronte a me, sorseggiando del caffè da un bicchiere.

«Pietro?» chiedo.

«È andato via stamattina presto, doveva incontrarsi con il relatore per la tesi» mi risponde Emma.

Annuisco. «Tu da quanto sei sveglia?» le chiedo poi, bevendo il succo a piccoli sorsi.

«Da ieri mattina» sussurra, alzando lo sguardo verso di me. «Ma no, non voglio dormire. Devo rimanere con te, per favore.»

Annuisco ancora e le stringo il polso con la mano libera. «Grazie» sussurro.

«Senti, Sere, mi dispiace infinitamente per ciò che sta succedendo. Tu... non te lo meritavi, proprio no. Ma sappi che in qualunque caso ci saremo sempre tutti per te. Non rimarrai sola. Non ti lasceremo mai sola» dice ad un tratto Emma.

Alzo il viso e le sorrido, sentendo che mi tremano le labbra. «Lo so» rispondo, tornando a guardare con occhi stanchi il cellulare.

Dopo pochi minuti suonano alla porta ed Emma si alza in piedi di scatto. Io sono così stanca che faccio fatica anche solo a seguirla con lo sguardo, così rimango seduta ad aspettare. Chi sarà mai alle sei del mattino?
La risposta arriva immediata quando dalla porta entra un ragazzo alto, biondo e muscoloso.

«Raf!» esclamo, balzando in piedi e correndogli incontro. Non gli lascio nemmeno il tempo di poggiare il borsone che tiene in mano: l'ho già abbracciato e lo sto stritolando, mentre copiose lacrime tornano ancora una volta a inzupparmi il viso.

Lui non dice nulla e si limita a stringermi a sé con una forza che non gli ho mai sentito, mentre mi accarezza la testa con dolcezza.

«Dovresti essere a Pompei, adesso» mormoro, non appena riesco a trovare le parole. Non posso credere che sia qui, che sia tornato a Venezia solo per me. È davvero troppo anche per la nostra amicizia: vuol forse dire che Emir... che non tornerà? Per quale motivo Raf sarebbe qui altrimenti, se non perché teme che Emir sia... Serena, taci! Non lo sai se è morto. Smettila! - mi intimo da sola. Devo crederci, almeno finché la speranza non morirà.

Raffaele mi rivolge uno sguardo avvilito e affranto: ha la mandibola tesa come se fosse arrabbiato e la pelle tirata di chi non ha chiuso occhio. «Sere, non ti avrei mai lasciata qui da sola in un momento del genere. Quando Emma mi ha chiamato ieri sono corso in stazione e ho comprato il primo biglietto disponibile. Mi dispiace soltanto di essere arrivato così tardi.»

Mi volto a guardare Em, che ci sta osservando con un lieve sorriso sul volto. «Vi adoro. Vi adoro tutti» sussurro, poi afferro le mani di entrambi e li porto a sedere sul tavolo, assieme a me.

Ora che c'è anche Raffaele sono davvero attorniata da tutti i miei amici. Non posso desiderare altro in questo momento. Sì, ci sarebbe qualcosa, qualcuno, che desidererei avere qui ora. Ma non posso pensarci troppo. Adesso aspetto solo una chiamata: poi saprò cosa sarà della mia vita.

***

Pietro è passato a mezzogiorno portandoci una teglia di pastasciutta, ma né io né Emma ci siamo alzate nemmeno per prendere la forchetta e Raf ha gentilmente declinato l'offerta. Alla fine Piè se ne è andato, promettendoci che sarebbe tornato alla sera per cercare di farci mangiare.

Due ore dopo il mio cellulare suona, vibrando sul tavolo e spezzando il silenzio ovattato che ci avvolge.

Emma lo afferra subito. «Sì? Oh mio Dio... io... Sì, prego» dice concitata, passandomelo.

Guardo negli occhi la mia amica, che ha il volto teso e il labbro tremante, e mi sento morire all'istante.
Raf è seduto di fianco a me: quando vede la faccia di Em mi afferra la mano e la stritola con una forza sovrumana. Il dolore mi piomba nel petto con un tonfo sordo, le lacrime tornano a sgorgare dai miei occhi e con le mani ghiacciate e attraversate da un tremito implacabile afferro il cellulare avvicinandolo all'orecchio. Ormai sono pronta. Devo esserlo. Non ho soluzione.

