La panchina sulla piazza
Smetto di guardare inebetita la porta a vetri chiusa davanti a me e mi rigiro verso la piazza, attraverso la strada con i libri sotto braccio e individuo mio padre seduto ad una panchina. Lo raggiungo e mi siedo anch'io.
«Ciao. Già fatto?»
Annuisco con un cenno della testa.
«Tutto a posto?» continua a chiedermi con una specie di aria preoccupata sul volto. Allora è vero che i genitori si accorgono di tutto quando riguarda i figli...
Per tutta risposta poso i libri sulla panchina e scivolo indietro poggiando la mia testa sulla sua spalla. Sento la lana ruvida del suo cappotto sulla pelle. In questo preciso istante sono serena, perché c'è mio padre a proteggermi dai mali del mondo.
Guardo le giostrine del parco, deserte perché i bambini sono a casa con le loro famiglie a godersi i giocattoli che ha portato loro Babbo Natale e a sperare che la Befana soddisfi le loro voglie golose con i dolci nella calza.
Se alzo leggermente lo sguardo riesco a vedere la sua nuca, i capelli tagliati corti, la barba rasata. Sorrido perché noto che gli piace ancora sistemarsi per le giornate di festa, forse per se stesso o forse è stata mamma a fargli prendere quest'abitudine, ma il risultato è sempre lo stesso, nonostante la malattia: mio padre è un bell'uomo.
«Che cosa è successo?» La sua voce è ancora più bassa, quasi impercettibile, ma lo sento specificare: «Lì dentro.»
Sobbalzo leggermente per poi tornare a rilassarmi: non è possibile che mio padre sappia qualcosa, deve solamente aver notato la mia inquietudine. Ma per la prima volta sento che posso parlarne a qualcuno, sento che lui potrebbe capirmi, che sarebbe abbastanza forte da ascoltare e consigliare. So che può farcela. So che posso farcela. E così comincio: «Mi hanno fanno ascoltare delle intercettazioni...» Ma non ho abbastanza tempo per concludere.
Sento un tonfo, soffocato, come il rumore prodotto da un palloncino che scoppia in lontananza. Alzo gli occhi e vedo il mento di mio padre ricadere sul suo petto, come se si fosse appisolato all'improvviso. «Papà.» lo chiamo, ma non risponde. Mi rendo conto di sentire qualcosa di caldo sulla faccia, mi tocco la guancia e ritiro la mano sporca di un paio di striscioline rosse. «Papà!!!» urlo. Lo scuoto. Vedo la ferita dietro la sua testa. Vedo gli occhi chiusi. Vedo la bocca aperta.
Comincio a piangere e a urlare e lo chiamo ancora, ma lui non risponde, non risponderà più. Mi guardo intorno, per cercare aiuto, o forse per capire cosa sia successo. Gli hanno sparato, ecco cosa è successo, lo so, ma non me ne capacito. Perché? Perché gli stavo raccontando quello che ho appena fatto? È stata colpa mia. Ho fatto ammazzare mio padre? Ho ucciso mio padre. No! Perché? No!!! Nella mia testa continua a ripetersi la stessa parola "No!", la stessa domanda "Perché?".
Non riesco a pensare, voglio solo urlare, scalciare, imprecare, odiare il mondo intero. Ed è quello che faccio anche mentre sento un paio di braccia che mi afferrano in vita e mi trascinano lontano dal corpo di mio padre. Sento una mano mettermi un fazzoletto in faccia, faccio fatica a respirare e dal naso e dalla bocca ormai entra solo un odore dolciastro e niente aria.
Continuo a ribellarmi alla realtà, alla morte di mio padre, alla mia cattura, ma pian piano le forze mi abbandonano e vedo affievolirsi sempre di più su quella panchina l'immagine dell'uomo che mi ha cresciuta e mi ha amata e sento che da oggi in poi sarà solo il dolore di questa perdita a guidare la mia vita.
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Ciao, miei cari lettori!
Grazie per essere giunti fin qui, in questo mio viaggio in qualche modo interiore.
Questa piccola nota autore nasce per dirvi che ho iscritto questa storia al "🔜MasterPad🔝 [APERTO]" di dream_club .
Se può interessarvi, dategli un'occhiata.
Un abbraccio!
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