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Oh My Gods: Un giorno dopo l'altro pt.2

Dopo ore di volo estenuante arrivai finalmente al regno dei mortali, con la testa che fumava di gioia e il sorriso che traboccava di fierezza. Il loro reame era molto più indietro del nostro ma era altrettanto bello: un manto d'erba verde si espandeva su tutta la terra dove gli umani camminavano, perdendosi in colline lontane e poi ai piedi delle montagne, le quali si coloravano di oro o di argento a seconda del sole calante. Un rivolo di luce continuava fiebolmente a illuminare i medesimi fili d'erba: e questo infatti continuava a dividere il cielo, a correre sulla terra, nelle strade costernate da alti alberi e fitti cespugli, infine sfociava nel mare cristallino e nelle case.

Ma tra tutte quelle abitazioni una spiccava in candore nelle mura e grandezza nella struttura: una perfetta reggia per una perfetta principessa mortale! Psiche abitava lì dentro me lo sentivo, la luce mi aveva guidato, il cuore batteva forte ed emozionato, non poteva essere una falsa convinzione!

Aprii le mie ali, che ormai sapevo controllare, con un pop e cercai di spiare attraverso le anguste finestrelle: la casa da dentro non era sfarzosa, ma comunque arredata con oggetti strani e mai visti. Ancelle e servitori affollavano i corridoi trasportando frutta, uva e grano, il cibo dei mortali, in grandi vassoi di bronzo tenuti precariamente in equilibrio, altri appuntavano cose con piccoli pennini intinti di inchiostro, altri impilavano i libri, altri ancora aizzavano il fuoco. Tutti però indossavano gli abiti tradizionali della Terra, lunghi pepli e tuniche pallide: solo Psiche che per un fugace momento corse in corridoio con un sacco di rotoli tra le braccia, colorava la sua con pregiate stoffe porpora.

La seguì rapidamente: girava sclaza, con monili e gioielli ai polsi e alle caviglie ed ogni suo passo risuonava nell'aria, gioioso. Si rifugiò, teneramente abbracciata dalle tenebre, in quella che sembrava essere la sua stanza. Tuttavia non sembrava essere nemmeno vuota.

Appoggiato all'angolo in cui si erano appartati c'era uno Zefiro molto assonnato che armeggiava con strumenti metallici e pergamene: stavano studiando. Anche lui vestiva abiti umani, forse per non dare troppo nell'occhio, ma pareva fidarsi di quella stanza, così tanto da girare con le ali spalancate e bianchissime e da perdere quel suo ciglio perennemente allertato. Quando la ragazza entrò alzò gli occhi e sorrise appena, appollaiandosi vicino a lei come un guardiano. Sfogliavano insieme le pagine di un libro ingiallito e consunto, ridendo qualche volta e scambiandosi sguardi d'intesa. Odiavo ammetterlo ma ero un po' geloso: quei due mi avevano giurato di essere solo dei conoscenti ed invece si comportavano anche da più che amici! Il mio cuore sobbalzò e persi l'equilibrio precario tra cuore e mente. Persi il controllo precipitando al suolo, tastando l'aria a tentoni.

Il mio urlo stridulo e il tonfo nel cortile fu udibile in tutta la casa facendo accorrere ogni persona che la popolava. Dopo secondi molto dolorosi provai ad aprire le palpebre invanamente. La testa puslava come se ci fosse caduto un masso sopra, un minimo movimento e rischiava di spaccarsi, ma nonostante tutto udii: «QUESTO É UNO DEI TUOI PSICHE! SEI UNA VERA DISGRAZIA PER QUESTA FAMIGLIA: PORTI A CASA SOLO MOSTRI!»

«NON SONO MOSTRI, SONO MIEI AMICI! E SONO DEI, PER TUA INFORMAZIONE!» replicò l'inconfondibile voce di Psiche.

«Gli dei sono alti, belli e talentuosi! Gli energumeni che ti porti dietro sono solo degli sfigati che volano qua e là! QUESTI SONO SOLO MOSTRI, MA ALLA FINE TU HAI IL FETISH PER LORO NO!?» continuò un'altra voce, stridula come la prima. Alcuni ragazzi, probabilmente Dei anch'essi, risero sguaiatamente.

