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30. Mamma e "papà"

Agnese si risvegliò con un peso sullo stomaco.

Non era stata colpa del sushi.

La conversazione via messaggio avuta con sua madre l'aveva scombussolata e il jet lag non aiutava a spazzare via la confusione.

Non era abituata a confidarsi troppo coi suoi genitori, ma soprattutto non era abituata a mentire loro.

A ventotto anni sapeva che non doveva farsi troppi problemi a giustificare le proprie scelte, ma la sensazione che non avrebbero approvato ancor prima di capire le stringeva le viscere. Aveva sempre cercato di essere una figlia modello, anche nell'adolescenza non aveva mai dato troppe preoccupazioni. Per questo temeva che fossero delusi di lei.

Nel tragitto verso il lavoro cercò di non pensarci. La fidata Settimana Enigmistica fu la compagna ideale per distrarsi. Sarebbe andata al bar dei suoi dopo pranzo e avrebbe trovato una soluzione temporanea per non dire troppo.

In agenzia non c'era gran lavoro da svolgere: l'inizio dell'estate era tradizionalmente un periodo meno produttivo. Agnese sorrise quando passò davanti alla scrivania di Enrico. Il suo atteggiamento e il suo tentativo di provarci con lei ormai le sembravano così lontani e insignificanti...

Lui alzò lo sguardo proprio in quel momento e si domandò come mai la collega fosse così amichevole, visto che per mesi lo aveva ignorato.
Forse ha capito che darmi una possibilità non sarebbe poi così male?
Le sorrise anche lui, facendole un cenno con la mano per invitarla ad avvicinarsi.

Agnese rifletté: avrebbe dovuto ringraziarlo in fondo, sia per essersi fatto sentire quella sera della festa per il suo contratto con la Green Hill, sia per il tentativo di approcciarla in quella cena a casa sua. Era anche merito suo se le sue telefonate con Samuel erano proseguite.

Si accostò alla scrivania, un po' in imbarazzo. Non lavoravano insieme da mesi e non si erano parlati molto in quel periodo.

«Ehi, come va?» esordì.

«Ho appena finito l'analisi del mercato per un nuovo tipo di scarpa da ginnastica, adatta a chi vuole restare elegante e distinguersi anche quando corre o è in palestra». Enrico voltò il laptop verso di lei e Agnese tirò fuori la lingua, schifata alla vista di una scarpa leopardata e piena di strass.

«Vedo che la pensiamo allo stesso modo» commentò lui, riportando lo schermo nella posizione originaria.

«Per fortuna non sono io a dover scegliere lo slogan» rise Agnese.

«Come va con gli americani?»

La scrittrice si irrigidì, perché il suo primo pensiero non fu per la casa editrice, ma per Samuel.

«Bene, sto scrivendo il secondo inedito. Credo che il primo sarà pubblicato a fine anno».

Un'ombra passò sul viso di Enrico. «Hai trovato un altro traduttore?»

«In verità sto provando a fare tutto io. Sono migliorata molto con la lingua». Agnese sperò che Enrico non volesse approfondire il perché. «L'editore mette poi a disposizione una persona per quello che si chiama il processo di localizzazione, confesso che non lo conoscevo, ossia l'adattamento linguistico per rendere il testo più fruibile alla cultura americana».

Lui stava stringendo i denti, contraendo la mascella.
«Allora non hai proprio più bisogno di me» sentenziò. Non nascondeva la propria delusione, ma stava anche utilizzando un tono quasi accusatorio.

«Enri... non torniamo indietro a mesi fa, per favore».
Mannaggia a me e a quando ho deciso di avvicinarmi.

«Ok, ok, non volevo creare problemi». Enrico alzò le mani e fece un sorriso tirato.

Ne approfittò per salutarlo e allontanarsi.

La mezza giornata trascorse senza scossoni. Agnese aveva ancora troppe ore di sonno da recuperare e sarebbe andata volentieri a dormire a casa, ma la visita al bar dei suoi genitori non era più procrastinabile.

Il locale era in piazza Missori, nei pressi della fermata della metropolitana e di Torre Velasca. Ogni volta che Agnese vedeva quel grattacielo simbolo dell'architettura brutalista, oscillava tra una sensazione di fastidio per l'impatto visivo che l'edificio aveva sulla zona e una specie di celata ammirazione, perché in fondo aveva dato un'impronta certamente speciale al quartiere. Quel palazzone, che ricordava una costruzione dell'Europa dell'Est, non c'entrava nulla con Milano e il bello, forse, era proprio quello.