«Sì?» sussurro, agitata.

«Serena? Serena, sei tu? Sto bene, va tutto bene.»

Il mio cuore fa un balzo, poi un altro, e le lacrime aumentano di intensità, rilasciando la tensione e l'ansia che mi hanno serrato il cuore. Dio, Dio, grazie, grazie, grazie! «Emir! Oh, grazie al cielo stai bene! Emir, io... oh tesoro, non so come dirtelo. Io... ho creduto di averti perso, non sapevo cosa fare, il tuo cellulare...»

«Lo so, Serena, l'ho perso mentre scappavo dalla stazione. Mi dispiace, non sapevo come contattarti senza. Ho dormito da un mio amico a Isntabul, stanotte, e stamattina lui mi ha detto che magari avevi chiamato l'ambasciata per cercarmi. Così sono venuto qui, ma c'è ancora un caos immenso, la gente ha dormito ovunque, i medici e le ambulanze girano ancora cercando feriti...». Si interrompe brevemente. «Ho visto in faccia la morte Serena, attorno a me era tutto rosso... io ero lì, a cinquanta metri... ero appena sceso dal treno quando...». Si ferma di nuovo, con un singhiozzo disperato.

Avverto una stretta al petto. «Ehi, Emir, mio dolce Emir. Mi dispiace immensamente che tu sia stato costretto a sopportare tutto questo. Io... non so cosa provi, ma so che vorrei essere lì per consolarti. Posso farlo? Posso venire lì?» chiedo, incapace di fare altro se non di pensare che voglio essere con lui, voglio consolarlo, stringerlo tra le mie braccia, vederlo ancora una volta.

«Serena, gli aerei non ripartiranno prima di domani. Ed è assolutamente escluso che tu venga quaggiù, la mia terra non è sicura in questo momento. Ma se vorrai aspettarmi in aeroporto a Venezia sarò lì alle dieci di domattina, prendo il primo volo». Fa una pausa e lo sento sospirare. «Sai, ho pensato a te quando è esplosa la bomba... ho pensato a tutto ciò che c'è stato tra noi, ho pensato alle tue labbra e ai tuoi occhi color cioccolato e ho rimpianto la tua lontananza in quel momento. Allo stesso tempo però ero felice di morire lì, da solo, mentre tu eri al sicuro e qui si scatenava l'inferno...». Si interrompe ancora una volta, la voce spezzata.

«Emir, shh... Basta, stiamo bene entrambi, è tutto ciò che conta. Ti aspetto domattina a Tessera. Sii forte e torna da me» lo fermo, prima che possa dire altre cose che farebbero morire di dolore sia me che lui.

«Lo farò, Serena, lo giuro. A domani.»

«A domani, un bacio» rispondo, prima di interrompere la telefonata.

***

[Emir]

Apro la portiera della macchina ed esco nel caldo torrido che aleggia tra le grandi costruzioni della periferia di Istanbul. Afferro il borsone che avevo messo sotto al sedile e lo tiro fuori, posandolo a terra.

«Teşekkürler, Tareq» dico poi, sorridendo al volto stanco del mio amico d'infanzia. Grazie.

Lui mi guarda e annuisce. I suoi occhi scuri sono gonfi e arrossati come i miei, ma trova comunque la forza di sorridermi dopo la notte tremenda che abbiamo passato assieme nel giardino di casa sua, attoniti e sconvolti. «Chiamami quando arrivi, kardeş.»

Mi ha chiamato fratello, perché è questo che siamo: fratelli, non per nascita ma per scelta, perché dal giorno in cui ci siamo stretti la mano dopo esserci presi a cazzotti, nel cortile polveroso e assolato della scuola, abbiamo stretto un legame indissolubile ed essenziale. «Lo farò.»

Gli rivolgo un altro cenno di saluto, poi entro in aeroporto e raggiungo il check-in. Sono sfinito, ma so che tra poche ore tornerò da Serena. E tutto ciò che voglio è riabbracciarla. Non serve altro.

