40. Una partita a sangue freddo
Quella mattina uscii di casa un'ora prima. Mia madre, che era solita svegliarsi alle 5:00 del mattino perché "Il mattino ha l'oro in bocca" o una cosa del genere, appena mi vide varcare la soglia della cucina a quell'ora con il mio pigiama addosso e un'espressione da zombi capii che suo figlio aveva qualcosa che non andava. Tuttavia decise di non farmi domande; ottima decisione. Una volta preparato uscii di casa e cominciai ad incamminarmi verso il mio obbiettivo. A quell'ora del mattino il cielo era ancora poco illuminato, e sulle strade non c'era quasi nessuno; solo qualche macchina e poche persone che camminavano, nessuno della mia età. All'improvviso udii un piagnucolio provenire dal mio zaino e roteai gli occhi al cielo.
«Sì, va bene.» Con malavoglia misi le mani dietro la schiena e aprii la cerniera con qualche difficoltà.
Dal mio zaino spuntò immediatamente il muso di Bask, che cominciò ad abbaiare. L'avevo nascosto lì dentro per uscire di casa, speravo che almeno per un po' non avrebbe protestato, dato che la sera prima avevo dovuto pulire io la mia camera da letto dai ricordini che aveva lasciato per terra. Di certo non mi ero svegliato prima per portarlo a fare una passeggiata; il mio unico obbiettivo era quello di lasciarlo al canile più vicino, così non sarebbe più stato un mio problema.
«È un peccato che tu voglia darlo via» commentò tristemente Ed. «Mi mancherà quel cane.»
Feci una risata sarcastica, poi tornai serio. «A me no. Da quando l'ho preso ha causato solo guai.»
Il cane abbaiò di nuovo, come se avesse capito quello che avevo detto.
Sospirai, frustrato. «Vuoi uscire? Bene!» quel cane mi stava facendo impazzire.
Irritato mi tolsi lo zaino e feci uscire il cane, permettendogli di camminare.
«Sappi che se provi a scappare io non ti prenderò.» Gli dissi con tono di sfida.
Stranamente, Bask non volle scappare e cominciò a camminare allegramente di fianco a me. Non dissi nulla, ma apprezzai quella cosa.
Giunto davanti al canile presi il cane in braccio ed entrai nell'edificio. Parlai per un po' con l'uomo alla reception, spiegandogli come stavano le cose. Non volevo che pensasse che avessi abbandonato un povero (si fa per dire) cane, ma che al contrario volessi salvarlo. Lui mi credette e mi fece firmare un po' di documenti, dopodiché gli diedi il cane e lui lo mise in un piccolo recinto. Giunto il momento di andarmene, mi fermai per guardarlo un attimo negli occhi. Non so come, ma stavo cominciando a provare sensi di colpa.
«Starà bene, vero?» domandai rivolto al signore di fianco a me.
«Starà benissimo.» Mi confermò lui, con un sorriso in volto.
Sembrava un tipo sincero, perciò gli credetti. Mi inginocchiai davanti a Bask e sospirai.
«Addio, palla di pelo.»
Il cane mi ringhiò contro, e io tornai con sorpresa in piedi. Speravo che gli sarei mancato, ma mi resi conto che era rimasto lo stesso cane che avevo incontrato al campo da basket. Irritato, gli feci una piccola smorfia. Uscii dal canile con un'espressione pensierosa in volto, e con quel cane nella mente.
«Ci sei rimasto male, vero?» disse Ed divertito.
«Assolutamente no!» ribattei con orgoglio. «Sono solo soddisfatto di aver fatto la cosa giusta. E stanco» aggiunsi. «Molto, ma molto stanco.»
Non ero solito svegliarmi a quell'ora del mattino, e calcolando il fatto che la notte precedente ero andato a letto tardi col pensiero che Bask potesse scappare dalla stanza, ero davvero esausto. Le mie due occhiaie si potevano notare da chilometri di distanza.
***
«Devo proprio giocare, signor Peterson?» domandai con un tono stanco al professore di educazione fisica.
