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Una strana mattinata

22 Novembre 1882


La pioggia cadeva con una persistenza incrollabile, avvolgendo la mia cameretta in un'atmosfera di mistero e malinconia. L'ambiente era avvolto da un'ombra densa, illuminata appena da una flebile luce che filtrava attraverso la finestra. Il suono dei gocciolii che battevano contro il vetro sembrava risuonare in sintonia con il battito del mio cuore, creando un'armonia malinconica che permeava l'intera stanza.

Al centro della stanza, dominava un maestoso lettone, imponente e accogliente allo stesso tempo, come un rifugio sicuro dal mondo esterno. I cuscini morbidi, dalle tonalità dorate, sembravano invitare al riposo, offrendo un momento di pace e tranquillità in un periodo di turbolenza. Il trapuntone, pesante e avvolgente come un abbraccio protettivo, conferiva un senso di sicurezza e calore, un contrasto benvenuto alla fredda realtà che mi circondava.

Immersa in questa oasi di comfort, c'ero io, una figura solitaria avvolta nelle coperte, con solo una chioma dorata che emergeva delicatamente dall'abbraccio delle lenzuola. Era un periodo difficile per la mia famiglia, i Savoia, e la pioggia incessante sembrava riflettere il mio stato d'animo cupo e inquieto.

Nonostante fossi abituata alle manie di grandezza di mio padre, il capofamiglia Savoia, per la prima volta mi sentivo piccola e indifesa come non lo ero da tempo. Le tensioni politiche e sociali che affliggevano la nostra città avevano gettato un'ombra minacciosa sul nostro lignaggio nobile, mettendo a dura prova la nostra forza e la nostra determinazione. La mia cameretta, solitamente un rifugio sicuro e familiare, sembrava ora un luogo di isolamento e sconforto, un riflesso del periodo difficile che stavamo attraversando come famiglia.

In questo contesto di incertezza e malinconia, il suono della pioggia che batteva contro la finestra assumeva un significato più profondo, evocando un senso di nostalgia e tristezza che mi avvolgeva come una coperta. Ero consapevole che il futuro era incerto e che dovevo trovare la forza di affrontare le sfide che mi attendevano, ma per il momento, potevo solo cercare conforto nell'abbraccio familiare del mio letto e nella dolce melodia della pioggia che mi cullava nel sonno.

Un lieve sbadiglio sfuggì dalle mie labbra sottili mentre un tuono possente rimbombava nell'aria, così vicino da far tremare il pavimento e le finestre della mia camera. Quasi sembrava volermi svegliare, come se qualcuno, forse l'Innominato, volesse avvertirmi che l'ora era giunta e che dovevo alzarmi prima di fare tardi alla riunione delle Croci di Ferro di quella mattinata per l'ennesima missione.

"Capito, capito..."

Mormorai tra me e me, lasciando sfuggire una lieve imprecazione. Iniziai a liberarmi dalle coperte e, non appena il mio viso emerse, un'aria fredda e pungente investì le mie guance e le mie orecchie. Il respiro si trasformò in sottili nuvole di condensa nell'aria gelida.

Spalancai gli occhi, sbadigliai nuovamente per la stanchezza e mi sedetti sul letto, con la schiena appoggiata al cuscino. Indossavo soltanto una vestaglia; non era molto, ma considerando che il giorno prima aveva fatto abbastanza caldo, pensavo sarebbe bastata.

Guardai in giro, come una bambina estranea alla casa: era la prima volta che mi sembrava tutto così grande e immenso. Per la prima volta mi sentivo piccola e indifesa come non lo ero da tempo. Il mio sguardo si posò su un vecchio ritratto, appena nascosto da un telo bianco sul comodino. Appena lo notai dopo tanto tempo, sentii un piccolo nodo alla gola immaginando di cosa si trattasse. Allungai la mano destra per togliere il telo, nonostante il freddo nell'aria e il brivido al polso per via del mio bracciale che indosso sin dalla nascita. Rimuovendo lo straccio, deglutii subito, non appena vidi l'immagine, e immediatamente cominciarono a riaffiorare nella mia memoria le immagini della persona più importante per me: il ritratto della mia famiglia, o meglio, di quella che avrebbe dovuto essere la mia famiglia.