[Serena]

Sono in piedi nell'area degli arrivi dell'aeroporto. Intorno a me ci sono decine di altre persone: molte donne indossano il velo e stringono al loro fianco dei bambini, mentre sussurrano parole melodiose con il capo chino.

Sofia mi ha portata qui alle sei in macchina, mi ha fatto compagnia per un'oretta, costringendomi a ingurgitare una brioche e un cappuccino, poi è tornata a Venezia per dare l'ultimo esame. Poverina, con tutto questo trambusto spero soltanto che lo passi bene.
Stamattina anche Raf è ripartito, dato che deve essere a Pompei per il pomeriggio.
Mi dispiace essere stata un peso per loro in questi due giorni, ma l'affetto dei miei amici mi ha davvero evitato di cadere nel baratro.

Ora aspetto, ritta in piedi di fianco a queste donne e a questi uomini, in ansia come loro. Manca ancora mezz'ora all'arrivo, ma siamo tutti troppo nervosi e preoccupati per curarci delle gambe che tremano o dei piedi che implorano per avere una sedia.

Quando le porte si aprono e decine di persone sciamano fuori verso i loro parenti, accolte in abbracci colmi di gioia e di pianto, di tensione e di urla, rimango ferma, vagando con lo sguardo tra le teste che mi si avvicinano e cercando la nuca castana di Emir.
Non appena lo vedo noto che la sua figura domina sulle altre di almeno una trentina di centimetri; incapace di attendere gli corro incontro, scostando le altre persone a spallate, finché non lo raggiungo e mi fermo, quasi incapace di riconoscerlo. Il suo volto stupendo è coperto in parte da un largo cerotto bianco, gli occhi spenti e stanchi, le labbra tremanti e violacee, le spalle chine sotto la camicia spiegazzata.

[Emir]

Sono distrutto, devastato da ciò che mi è successo, dalle due scorse nottate passate insonni a chiedermi il motivo di quel che è accaduto, a trovare un senso alla morte che ho visto davanti a me. La schiena mi fa male, la ferita sulla guancia mi brucia in modo tremendo, ho un mal di testa atroce che mi perseguita dandomi la nausea ad ogni ora, ma sono qui, sono di nuovo a Venezia e sto per riabbracciare Serena.
La mia dolce e tenera Serena, la donna che amo con tutto me stesso e che ho temuto di perdere per sempre, l'altro giorno. Invece sono qui, le porte di vetro si stanno aprendo davanti agli altri passeggeri e finalmente le urla dei feriti che ancora risuonano strazianti nella mia testa mi abbandonano, lasciando spazio al battito del mio cuore che sembra quasi voler prendere il volo per uscire dal mio corpo e raggiungere quello di Serena.

E poi in un istante lei è lì, ferma davanti a me, lo sguardo colmo di lacrime e di preoccupazione, il respiro accelerato che le fa alzare e abbassare il petto di continuo sotto la camicetta viola che indossa. È meravigliosa, semplicemente meravigliosa. Lascio cadere la sacca di fianco ai miei piedi, sorrido di gioia e mi avvicino a lei velocemente. La sollevo per i fianchi e la faccio girare, mentre il suo volto si distende e inizia a ridere, con gli occhi che brillano.

La adagio a terra e lei avvicina una mano tremante al cerotto che mi copre la parte destra del viso. Appoggio il palmo sopra le sue dita, piegando il viso alla ricerca di un contatto maggiore, poi le scosto delicatamente il polso e deglutisco, con la gola secca. Siamo ancora in silenzio, mentre intorno a noi il resto dei passeggeri sta abbracciando con urla e grida i familiari. Io e Serena siamo in una bolla di sapone, in un mondo altro e completamente nostro, in cui non servono le parole per esprimere la felicità che ci sta sconvolgendo in questo istante.

Serena si alza in punta di piedi, come fa sempre, alla ricerca di un bacio, e io avvicino le labbra alle sue. Mi fermo a pochi centimetri e quando lei apre gli occhi incredula le sussurro dolcemente: «Amore mio, sono così felice di essere qui, anche solo per rivederti una volta ancora», prima di unire le nostre bocche.

