EPILOGO
Sono passati cinque mesi dalla morte di mio padre, eppure continuo a rivivere quell'orrenda giornata nei miei incubi, ogni notte. Cerco di distrarmi con lo studio, ma continuo a parlare poco: parlo poco con le mie coinquiline, parlo poco coi colleghi di università, parlo poco con mia madre. Questo aspetto di me mi rende particolarmente vigliacca, ma la paura che qualcuno possa far del male anche a lei mi convince che è meglio fare la stronza che l'orfana. Mi convinco che la sto proteggendo, che lo sto facendo per lei.
Dopo un paio di mesi da quel maledetto Santo Stefano sono tornata a L'Aquila cercando di rimettermi in carreggiata con gli esami, ma avendo saltato parecchie lezioni sto incontrando molte difficoltà. Una passeggiata se paragonate ad inizio anno accademico.
Ho cambiato indirizzo e-mail e numero di cellulare, anche se so che è solo un palliativo: mi hanno trovato una volta, possono trovarmi ancora; non saprei nemmeno come fare a sparire completamente, senza contare il fatto che non posso abbandonare mia madre.
Non ho più rivisto Corsi o Matteo, né ho ricevuto altre chiamate da numeri inesistenti, ma nessuno mi impedisce di guardarmi continuamente le spalle, di dubitare di chiunque, di cercare indizi dove in realtà non ci sono. Sono ufficialmente diventata paranoica. La strada verso la pazzia è ormai spianata. Grazie, Governo Italiano, grazie di cuore per avermi rovinato la vita!
Da quando è tornato il bel tempo cerco di venire sempre più spesso a Collemaggio: studiare seduta sotto un albero in mezzo al verde, mi infonde un senso di tranquillità, che è comunque una pallida imitazione della serenità che ho provato con mio padre, l'ultima volta che gli sono stata accanto.
In ogni caso i suoni della natura, per quanto attutiti, i gridolini dei bambini che giocano, il rumore dei passi ritmici della gente che corre, scandisce una certa regolarità al mio cuore.
«Ciao, Giulia.»
La voce proviene da un punto alle mie spalle, sulla destra. Non ho bisogno di girarmi per riconoscerla, il mio corpo ha già reagito automaticamente: la schiena si è tesa, il viso è avvampato, lacrime di frustrazione hanno raggiunto immediatamente i miei occhi e stanno lì lì per precipitare.
Matteo si avvicina ancora di un passo: «Come stai?»
Continuo a non rispondere. Cosa vuole che gli dica? Che sto bene? Che ho superato tutto? Che la vita è uno schifo? Evidentemente lo sa benissimo anche lui, perché abbassa lo sguardo imbarazzato, e indicando il terreno accanto a me, chiede: «Posso?»
«Fa' come vuoi.» Torno a sottolineare con la matita il libro che ho tra le gambe, ma le righe si confondono una sull'altra, faccio difficoltà a distinguerle tra le lacrime che sto trattenendo.
Lui si siede ma non parla più. Passa qualche minuto con noi che stiamo così, io che stringo convulsamente la matita tra le dita e lui che guarda gli alberi che circondano il parco. Poi finalmente dice: «Non sanno che sono qui. Per favore, dimmi se posso fare qualcosa. Per te o per tua madre.»
A sentirla nominare scatto: «Non azzardarti a nominarla. Dovete lasciarci in pace, tu, Corsi, l'AISI, l'AISE e qualunque altra agenzia governativa o illecita possa esistere a questo mondo!»
Maledizione! Una lacrima è già scesa in caduta libera.
«Mi dispiace, Giulia. Mi dispiace davvero.» Si rialza: «Forse ho sbagliato a venire qui.»
«Già, forse.» rincaro la dose con del sano sarcasmo.
Sembra rassegnato ma aggiunge ugualmente: «Ho provato ad indagare per conto mio, volevo saperne di più su tuo padre, volevo capire per chi lavorasse. Ho parlato con Stefano per capire perché non ha fatto di più.» Tutto questo mi convince ad alzare lo sguardo in una speranzosa attesa di risposte, ma Matteo scuote la testa: «Sono riuscito solo a scoprire che Stefano era un'altra pedina, che sopra di lui la gerarchia si spreca in livelli, ma che almeno non è stato lui a dare l'ordine materiale. Ho cercato di aiutarti, Giulia, e ho fallito.»
Questo non è vero, ma sembra che lui non lo sappia. «Aspetta.» Mi alzo e lascio cadere il libro ai miei piedi: «Non del tutto.»
Lui mi guarda senza capire. «Non hai fallito del tutto. Mi hai salvato la vita. Se non mi avessi stordita col cloroformio e non mi avessi portato in spiaggia, avrebbero ucciso anche me. Se non avessi inventato quella storia sul suicidio, avrebbero sospettato che io o mia madre sapessimo qualcosa. Di questo mi rendo conto e di questo ti sarò grata per sempre.»
Fa un passo per avvicinarsi, ma poi sembra trattenersi, come se temesse di oltrepassare una linea immaginaria. Il suo viso è sconcertato, forse non si era mai reso conto di questo, forse pensava che avrebbe potuto aiutarmi solo dandomi le risposte alle domande che ponevo. È questa sua espressione che mi fa vacillare dal punto di equilibrio instabile verso di lui. È questo che mi spinge a fidarmi di lui e solo di lui, perché so che potrò parlare di tutto questo solo con lui, che non ha mai cercato di dire le parole giuste, che non ha mai provato a raggirarmi, e ha sempre cercato di non espormi più del necessario.
«Dimmi la verità. Ti chiami davvero Matteo?» Le lacrime mi scendono sulle guance senza che le voglia fermare, ma la bocca è schiusa in un sorriso malinconico.
«Sì, il mio vero nome è Matteo.» Adesso sorride anche lui, grato per la porta che gli ho appena aperto.
Ci sediamo di nuovo sotto l'albero e cominciamo a parlare, veramente.
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Salve, cari lettori!
Prima di tutto volevo ringraziarvi per essere arrivati fino alla fine di questa storia: conoscerne i protagonisti, fare da spettatori alla loro vita e, spero, rimanerne emozionati, mi rende felice. Perciò grazie.
Aggiungo due righe giusto per informarvi che questa storia è iscritta al "Contest For Talents 2018" di @Beautiful-world e @Annabeth024 e al "NecSharing Contest" di @giuli2hope .
Spero di arrivare fino in fondo. ^_^
Un abbraccio a tutti!
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