Vuoi davvero sapere la verità?
Riapro gli occhi solo per ritrovarmi a fissare il bianco sporco e lanuginoso del tettuccio di una macchina; volto la testa e vedo lo schienale del sedile anteriore. Sono distesa sul sedile posteriore di un'auto che non conosco, mi sollevo sulle braccia e mi accorgo che devo rallentare i movimenti perché mi gira la testa. Guardo fuori dal finestrino e vedo il mare, riconosco la spiaggia in cui venivo a giocare con papà.
Papà!
Il ricordo mi assale come uno tsunami: mio padre è morto.
Apro lo sportello e corro fuori dalla macchina, devo raggiungerlo, devo andare da lui. E invece mi sento afferrare di nuovo. «Fermati!» mi dice una voce: «Calmati!» È perentoria ma sta cercando di tranquillizzarmi.
Matteo mi afferra per le spalle e mi costringe a voltarmi: «Dove pensi di andare?»
«Devo tornare da mio padre! Lasciami andare!» Sto piangendo tutte le mie lacrime di disperazione.
«Non puoi tornare lì. Lo capisci? Non puoi!»
È lui che mi ha portato via? Mi sta davvero salvando la vita? Lo guardo negli occhi e credo di riconoscere una sincera preoccupazione per me.
«Scusa, ho dovuto sedarti, ma dovevo portarti via da lì. Ora sei in pericolo.»
«Di che stai parlando? Che sta succedendo? Perché hanno ammazzato mio padre? È stata colpa mia, vero? Non avrei nemmeno dovuto iniziare a parlare. Mi stavate ascoltando, non è così?»
«Calmati, ascolta.» Mi sostiene e mi guida con fermezza verso la spiaggia deserta, mi fa sedere sulla sabbia e si sistema accanto a me. Continua a guardarmi come se mi stesse studiando e valutando quanto sono disposta ad ascoltare.
«Non è stata colpa tua. In realtà tu eri l'esca. Tuo padre lavorava per noi.»
Il suono dello schiaffo che gli lascio sulla guancia per un attimo sovrasta quello delle onde. Matteo rimane impassibile anche dopo questo: accusa il colpo, stringe le labbra e torna a guardarmi negli occhi: «Questo con cambia il fatto che tuo padre fosse un agente dell'AISI.»
Abbasso lo sguardo, cerco di riflettere, di rincorrere le idee e di riorganizzarle. Che cosa sta succedendo? Che cosa è successo nella mia vita e da quando le cose non sono come credevo che fossero?
«Mia madre?» È la prima domanda che riesco a porgli: devo sapere se anche lei è coinvolta in tutto questo.
«No, lei non sa niente.» E a questo punto le lacrime ricominciano a rigarmi le guance: come potrei dirle quello che è successo? Come potrei spiegarglielo?
«Che cosa ha fatto? Perché ucciderlo quando la malattia lo stava già facendo per loro?»
«Perché era una copertura.»
Spalanco la bocca, sono di nuovo irrequieta: «Non è possibile. Non è vero. Io l'ho visto. L'ho visto deperire mese dopo mese, prendere medicine, andare in ospedale. Come puoi dire che fosse una copertura?»
«Le persone coinvolte, medici, assistenti, farmacisti, sono più di quelle che immagini. Era il modo che aveva per scambiare informazioni con noi.»
«Mia madre è rimasta distrutta dalla sua situazione e ora mi dici che era tutta una farsa? Come credi che prenderà la sua morte? Come potrà spiegarsi il fatto che gli abbiano sparato?»
«Non lo verrà a sapere. E non è un tuo problema, ci penseremo noi.»
«Non è un mio problema? Si tratta di mia madre! Stiamo parlando del fatto che mio padre le ha mentito per tutti questi anni, che ha mentito a me. E tu dici che non è un mio problema? Cosa è successo? Perché lo hanno ucciso?» chiedo ancora esasperata. Ho bisogno di sapere.
«Da qualche mese l'agenzia sospettava che tuo padre passasse informazioni riservate all'estero. Hanno cominciato ad osservarlo con maggiore attenzione, facendo nascere quindi la necessità di saperne sempre di più: con chi era in contatto, quali informazioni uscivano dal Paese, le modalità di comunicazione.» Matteo fa una pausa dai miei occhi per fissare il mare: «Hanno pensato quindi di arrivare a lui tramite te, così Stefano ti ha contattato, a L'Aquila. Ricordi la prima operazione che ti ha fatto fare?»
Annuisco: «Quella per accedere alla rete dell'università.»
Sorride sarcastico: «È questo che ti ha detto? Non era quello lo scopo. Avevano bisogno di sapere quello che tu sapevi. E soprattutto dovevano capire quanto eri disposta a fare per l'agenzia.»
Comincio a tremare, ma non credo che sia colpa della sabbia umida sotto di me.