[Serena]

Mi stacco dal nostro bacio ed Emir mi guarda colmo di gioia. Nei suoi occhi verdi vedo un luccichio che non conosco. Mi costringo a parlare. «Mi... sbaglio o hai detto...» mi esce, balbettando.
Non posso credere che mi abbia chiamata amore. Non ci voglio credere. È possibile? È davvero possibile che lui mi ami?

«Ti ho detto amore? Sì, ti ho chiamata amore mio. È quello che sei per me. Sei tutto ciò che voglio. Avrei preferito dirtelo per la prima volta in un luogo più romantico» risponde, ridendo piano, «ma l'ansia di non poterti vedere mai più e il sollievo di accoglierti ancora tra le mie braccia non mi hanno dato la possibilità di aspettare. Non serve che ricambi ora, sono paziente e ti darò il tuo tempo, ma per me era giunto il momento. Non potevo più attendere.»

Prendo le sue grandi mani e le accolgo tra le mie, poi alzo lo sguardo e sorrido. «Mio dolce Emir, se con ciò vuoi dire che mi ami, sappi che ti amo anche io. Immensamente, profondamente e irrimediabilmente. Non posso pensare di non vederti più, di non ridere più con te, di non scorgere il luccichio che ora risplende nei tuoi occhi. Ti amo, e non voglio smettere di farlo.»

Emir mi guarda un secondo, poi mi afferra la nuca e mi avvolge in un bacio che non è più dolce come il primo, ma carico della sofferenza, del desiderio, dell'amore che abbiamo entrambi provato in questi giorni. Intorno a noi si leva un coro di urrà e di applausi ed entrambi sorridiamo senza smettere di baciarci con ardore.
Alla fine ci stacchiamo, senza fiato.

Emir mi sorride, poi afferra il cellulare dalla tasca dei pantaloni e compone un numero.

«Chi stai chiamando?» gli chiedo.

Lui scuote la testa con un sorriso. «Tareq. È il mio braccio destro nel lavoro, ma il mio amico fraterno nella vita. Ci conosciamo da sempre.»

Io annuisco e gli afferro una mano, stringendola nella mia mentre lui continua a guardami. Quanto mi sono mancati i suoi occhi. Quanto mi è mancato sentirlo vicino a me.

«Ciao, Tareq. Sono arrivato» dice poi al telefono.

Sento qualcuno esultare dall'altro lato della linea, poi Emir scoppia a ridere. «Sì, fratello, è qui con me. In realtà è stata lei a dirlo per prima e non hai idea di quanto sia bella. Sì, rimedierò. A presto.»

Sbatto le palpebre, confusa. Cosa è bella? O peggio, chi è bella? Oddio, ma... stava parlando di me?

«Serena, hai una faccia buffissima!» esclama Emir, ridendo.«Ho detto a Tareq che sei stata tu a dirmi che mi ami per prima: mi aveva fatto promettere di confessartelo una volta arrivato. Ora però vorrei tornare a casa. Ok?»

Io annuisco, riprendendomi dalla sorpresa. Emir stringe le nostre mani in una morsa calda e possessiva e usciamo dall'aeroporto insieme, felici di esserci ritrovati.

*Autrice*

Sono riuscita a pubblicareeee (cori angelici di sottofondo prego👼👼)!
Ah Ah dai, vi giuro che sto facendo l'impossibile per andare avanti con la storia, ma è difficile con tutti gli impegni accumulati!
Però non potevo lasciarvi con il cuore in gola per Emir...quindi mi sono messa sotto😘

E sì, sono troppo buona!!!!🙈 Mi ero ripromessa di farvi penare per almeno un altro capitolo....ma poi ho pensato che vi avrebbe uccise😉 no dai, scherzo: in realtà avrebbe solo appesantito il racconto!

Fatemi sapere se vi piace! Kiss kiss 😘😘

Elly

PS: piccolo cambiamento nella copertina grazie al suggerimento di giusyana86 e con il super tempestivo lavoro di _26vale_! Grazieee😘❤

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