Poi di nuovo la prima sorella aggiunse: «SE TI PIACCIONO COSÌ TANTO PERCHÈ NON TE LI SPOSI!? AHAHAH»

E un'altro giro di risate riempì l'aria, questa volta includendo anche balie e servitori.

«Ora basta, adesso stanno esagerando» ringhiò Zefiro tra i denti, partendo alla carica e puntando il gruppo di adolescenti con sguardo omicida.

«No fermo!» esclamò Psiche afferrando per un fianco scoperto, poi indicando il mio corpo lamentoso affermò: «Aiutami a portarlo dentro, potrebbe stare veramente male»

Le ultime parole che sentii non furono di certo carine: diedero a Psiche della baldracca e a Zefiro del rammollito e non oso pensare a tutte le crudeltà che possano aver detto sul mio conto. Sentii sulla pelle il tocco morbido del dio vento, il quale incredibilmente cercava di trasportarmi dentro senza altri danni quando invece ero sicuro che mi avrebbe sballottolato da una parte all'altra e la voce di Psiche guidarlo, un po' incrinata. Provai a dire qualcosa per rassicurarla: lei lo faceva sempre con me, ma le parole mi morirono dentro e l'unico verso che mi uscì fu un gemito soffocato, quasi comico. Poi mi addormentai.

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Se Psiche stessa non mi avesse bruciato la guancia con l'olio della candela nel tentativo di fare luce, avrei dormito per almeno altri due secoli. «O miei dei, scusami! Non l'ho fatto apposta sono proprio goffa!» si allarmò lei cercando di levare il più velocemente possibile il liquido ustionante. Rimasi un po' rimbambito, come al mio solito, poi però fermai la sua mano sulla mia guancia. Non so perché lo feci o a cosa stessi pensando (sempre detto che stessi pensando) sapevo solo che ne sentivo il bisogno. E lei, come se non volesse sentire altre giustificazioni, come se aspettasse un'occasione del genere da tempo, continuò dolcemente a coccolarmi, ad accarezzare le mie goti con il pollice facendo diventare le sue ancora più rosse e a scostarmi le ciocche senza forma dalla fronte.

Incollò la sua fronte alla mia, i nostri nasi si sfioravano appena, e, tra le sue braccia, mi sentivo tornato sull'Olimpo, in un letto di nuvole ovattato e perlaceo, la dove i dolori ed i tormenti che da sempre perseguita ano gli umani parevano solo brusii lontani nel tempo e nello spazio.

Così intontito com'ero non la sentii nemmeno quando qualcuno mi parlò da dietro dicendo: «Levati la maglietta»

MI girai di scatto, era Zefiro (del quale mi ero completamente dimenticato) che guardava la mia schiena con tono serio. Arrossii tantissimo e lui lo notò deformando la sua faccia in una smorfia quasi carina e divenendo purpureo fino alla punta dei riccioli. «NON PENSARE A QUELLO CHE STAI PENSANDO, PROTETTORE DEI PERVERTITI!» esclamò stringendo i pugni, in un perfetto stile tsundere che gli calzava a pennello.

Mi levai la maglia mentre lui tastava la mia schiena punteggiata da lividi e lentiggini: ad ogni suo tocco un vento soffice e primaverile dilatava i miei pori riempiedomi di una freschezza indescrivibile: un'operazione che per quanto semplice richiedeva un grande controllo dei propri poteri per la minuziosa precisione. Lui infatti si orientava con il vento, percepiva ogni cambiamento nel mio corpo, ogni muscolo contratto ed ogni ossa fuori posto: questa era la vera bravura di Zefiro, piacevole ed accurato. Qualche volta tuttavia sentivo dolore lo stesso, soprattutto quando iniziò ad esaminarmi le ali, da sempre il mio punto debole.