La scuola era iniziata ormai da qualche ora. Ero riuscito a superare le ore di scienze, ma non avevo affatto voglia di giocare a dodgeball. Avevo le ossa pigre per il fatto che non avessi chiuso occhio, e muoverle sarebbe stato veramente troppo. Il signore mi squadrò da capo ai piedi, incrociando le braccia in segno di sfida. Capii subito che con lui non si scherzava e sospirando mi alzai dalla panchina, camminando a passo lento verso il campo. Quando all'improvviso vidi Chase e Miles dall'altra parte del campo con un sorrisetto beffardo in volto, capii di essere fottuto. Proprio le ultime persone che volevo vedere. Voltai lo sguardo verso la mia squadra e l'unica persona che riconobbi fu Bethany. Quella ragazza non era portata per qualsiasi tipo di sport, di sicuro non avrebbe fatto scintille in campo. Guardandola sospirai, e al fischio del professore la partita poté cominciare. Subito corsi verso una palla a metà campo, e riuscii a prenderla prima di una ragazza. Se volevo vincere dovevo prima eliminare i membri forti, perciò puntai la palla contro Chase e la lanciai verso di lui. Il ragazzo riuscì a schivarla, e la cosa mi fece leggermente irritare. Dai suoi muscoli dedussi che nella sua vecchia scuola doveva essere molto bravo negli sport.
All'improvviso Bethany strillò: «Ahi! Mi sono rotta un'unghia!»
Non era possibile che la mia squadra fosse così debole, sembrava che il signor Peterson fosse stato ricattato da Chase. La ragazza si lamentò proprio davanti alla riga di metà campo, Miles aveva una palla in mano ed era pronto ad attaccare, ma lasciò stare la sua ragazza e decise di colpire me. Io, però, presi la palla al volo, è ciò voleva dire che Miles aveva finito la partita.
«Miles eliminato!» gridò il prof.
La mia espressione era ben soddisfatta. Il ragazzo mi guardò con odio e a passo lento uscì dal campo, mentre la partita continuava. Riprovai a colpire Chase, ma quel biondo aveva dei riflessi davvero eccezionali, e mancò tutti miei colpi. Bethany, invece, si stava ancora lamentando per la sua unghia rotta, e fu presto eliminata. La partita era quasi finita; ero rimasto solo io, e dell'altra squadra c'era Chase e un ragazzo castano. All'improvviso quest'ultimo mi lanciò una palla, ma io la presi al volo ed egli fu costretto ad andarsene. Eravamo rimasti solo io e Chase; quelli della mia squadra mi facevano il tifo, mentre la squadra avversaria era accanita sul biondo. Era molto forte, ma riuscii a schivare tutti i suoi colpi; tuttavia, anche lui era agile e veloce. Ero concentrato al massimo, non avrei perso un'altra volta.
«Hey Chris!» era Miles, che mi parlava dall'altra parte del campo. «Come sta tuo padre? Ha trovato un'altra fidanzata?»
Quella frase. Quella maledetta frase. Non doveva permettersi di parlare di mio padre. Rivolsi un'occhiata carica di odio; realizzai dopo che era solo un tranello per distrarmi. Ma era troppo tardi, perché Chase usò tutta la forza che aveva in corpo e tirò una palla che volò alla velocità della luce dritta sul mio naso. Persi il controllo e feci qualche passo indietro, visibilmente smarrito. La figura delle persone che fischiavano e gioivano e l'espressione orgogliosa di Chase erano tutte sfocate. Sbattei le palpebre più volte, cercando di mettere bene a fuoco, e alla fine ci riuscii. Avevo la sensazione che un liquido caldo stesse scivolando tra il mio naso e la mia bocca, accompagnato da un dolore lancinante. Posai una mano sul mio naso, poi le diedi un'occhiata: sangue. Il signor Peterson mi venne incontro preoccupato, mentre potevo udire la risata isterica di Bethany e i sogghigni degli altri ragazzi.
«Chris, vuoi andare in infermeria?»
Scossi leggermente la testa, ancora stordito. «No, no, no. Io... devo solo sciacquarmi il viso.»
Ancora accompagnato dalle risate di alcuni dei miei compagni, camminai a passo veloce verso l'uscita della palestra, con un velo di vergogna in volto. Miles mi conosceva troppo bene, sapeva perfettamente i miei punti deboli.
«Aspetta, Chris!» fu quest'ultimo a parlare.
Mi girai verso di lui, ma me ne pentii subito dopo. Un'altra pallonata mi venne catapultata sul viso, questa volta diretta verso l'occhio, facendomi per la seconda volta perdere l'equilibrio. Non caddi a terra per poco. Miles rise, prima di venire sgridato pesantemente dal professore. Tuttavia, la sua espressione soddisfatta gli rimase impressa sul volto. Mi girai immediatamente e corsi verso gli spogliatoi. Una volta entrato sbattei con forza la porta alle mie spalle e mi sdraiai con la testa contro il muro. Il mio naso e il mio occhio bruciavano da morire, sentivo che se non avrei fatto qualcosa sarei scoppiato a piangere come una femminuccia. In quel momento tante domande mi rimbombavano nella mente: cosa avevo fatto per meritarmi tutto questo? Quando sarebbe avvenuto il momento in cui quei due avrebbero aperto gli occhi? Ma soprattutto, quanto ancora si starebbero spinti?