C'ero io, con addosso un elegante vestito quasi da principessa di un colore azzurro cielo, ornato di drappeggi dorati e una collana al collo al collo, insieme a colui che sarebbe diventato mio marito poco dopo, Amaleth Leumann, un elfo della casata dei Gens con cui ero cresciuta fin dalla più tenera età. Anche lui era elegantemente vestito, com'era sempre stato in realtà, sin da quando ho memoria di lui. Il dipinto era stato disegnato da un importante pittore torinese, il giorno prima del mio diciottesimo compleanno, come regalo dello stesso, usando una montagna di tempo per realizzarlo, ma soprattutto di soldi, dovuti alla qualità sopraffina dei colori che aveva usato, ma soprattutto dalla qualità del disegno che sembrava quasi più una fotografia. Era il suo regalo e adesso capisco il perché volle farmi un gesto del genere, voleva immortalarci come se fossimo una coppia felice e senza nessun tipo di pensieri, infatti solo il giorno successivo avrei ricevuto la sua proposta di matrimonio. Un piccolo singhiozzo mi sfuggì, quasi sommesso: non avevo più visto quel ritratto da parecchio a causa del caos che stava dominato la città in questi ultimi tempi.

Presi il dipinto tra le mani, osservandolo con un misto di nostalgia e dolcezza. La posai sulle mie gambe e gli sorrisi, lasciando che il pollice sfiorasse delicatamente la superficie della tela, quasi come se volessi accarezzare il volto di Amaleth.

"Mi manchi..."

Sussurrai, come se le mie parole potessero raggiungerlo in qualche modo. Stringendolo al petto, i miei occhi si chiusero leggermente, cedendo all'onda di emozioni che mi stava iniziando a travolgere. Solitamente cercavo di nascondere la frustrazione che mi accompagnava, ma in questo momento, quella mattina, tutto sembrava così diverso dal solito: i sentimenti che mi pervadevano erano molto più intensi del solito, ribollivano dentro di me, rendendomi vulnerabile in modi che non avrei mai immaginato.

Mentre stringevo la fotografia contro di me, contro il mio petto, iniziai a percepire uno strano brusio proveniente dall'armadio di fronte a me.

Sapevo già chi fosse in quell'istante: Nipso, la serva della casa Gens, che per qualche ragione stava diventando sempre più frequente qui, a casa nostra.

Nipso era una sorta di "mostruosità"; non esattamente una serva comune, ma un esperimento risultato in certi versi positivo di Commodus, il capofamiglia Gens, nonché mio suocero.

Di tutta fretta e furia, cercando di evitare di farmi vedere con in mano il dipinto, lo riposi sopra al comodino, con la tela rivolta verso il legno lucido, coprendolo nuovamente con il telo bianco.

"S... signorina Vittoria, posso entrare?"

La voce proveniva dall'altra parte dell'armadio, una voce piccola ma piuttosto acuta e fastidiosa per certi versi, se uno non fosse abituato ad essa..

"Sì, certo, entra pure Nipso."

Risposi, subito dopo aver posato il dipinto, girando lo sguardo verso l'armadio che con un piccolo movimento si spostò verso destra, facendo un leggero scatto e mostrando una sorta di via che quasi nessuno utilizzava se non i servi.

Era difficile non rimanere sorpresi davanti alla vista di Nipso: un'essenza verde, con fattezze elfiche piuttosto contorte, che portava con sé una torta malconcia, non troppo bella da vedere, ma con una glassa bianca a coprirne le imperfezioni.

"S-signorina Vittoria, le ho portato la colazione, una torta ai lamponi, come piace a lei"

Disse con una voce sottile, ma acuta, iniziando ad avvicinarsi a me, offrendomi la torta con una gentilezza. Era la prima volta che Nipso mi portava qualcosa dopo la partenza di Amaleth, solitamente Nipso si faceva più vedere per compagnia o per protezione nei miei confronti durante le missioni delle Croci.

Ma un passo incerto, un movimento maldestro, e la torta finì rovesciata sul mio grembo. Il contenuto della torta, denso e rosso come il sangue, si riversò sul mio vestito, macchiandolo di una tonalità cupa e inquietante.

"Mi scusi, signorina Vittoria!"

Balbettò Nipso, terrorizzata dalla mia possibile reazione, ma che non arrivò in realtà, infatti mentre Nipso si avvicinava a me, il mio sguardo era fisso sul rosso che stava macchiando i miei vestiti, sempre di più, come un enorme ferita che si stava aprendo sul mio ventre, e più guardavo la scena, più sentivo un'ansia crescere nel mio petto.

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