Intanto mi riavvicinai verso Psiche che mi sussurrò all'orecchio: «Perché sei venuto quí senza dirci niente, potevi avvisarci! Ti avremmo procurato dei vestiti e saresti passato inosservato...»

«Cosa? Q-quindi voi non siete... arrabbiati con me?» boccheggiai incredulo.

«Certo che no! Perché dovremmo, lo sappiamo tutti che non sai controllare le ali!» esclamò lei comprensiva

«E che sei un idiota» aggiunse Zefiro da dietro, facendomi male apposta.

«In realtà le ali ho imparato a controllarle, proprio oggi in realtà... Se no come avrei potuto raggiungere questo post-» iniziai ma lo sguardo allarmato che gli altri due si lanciarono mi interruppe.

«T-ti sei fatto il tragitto Olimpo-Regno dei mortali in volo?» chiese Zefiro sconvolto, le iridi piccolissime.

«Ed al primo giorno di controllo?» domandò Psiche sbalordita, con gli occhi che brillavano.

«Emh... si?» risposi imbarazzato muovendo l'ala spasticamente sulla faccia di Zefiro, come se gli avessi appena dato una manata.

I due gridarono in contemporanea:
«MA É  INSENSATO!»
«MA É MERAVIGLIOSO!»

«NO PSICHE NON È MERAVIGLIOSO!» ruggí il dio anemone: «E SE SI FOSSE FATTO MALE PIÚ LONTANO DA CASA TUA, DOVE NON POTEVAMO CURARLO? E SE FOSSE PRECIPITATO IN MARE? SE SI FOSSE PERSO NEL REGNO DEI MORTALI? A PROPOSITO COME HAI FATTO A TROVARE QUESTO POSTO?»

Entrambi mi guardarono voraci di risposte a tutte le loro domande: ma come potevo dirgli che avevo seguito il mio istinto, che il cuore era stato la mia bussola, che ormai a Psiche ci ero legato. Per quanto quei due fossero brillanti non potevano mai capire il misterioso e profondo legame che unisce due cuori: solo la mamm-, Afrodite lo sapeva controllare e me lo aveva insegnato con molte difficoltà. I loro sguardi mi puntavano come avvoltoi in attesa che la loro preda morisse e in men che non si dica, nell'ennesima scena muta della mia vita, i miei di occhi iniziarono a inumidirsi ed a scintillare come pietre preziose.

Non avevo una risposta, ero confuso, e quando non sapevo cosa dire piangevo... Loro avevano fatto così tanto per aiutarmi, sapevano sempre cosa fare: io invece piangevo e basta, piangevo e stavo zitto, incerto. Levai le prime lacrime dagli occhi con un veloce scatto del polso, cercai di circondarmi con le mie ali e di isolarmi da tutti: ma un dolore sordo e pungentissimo mi colpí da dentro, patendo uno spasmo che mi fece piangere ancora di più.

«Attento!» esclamò Zefiro, poi aggiunse: «Hai l'ala spezzata, non puoi muoverla così!» Un po' allarmato poi, sia per me che piangevo, sia per la mia ala cadente, uscì dalla stanza in cerca di bende e stecche per sistemarla al meglio.

Aspettò che l'altro uscì e poi Psiche si buttò su di me abbracciandomi goffamente. Tra le lacrime anche lei disse: «S-sai per un momento ho avuto paura che tu morissi... Mi sono sentita così stupida! H-ho realizzato dopo che eri un D-» non riuscí nemmeno a terminare la frase che mi strinse a se più forte. Era strano: sentivo le sue lacrime bagnarmi la pelle, il suo naso sfiorarmi il collo. Era strano perché anche se stava male non volevo che smettesse, non volevo separarmi da lei o sarei stato male anch'io: mi sentivo un bambino che scopriva per la prima volta le gioie e i dolori di questo mondo, che non sapeva riconoscerli o darli un nome, che provava e basta, che voleva che smettessero o che non smettessero più. Ed io volevo che Psiche non smettesse di respirare su di me, di sfiorare i miei lividi e i miei graffi, di inondarmi i polmoni con il suo profumo: lei mi aveva aperto il suo cuore ed io invece ero rimasto lì, senza darle niente.