Entrò nel bar quando ormai gran parte degli avventori del pranzo era andata via. Suo padre era di spalle, alle prese con la macchina del caffè, sua madre stava sistemando l'ennesimo cestello da mettere in lavastoviglie.
Si sentiva colpevole ed era una sensazione inedita per lei. Non l'avevano ancora notata e ne approfittò per raddrizzare la schiena e cercare di assumere un atteggiamento normale.
«Ciao!» esordì.

Suo padre si voltò, sorpreso. Non appena la vide le sorrise apertamente, mostrando le fossette sulle guance. Sua madre le aveva sempre raccontato che fu per quelle che lei gli concesse il primo appuntamento senza neanche quasi conoscerlo: Dora lavorava nel bar di suo papà e Giovanni, il suo futuro marito, era un avventore diventato assiduo dall'oggi al domani. Lui aveva notato quella mora dagli occhi profondi e non faceva altro che pensare a lei tanto da andare a prendere almeno quattro caffè al giorno.

«Ehi, che sorpresa!» commentò Giovanni mentre posava una tazzina sul bancone per l'unico cliente. «Com'è andato il week end con Chiara?»
Agnese puntò gli occhi brevemente in quelli di Dora, che le restituì un cenno d'intesa. Non gli aveva detto di aver visto l'amica. Si domandò se fosse per questioni di quieto vivere o per una sorta di complicità femminile.
«Tutto bene, sì». Parole vuote. Avrebbe potuto riferirsi a qualsiasi cosa, ma non se la sentiva di mentirgli costruendo una realtà fittizia.

«Gio, mi fumo una sigaretta. Agnese mi fai compagnia?» Era una domanda, ma Agnese sapeva benissimo che in realtà si trattava di un ordine.

Uscirono sul marciapiede e Agnese odiò il fatto che sua madre si fosse accesa la sigaretta, ma non stesse dicendo nulla. L'aveva letto in tanti libri: era un metodo per far parlare le persone durante gli interrogatori. Il rumore delle ruote delle auto sulla pavimentazione lastricata della piazza non riempiva il silenzio tra loro.

Dora guardava davanti a sé, fumando con grande lentezza. Sembrava un'attrice, alzando e abbassando il braccio in modo elegante, con la cicca inforcata tra la punta dell'indice e del medio.

Agnese si guardò la punta delle scarpe e poi cercò di dire almeno parte della verità. «Mi dispiace di avervi detto una bugia. Non sono andata sul lago di Como con Chiara».

Sua madre ripeteva lo stesso gesto, senza guardarla. Non era soddisfatta. Agnese lo percepiva dalla tensione impalpabile tra loro. Si voltò verso di lei.

«Ti chiedo di fidarti di me. Non ho fatto nulla di male, non ho una doppia vita o compiuto qualcosa di illegale, ma ho bisogno di un po' di tempo» soffiò quasi l'ultima avversativa e tornò a guardare la strada. Un tram si era appena fermato sferragliando, facendo scendere e salire diverse persone.

«C'entra un uomo?» Dora lo disse con una tranquillità che raggelò Agnese. Sua madre la conosceva bene, più di quanto volesse ammettere.

Sospirò: «Sì, ma...»

«È sposato?»

Agnese si voltò, scandalizzata. «No!»

«Quando ho visto Chiara sono caduta dalle nuvole. Ero talmente sconvolta da pensare che tu ci avessi sempre mentito. Ci hai abituati troppo bene». Sua madre si girò finalmente a guardarla, con un mezzo sorriso.

Agnese espirò. Per un attimo immaginò Samuel stringere la mano ai suoi genitori per presentarsi e le venne da ridere. «Non sono ancora pronta per parlarne. Siamo ancora all'inizio ed è una relazione a distanza. È tutto un po' complicato...»

Dora spense la sigaretta nel posacenere. «Sai che io e papà ci siamo sempre. Anche ora che sei una donna fatta e finita».
Le diede un'ultima occhiata prima di rientrare. «Chiunque egli sia ti ha fatto bene. Quando pensi a lui ti brillano gli occhi».

Agnese si bloccò per un attimo. Poi si affrettò a raggiungere sua madre. «Non dire ancora niente a papà, per favore» le sussurrò.

Dora annuì. «Stai tranquilla».