Il sangue che colava lungo la mia bocca e andava a cadere sul pavimento non era un mio problema, e non ci feci più caso. Anche il dolore lancinante non mi faceva più male di quanto stessi provando dentro. Era una rovina essere costantemente umiliato da quello che un tempo era il mio più caro amico. Qualcosa doveva cambiare, le carte dovevano girarsi.
«Tutto bene?» domandò tristemente Ed.
Chiusi gli occhi cercando di non piangere. «No, non va tutto bene» scandii acidamente. «Potresti chiudere la bocca, una volta tanto?»
La mia coscienza non disse più nulla. Forse ero stato un po' troppo severo, ma quello che stavo provando era insostenibile. Presi respiri profondi e cercai di calmarmi. Presto sarei ceduto, me lo sentivo.
All'improvviso la porta degli spogliatoi si aprii, e voltai la testa verso un ragazzo dalla pelle scura e dalla corporatura piuttosto magra e schietta. Non appena mi vide sul pavimento il suo viso divenne preoccupato.
«Wow» disse sorpreso, inchinandosi velocemente davanti a me. «Che è successo?»
«Sto bene.»
«Tu non stai bene, amico. Ti sei visto in faccia?»
Scossi leggermente la testa, ancora debole. Il ragazzo tirò fuori il suo cellulare e mi fece una foto al volo, poi girò la mano e me la fece guardare. Non mi riconobbi neanche; ero messo davvero male.
«Avanti, devi metterti in piedi.» Disse, avvolgendo un braccio sotto le mie spalle e aiutandomi ad alzarmi.
Mi appoggiai leggermente a lui e debolmente mi alzai in piedi.
«Ce la fai a camminare?» mi domandò il ragazzo, preoccupato.
«Ce la faccio.» Dissi con un tono acido.
Essere gentile non mi stava riuscendo affatto bene. Ero molto irritato.
«Perdi un sacco di sangue, devo portarti in infermeria.»
«No, devo solo sciacquarmi il viso.»
Andare in infermeria mi risultava una pessima idea. Mi avrebbero visto tutti, e poi non volevo risultare debole. Mi misi davanti al lavandino e mi misi l'acqua sul naso, maneggiandolo delicatamente e togliendo tutto il sangue, ma quello continuava ad uscire. Mi guardai allo specchio e mi resi conto che avevo un occhio nero. Quelle pallonate erano state davvero potenti. Ero ridicolo, nessuno avrebbe potuto vedermi così.
«Tu sei Chris, vero?» domandò d'un tratto il ragazzo.
Annuii silenziosamente e continuai a sciacquarmi il viso.
«Io mi chiamo Connor.»
Mi tappai il naso, ma il sangue scuro riuscii comunque a sgorgare.
«Senti, sono consapevole che in questo momento non vuoi nessun aiuto e che sei facilmente irritabile, ma se posso darti un consiglio ti direi di prendere uno straccio per tappare il sangue e un po' di ghiaccio per il naso, se non vuoi sembrare uno zombi al cento per cento.»
Sospirai e mi decisi ad ascoltare quello che Connor stava dicendo. In fondo voleva solo aiutarmi, le sue intenzioni non erano cattive.
«Va bene» dissi rassegnato, girandomi verso di lui. «Ma non voglio che nessuno mi veda in questo stato.»
«Tranquillo, ci penso io.»
Ero felice di aver incontrato qualcuno che avrebbe potuto aiutarmi. Gli rivolsi un piccolo sorriso, il ragazzo stava per andarsene, quando io lo fermai.
«Connor?»
Lui si girò.
«Potresti cancellare la foto che mi hai fatto prima?» ci tenevo alla mia reputazione.
Il ragazzo sorrise. «L'avevo già cancellata. Non volevo avere gli incubi.»
Feci le spallucce. «Touchè.»
Connor rise ed uscì dagli spogliatoi, dopo avermi avvertito che ci avrebbe messo qualche minuto. Nel frattempo mi sedetti su una panca e aspettai impazientemente il suo arrivo, riflettendo su quello che era successo.
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