Ma nonostante tutto la fermai. Percepivo di avere sempre meno controllo sul mio corpo e Psiche... Psiche era ancora così giovane, così promettente, così pura: non potevo maledirla così presto, non senza averle dato niente in cambio. Lei imperterrita mi prese le mani e disse fiera nel pianto: «È per questi?» alludendo ai miei graffi sugli arti e al collo: «È per questi che sei venuto?»

Annuí debolmente con la testa. Lei le strinse con le sue io iniziai a baciarle timidamente. Durante la mia silenziosa dichiarazione lei rimase impassibile, lo sguardo indecifrabile gli occhi ancora umidi. Poi, quasi come per ricambiare, mi scoccò anche lei un bacio di piuma tra i capelli e poi sulle palpebre chiuse e poi sul viso e poi sul collo proprio sui graffi ardenti provocati dalle spine delle rose: erano cicatrici divine, chissà quanto ci avrebbero messo a guarire (sempre se sarebbero guarite). Eppure, così stanco e martoriato com'ero, in ogni punto che le sue giovani labbra toccarono mi sentivo fiorire, ritornando al candore e alla morbidezza di un tempo: nelle tempie, negli occhi, sugli angoli della bocca fiori di ogni genere e colore spuntavano dal nulla, collegati da radici verdeggianti che si infilavano nelle orecchie, nel naso, nelle orbite: la mostruosità più bella che avessi mai provato. Ed il mio cervello era ormai una serra meravigliosa in cui ogni brutto ricordo, ogni graffio, ogni solco si ricopriva di vita nuova.

E poi, in quello scambio reciproco di coccole impacciate ed effusioni timorose, quasi segrete, presi audacemente il suo viso tra le mani e congiunsi le mie labbra alle sue, con un desiderio mai provato prima. All'inizio rimasero un po' spaesate, ma poi trovarono il loro spazio e la loro forma, incastrandosi perfettamente in quel puzzle confusionario. Continuarono a fremere mentre le nostre anime erano sempre più vicine, sempre più unite, fino a fondersi in una sola. Accadde una cosa mai vista. Vide una cosa dimenticata. Scavò nella mia memoria e si immerse in un mio ricordo:

Un piccolo Eros, dalla schiena inumanamente deformata, era raggomitolato in posizione fetale sul talamo dei suoi genitori, disordinato e sepolto nelle coperte. Lamentava insopportabili dolori come un cucciolo ferito, anisimando nella sua matassa di riccioli lucenti. I suoi piccoli occhi ambrati non smettevano di piangere oro puro.

Un lamento, più forte degli altri, attirò l'attenzione di un uomo che spiava l'infante sull'uscio della porta. Questo corse subito dentro, alto, pomposo e di bella presenza, reso ancora più temibile e imponente grazie alla sua armatura poderosa e luccicante. Levò l'elmo rivelando i suoi tratti scolpiti, gli occhi color della terra e i riccioli spettinati dal tremore delle battaglie; mise in un angolo le armi tanto pericolose per un bambino e, con fare genitile, si avvicinò a quest'ultimo.

«Il papà è tornato a casa!» esclamò carezzandogli il viso: «Non sei contento?»

Il giovanissimo annuì fiebolmente e abozzò un sorriso sincero, interrotto dalle interminabili contrazioni della schiena. Un suono strano, un dolore insopportabile e le ossa si allungarono ancora un pochino.

«Devi solo resistere un altro po' e quando tutto sarà finito vedrai che ti ritroverai con un bellissimo paio di ali, solo per te!» spiegò, poi aggiunse: «Devo ammettere che sono un po' invidioso... delle ali mi farebbero proprio comodo in battaglia!»

«M-ma io non so combattere...»