Samuel aveva diversi arretrati da recuperare dopo la fuga con Trish e il fine settimana con Agnese. Prese il telefono e cominciò a programmare le sue prossime mosse lavorative. Si sdraiò sull'amaca e chiamò Carl. Rispose al primo squillo. «Si può sapere dove cazzo sei finito? Ancora un giorno e avrei chiamato l'ufficio delle persone scomparse!»

Samuel spostò il peso di scatto, rischiando di cadere. «Mi sono preso qualche giorno di riposo, ne avevo bisogno».

«Solitamente ti vedo scopare online anche quando sei in vacanza, come mai non ho notizie di dove tu l'abbia infilato da più di una settimana?» Carl sapeva come incalzarlo e la sua osservazione era legittima. Aveva ragione. Anche quando avrebbe dovuto pensare solo al relax, in realtà non staccava mai da quel punto di vista.

«Sto invecchiando, non posso mica dedicarmi solo a quello...» Aveva cercato una scappatoia, ma la prima che gli era venuta in mente non era molto credibile.

«Cazzate... cosa mi nascondi? Guarda che la tua piccola defaillance ha fatto il giro delle chat di mezza San Fernando Valley».

Samuel si passò la mano tra i capelli. «Ho avuto solo un piccolo problema di erezione, superato senza aiuti. Era una giornata no per questioni extra lavorative».

«Seh... e poi sei andato via con Trish e non avete girato neanche un video o fatto una foto. Samuel, ti conosco da troppi anni e tutto questo mi suona molto strano. Quindi di' tutto a papà Carl e nessuno si farà male».

Samuel sospirò. Il suo agente non meritava altre bugie, ma non voleva mettere in piazza il suo nuovo "status", voleva proteggere Agnese. D'altro canto lui era il suo unico vero amico in città. Gli altri erano perlopiù compagni di avventura nel mondo del porno, o attori usciti dal giro di Hollywood con cui condivideva qualche uscita mondana o serate in locali o discoteche. Soppesò in un battito di ciglia le due opzioni e decise di seguire ancora una volta il sentiero della verità. «Avevo litigato con Agnese, la mia amica italiana. Non ci stavo con la testa». Decise di indorare la pillola, andando per gradi.

Carl restò in silenzio per qualche secondo, tanto che Samuel temette che fosse caduta la linea.
«Ci sei ancora?»

«Mi stai prendendo per il culo? Chi è questa?»

«Ti pare che inventerei una storia del genere? Se ben ti ricordi la sua telefonata aveva interrotto il nostro appuntamento per il nuovo accordo sullo stop alla mia carriera fuori dal porno e la casa di produzione».

«E cosa ti ha fatto tornare in te? Tanto da chiamarmi oggi? Ho buone notizie, a proposito, sui prossimi lavori per cui sei richiesto, ma prima voglio sapere com'è andata a finire». Il tono di Carl era di un'ironia più pungente del solito.

Samuel non sapeva come dirglielo, immaginando la reazione che avrebbe avuto. «Ci siamo messi insieme».

«Coooosa?». L'urlo di Carl quasi gli perforò un timpano. Samuel si tolse uno degli auricolari.

«Sì e gliel'ho chiesto io. La vacanza con Trish non è andata bene, ci siamo presi una pausa che sarà definitiva. Sono tornato a casa e ho trovato Agnese che dormiva davanti al cancello. Aveva preso l'aereo per me, capisci? Ed è bastato passare un giorno insieme a lei per rendermi conto che non sono mai stato così bene con una donna sotto tutti i punti di vista».

«Frena, frena! Vengo da te. Ho bisogno di bere». Non attese la replica di Samuel e chiuse la comunicazione.

Dopo mezz'ora Samuel se lo ritrovò in giardino, con il suo solito look estivo che gli ricordava più un pappone che un agente: camicia hawaiana, pantaloni chiari e occhiali da sole, ma Carl sapeva fare bene il suo lavoro e a Samuel bastava. Lo fece accomodare in giardino, sui lettini prendisole. Riteneva che fosse più adatto per la conversazione che avrebbero avuto.

Andò a recuperargli qualcosa da bere e poi si sdraiò al suo fianco.

Carl prese il bicchiere e diede un lungo sorso prima di guardare il suo cliente: «E ora dov'è?»

«È tornata in Italia. Non poteva restare».