«La seconda missione invece, quella in cui ci siamo conosciuti.» Torna a guardarmi un momento, ma sembra arrossire e così distoglie di nuovo lo sguardo verso le onde: «Tuo padre si era fatto ricoverare, ma non sapevamo dove e per quanto tempo, finché non ce l'hai detto tu: per una notte, stanza due cinque sette uno. Ti ricorda qualcosa?» Credo di essere sbiancata, ma lui continua lo stesso: «Avevamo il dubbio che tuo padre avesse lasciato qualcosa in quella stanza e dovevamo recuperarlo. Il giorno dopo una nostra agente fingendosi un'inserviente ha perquisito la stanza finché non ha trovato una scheda magnetica infilata nel retro del televisore. Inutile dirti che le uniche impronte rilevate dalle analisi sono state quelle di tuo padre.»
«No, non è possibile. Mio padre non è andato in ospedale un mese fa. Me lo avrebbero detto.»
«Tua madre ha scelto di non dirtelo, per non farti preoccupare, anche perché lo hanno tenuto in osservazione solo per una notte.»
Matteo mi lascia solo qualche secondo per farmi assimilare quest'altra, assurda, informazione, e poi riprende: «Una volta avute le prove del tradimento di tuo padre, hanno deciso di agire.»
«Chi? L'AISI? Corsi? Chi l'ha deciso? Chi l'ha fatto fuori?» Sono di nuovo fuori di me e sto di nuovo urlando, ma Matteo scuote la testa: «No, Stefano ha cercato di fermarli. Ha cercato di saperne di più sull'operato di tuo padre, voleva sapere per chi stesse lavorando e, soprattutto, di questo ne sono certo, non avrebbe voluto ucciderlo.» Io continuo a non capire e allora lui mi chiede: «Non lo hai riconosciuto? Poco fa, al telefono, non hai riconosciuto la voce di Corsi?»
Un lampo attraversa la mia mente: la voce del secondo uomo durante la prima telefonata era di Stefano Corsi. Era lui che si rifiutava di fare qualcosa. Era lui quello irritato dalla situazione. Eppure non mi sembra si sia prodigato per salvare la vita di mio padre. Continuo a non fidarmi e adesso comincio a nutrire dei dubbi più fondati anche su Matteo, che invece sembra riporre piena fiducia in lui.
«Chi allora?» gli chiedo.
«L'AISE. La nostra controparte che si occupa dello spionaggio estero.»
Sono stanca. Mi stendo con la schiena sulla sabbia, chiudo gli occhi e altre lacrime scendono lungo le tempie. Sono stanca di tutte queste sigle di agenzie che decidono del destino degli uomini. Sono stanca di vivere una vita che non posso controllare con le mie scelte. Sono stanca di fare il burattino nelle loro mani. Rivoglio la mia vita, complicata, triste, dura, affannosa, affettuosa, gioiosa, spensierata, infantile. Rivoglio tutto così come era.
Ecco perché io, perché avevano scelto me. Di conseguenza mi nasce un'altra domanda che gli faccio immediatamente: «Perché tenermi ad ascoltare quelle telefonate allora?»
«Non sapevamo cosa avessero in mente. Stefano doveva mettersi in contatto con loro questa mattina per capirlo. Quando mi hai riferito quello che avevi sentito, mi sono reso conto che avevano fatto in modo che tuo padre uscisse di casa oggi. Probabilmente aveva intuito qualcosa riguardo te e ha provato a recuperare altre informazioni. Ne ho parlato con la mia unità e ci siamo mobilitati, ma, evidentemente, non abbastanza in fretta.»
La rabbia che mi assale mi fa di nuovo rimettere in piedi, nonostante mi accorga della mortificazione nel suo tono di voce: «Già, non abbastanza! Non l'avete protetto! Non avete fatto niente per lui! Avete lasciato che lo ammazzassero!!!»
Urlo e scalcio di nuovo e corro sulla sabbia verso la macchina e Matteo mi raggiunge e mi afferra di nuovo e di nuovo cerca di calmarmi e mi dice che ci ha provato, ma ormai era troppo tardi, che mio padre aveva sbagliato e che la decisione è partita da troppo in alto per poterla fermare e che il fatto che mi trovassi lì è stato solo un effetto collaterale, perché io sarei dovuta essere solo l'esca, perché non avrei dovuto mai sapere niente di tutto questo e che dopo oggi sarebbero spariti tutti dalla mia vita.
Lo guardo cercando di capire: «Stai dicendo che anche io sono in pericolo? Che cercheranno di farmi fuori perché ero seduta su quella panchina?»
«Ci sei arrivata finalmente.» La sua voce è dura ma comunque preoccupata: «Ti ho portato via da lì perché non ti vedessero, ma almeno un'altra persona sa che c'eri.»
«Il killer.» logicamente. Lui annuisce: «Non sanno che ti ho portato qui e non sanno che ti sto raccontando tutto, ma ormai non potevo permettere che questa storia andasse avanti in quel modo, con te che continuavi a fare domande senza ricevere nessuna risposta. Dovevi sapere.»
«E tu che ci guadagni?» lo sfido. So di essere dura con lui, e in cuor mio so che non se lo merita. Ma dopo tutto quello che mi ha raccontato, non voglio fidarmi più di nessuno. Perciò se mi dirà che in questo modo spera di guadagnarsi la mia fiducia, scapperò dritta in macchina e correrò alla polizia e racconterò tutto, anche se rischierò di essere internata in un manicomio.
E invece lui mi risponde: «Avrò fatto il possibile per cercare di avere la coscienza a posto. Sto solo cercando di fare la cosa giusta.»
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