«Ma imparerai presto»

«Ma mi hanno detto che non sarò mai capace... non riesco nemmeno ad impugnare un bastone-»

Il dio guerriero dallo sguardo involontariamente truce, sollevò di peso il debole corpo del figlio e facendolo sedere sopra di lui disse: «Ma tu diventerai un soldato lo stesso! Certo l'arma é importante ma non fondamentale: un guerriero potrà anche avere la spada più precisa e mortale mai creata dai ciclopi, ma se nasce codardo morirà codardo sotto i colpi di spade scadenti appartenenti a un gruppo di nobili soldati. E, figlio mio, di una cosa io sono sicuro: tu hai il sangue mio e di tua madre dentro di te, quindi non potrai mai morire codardo!»

Lo guardò negli occhi, già fiero della sua peculiare bellezza e terminò: «Ma i soldati coraggiosi non devono mai piangere in pubblico! Non devono farsi vedere vigliacchi: soprattutto gli Dei! Ricorda mio caro Eros che gli dei non piangono mai: devi dare tu l'esempio per primo»

E quella frase gli rimase impressa nella mente come un monito, un disco rotto che ripeteva sempre le stesse parole "Gli dei non piangono mai" "Gli dei non piangono mai" "Gli dei non piangono mai"

«Allora, come stanno i miei eroi? Amore ti senti bene?» cinguettò una voce gentile, proveniente dalla dea più bella delle dee. Afrodite raggiunse gli altri due scoccando teneri baci al marito e al figlioletto tanto adorato. E quel quadretto felice si chiuse così, delicato e familiare nonostante le terribili agonie provate dal giovane dio, divenendo uno dei ricordi più belli della mia esistenza.

Io e Psiche ci scollammo solo quando Zefiro sbatté la porta, ma ci trovò comunque particolarmente vicini e altrettanto confusi. «C-cosa ho appena visto?» domandò Psiche incurante della presenza dell'altro.

«Un mio ricordo... almeno credo. S-succede a volte, tra gli dei, se si amano... molto intendo... Se iniziano a pensare a ricordi felici è possibile che se gli scambino... ma è una cosa molto rara e non mi era mai successo. Me l'ha spiegato la mamma»

«Una volta successe ad Apollo» intervenne Zefiro, pentendosi subito dopo di aver aperto bocca, ma ormai doveva continuare: «Ha usato più o meno le tue stesse parole. Ha detto che è come provano piacere gli dei. Gli dei possono condividere gli stessi ricordi quando sono sulla stessa frequenza: è una cosa strana prova a pensare alle radio, quando trovi la linea giusta becchi il suono. È più o meno così. Me l'ha raccontato una volta in punizione»

«E come si chiama questa... cosa?»  domandò Psiche la cui curiosità aveva ormai preso il sopravvento sul suo pudore.

«È un fenomeno così raro che gli Dei non gli hanno ancora dato un nom-»

«Amore» lo interruppi io: «Si chiama amore»

Tutti i miei ricordi d'infanzia salirono insieme nello stesso momento, troppi per una mente tanto piccola, tutti gli insegnamenti di mia madre, tutte le carezze e tutte le cicatrici bruciarono all'unisono.

«Beh, è un termine molto generico-»

«Nono si chiama Amore, ne sono sicuro» insistti: ed era vero: «È l'Amore degli dei, la connessione più potente che si possa avere tra due esseri viventi, un amore che va oltre i piaceri carnali. Me lo ha spiegato la mamma, qualche volta lo faceva con me e mio padre ecco perché mi chiamava così-»

«Eros-» iniziò triste sfiorando il mio petto nudo e depravato: «È stata lei a-a... a farti questo?» porse la domanda tanto temuta, quella da chiedere in un sussurro.

La abbracciai. La abbracciai e basta, bramoso ancora una volta del suo contatto, desiderio che venne ricambiato da entrambe le parti: anche l'altro dio, con sorpresa di entrambi, mi abbracciò da dietro facendo molta attenzione all'alba.

«Zefiro ma cosa stai facendo?» domandai ridendo appena, per la prima volta da tutto il giorno e lui mi strinse più forte. «Smettila!» urlai scherzoso schiacciandoli la faccia pieno di quella strana confidenza inaspettata.