Il volto di Carl si distese in un enorme sorriso. I denti bianchi spiccavano nel suo ovale ancora più scurito dal sole. La madre di Carl era cubana e la genetica gli aveva donato una carnagione naturalmente brunita.

Gli tese la mano come per dargli un cinque, ma Samuel non riusciva a capire perché e rispose al gesto senza convinzione.

«Occhio non vede, cuore non duole. Hai pescato bene, così potrai continuare a scopare chi ti pare».

Il pornodivo scosse la testa. «Non hai capito. Ho intenzione di fare il bravo fuori dal lavoro».

Il ghigno di Carl si trasformò in una smorfia inorridita. «Che cazzo stai dicendo? Non ti sei mai fatto mettere il guinzaglio».

«Ed è ancora così. Lei non è gelosa. Sono io che voglio mettermi alla prova». Il suo agente era sudato come raramente capitava.

«E le scopate alle feste? E gli incontri occasionali con le tue fan che ti capitava di filmare? Sono quelli più apprezzati!»

Samuel sbuffò, contrariato. «Le feste in fondo non mi sono mai piaciute, facevo sesso perché non avevo qualcuno di interessante con cui parlare. E gli incontri filmati fanno parte del lavoro, quindi sono ammessi, tecnicamente, anche se non riguardano professioniste».

Carl riprese il bicchiere dal tavolino basso sistemato tra loro e lo svuotò in un sorso. «Samuel, proprio perché ti conosco da troppo tempo ho dei seri dubbi che tu riesca a portare avanti una relazione con una persona che non sia del tuo mondo. Sono tutte tranquille, all'inizio, ma sappiamo che poi diventano gelose e anche lei inizierà a dirti cosa fare o cosa non fare e a soffrire di questa situazione. Ora siete presi dall'entusiasmo delle prime scopate e sembra tutto bellissimo, ma le cose cambiano».

Abbassò gli occhiali sul naso per guardarlo meglio. «E se proprio devo dirtela tutta, sinceramente non so quanto tu possa resistere a non cedere alle tentazioni» aggiunse.

Lo stomaco di Samuel si contrasse dal nervoso: Carl aveva ragione, anzi, dannatamente ragione. Provò a difendersi. «Ho respinto Isabel e lasciato perdere diverse tipe interessate in spiaggia».

«Oggi. Ma tra un mese? Un anno?» incalzò Carl e Samuel lo odiò, perché aveva smembrato le sue sicurezze nel giro di cinque minuti. Un vero avvocato del diavolo.

Il pornoattore restò in silenzio, guardando il cielo, quel cielo che aveva fissato con ben altro stato d'animo quando era sdraiato accanto ad Agnese e il ricordo di lei, dei suoi occhi così luminosi e sinceri, del suo tocco gentile, del suo calore appassionato, fu un balsamo curativo, che alleviò la sensazione dell'aver sbagliato tutto che gli stringeva le viscere.

«Voglio dire, sei tu che nell'appartamento del grattacielo hai organizzato una gara per premiare chi ti avrebbe fatto il miglior...»

«Basta!»

Carl sobbalzò. Non se lo aspettava. Samuel lo stava guardando con una furia che non aveva mai sperimentato. Il suo cliente e amico non era un tipo che si arrabbiava facilmente, anzi, aveva sempre preso la vita con leggerezza.

«So bene cosa ho fatto, non lo rinnego, ma non c'è bisogno che tu me lo ricordi. Parliamo solo di lavoro d'ora in avanti, perché solo di quello ti deve interessare».

Carl perse un po' della sua sicurezza. La reazione spropositata di Samuel poteva nascondere parecchi sottintesi e in quel momento non era consigliabile indagare.

«Va bene, va bene...» L'agente alzò le braccia, per calmarlo. «Ho fatto vedere in giro un paio di video di te ed Elizabeth in modo da farla conoscere in previsione del lancio del nostro film digitale e Vixen vorrebbe produrre qualcosa di livello superiore con voi due e Trish, insieme. Parliamo di alta qualità. Non chiedono l'esclusiva, sanno della tua casa di produzione. Sarebbe un'ottima occasione per ampliare il tuo pubblico, Samuel».

La notizia che avrebbe dovuto fargli fare i salti di gioia fu quella che lo fece ripiombare nello sconforto. Carl continuava a parlare, ma ormai Samuel non lo ascoltava più. Si alzò, portandosi sul bordo della piscina e si lasciò cadere, vestito, in acqua.







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