Ma lui non ascoltò schioccandomi un profondo bacio sulla nuca e dando inizio a una tenera lotta la quale finí solo con l'apertura delle sue magnifiche ali e le risatine soavi di Psiche.

Ci ritrovammo tutti e tre insieme, stesi sul pavimento a parlare del più e del meno, a ridere e scherzare, a nutrirci dell'amore più sincero che avessi mai provato. Psiche si era posata sul mio petto, piccola piccola, cullata dal mio respiro e ormai sulle soglie del sonno mentre Zefiro vezzeggiava entrambi con un fare più disinvolto.

Parlammo anche del vecchio annuario che il professor Dioniso aveva regalato a Psiche e, protetti dal buio inoltrato e dalla piccola luce della lampada a olio, iniziammo a sfogliare lo stesso libro che stavano vedendo prima del mio arrivo. Era sconvolgente! C'erano le foto di tutti i nostri professori e delle personalità più influenti dell'Olimpo da adolescenti! Psiche rise di gusto alla foto di Hermes con un braccio e una gamba ingessata dopo la sua vittoria più clamorosa di lancio del disco. Ma tutti scoppiammo alla pagina della migliore sospensione di sempre dove la parola sospensione era stata sbarrata e sostituita (probabilmente da Dioniso stesso) con la parola sbronza e dove era incorniciata e decorata una foto di un'Atena giovanissima, le guance rubee e i capelli spettinatissimi.

C'erano veramente le foto di tutti, più giovani e più simili a noi che adesso le stavamo guardando, foto che incorniciavano tempi lontani e nostalgici. I soggetti ci salutavano radiosi dalle pagine, pieni di quella forza arrogante e curiosa che era l'adolescenza, drammatica, bellissima e problematica. C'erano tantissime foto di Apollo con amici e non, i capelli sempre raccolti nei suoi tuppetti ordinati, ma molto più smilzo e basso di adesso! C'erano tante foto anche di mia madre nei suoi tempi migliori, quando ancora la si poteva definire Dea dell'amore. Quella uscita meglio e sicuramente quella a pagina 103 dov'era presente Apollo con mia madre, la sua migliore amica ai tempi, al suo fianco e un altro tipo dall'aria incredibilmente famigliare all'altro.

«Non pensate che...» iniziò insicura Psiche

«Ci assomigliano...» concluse Zefiro per lei, incredibilmente sveglio dopo la vista di quella foto. Sfiorò con il polpastrello il terzo ragazzo, quello riccio e lentiginoso, poi piegò la foto e la prese con sé mettendosela all'altezza del cuore e smise di calcolarci. Io e Psiche, un po' traditi, continuammo a sfogliare le pagine su mia madre finché lei non se ne uscì con: «Caspita era davvero bella...»

«Hai detto bene era» cercai di troncare io il più velocemente possibile: non mi andava di parlarne ancora, mi stavo finalmente divertendo.

«Ah, non so proprio come fanno quelli stupidi a paragonarmi a lei..»

«Aspé cosa?»

«Gli amici delle mie sorelle, mortali e non, dicono sempre che assomiglio ad una dea, che sono più bella di Afrodite!»

Il mondo, felice, paradisiaco che avevamo costruito in questo pomeriggio, mi crollò pezzo per pezzo addosso... La mortale che aveva osato paragonarsi alla dea della bellezza in persona, venerata come solo lei dovevano venerare...
I-io dovevo ucciderla, i-io dovevo uccidere... Psiche!? NO, NON L'AVREI MAI FATTO, AVREI DATO LA MIA IMMORTALITÀ PIUTTOSTO... Poi mi ricordai dell'avvertimento di mia madre: se non la uccidevo io... L'avrebbe fatto lei... NO NON POTEVO ASSOLUTAMENTE PERMETTERLO.

Mi guardai intorno e notai che gli altri due erano crollati dal sonno: Zefiro che ci dava le spalle, abbracciato alla foto o al tipo della foto... E Psiche addormentata tra le mie braccia, con ancora i residui sulle labbra di un ultimo bacio.

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