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Frammenti di vita dei miei 17 anni

Avevo da poco compiuto diciassette anni, quando una sera andammo in un bar a fare un po' di baldoria. Eravamo in sette: oltre a me e Max, c'era un'altra sola coppia fissa, Bill e Jenny. Arrivammo facendoci notare, con cinque moto, tutte alquanto rumorose.

Entrati, prendemmo due tavoli, io e Jenny andammo diritte al bancone a prendere le birre per tutti.

Chi conosceva Max non era solito sfidarlo, soprattutto per ciò che riguardava me. Ribadiva spesso che io ero sua e non tollerava che qualcuno mi si avvicinasse troppo o mi mancasse di rispetto.

Un tizio al bar fece così il suo primo errore, notandomi e apprezzando la "mercanzia", tuttavia Max restò tranquillo al tavolo, seppur avessi notato con la coda dell'occhio, il suo seguire con attenzione tutta la scena, controllando che tornassimo senza ulteriori problemi.

Ci mettemmo a bere e a scherzare. Io me ne stavo tranquillamente seduta sulle sue gambe e lui mi prendeva in giro, facendo notare come ogni volta che mi eccitavo, qualunque fosse la fonte del piacere, mi mordevo il labbro inferiore. Seguirono rigorosamente esempi sussurrati all'orecchio di momenti altamente privati e piccole frecciatine provocanti, che mi portarono a cercare di farlo tacere in qualche modo, perché mi stuzzicava troppo, ottenendo comunque conferma della sua teoria.

Si decise per una sfida a biliardo. Ci avvicinammo al tavolo, non certo dei migliori, e i ragazzi iniziarono la partita. Per vedere uno dei tiri di Max, mi misi nell'angolo opposto, quando il tipo del bar mi si avvicinò e, senza troppo attendere, mi mise una mano sul fondo schiena: il suo secondo errore.

Non so dire cosa mi prese in quel momento, però sentii il sangue ribollirmi nelle vene; poggiai la birra sul bordo del biliardo e mi girai lentamente, chinando leggermente il capo, con i capelli che mi cadevano sul viso mentre cercavo di vedere in faccia lo stupido, che mi aveva messo le mani addosso. Non appena incrociai il suo sguardo, il mio braccio si mosse da solo, partendo con un pugno dritto sulla sua faccia, colpendogli lo zigomo destro.

Rimasi per un attimo incredula per ciò che avevo fatto. Non avevo mai colpito nessuno prima di allora e, sinceramente, non credevo facesse così male: mentre ancora muovevo la mano per scacciare il dolore, mi accorsi che i ragazzi erano rimasti attoniti per quello che "la bambina dei piani alti" aveva fatto. Mi si dipinse in volto un mezzo sorriso, forse più un ghigno di soddisfazione, che durò solo un istante, cancellato da una fitta improvvisa che mi tolse il fiato: il tipo si era ripreso dal colpo e aveva dimostrato di non averlo gradito, ripagandomi con un destro allo stomaco che mi fece accasciare a terra, dove iniziai a tossire.

Quello fu il suo ultimo errore della serata. Credo mi abbia anche dato della puttana, ma ero parecchio stordita. So che in un attimo vidi arrivare i ragazzi. Max saltò letteralmente il tavolo arrivando prima degli altri, nonostante fosse il più lontano, catapultandosi sullo sfortunato, mentre Jenny mi aiutava a rialzarmi.

Quando mi ripresi, vidi che Max era sopra di lui e lo stava letteralmente massacrando: la sua faccia era una maschera di sangue, su cui si distinguevano lacerazioni profonde sugli zigomi e sulla bocca. Tom, Mick e Sam, nel frattempo avevano tenuto a bada i suoi amici. Bill, che fino a quel momento mi aveva sorretto con Jenny, mi lasciò per cercare di fermare Max che sembrava una furia; se non fosse intervenuto qualcuno, lo avrebbe ammazzato.

Qualche colpo doveva averlo incassato anche il mio paladino, perché quando mi si avvicinò notai il labbro rotto e sanguinante, ma non c'era tempo per occuparsene in quel momento; mi trascinò fuori dal locale con tutto il gruppo, per dileguarci prima dell'arrivo della polizia, chiamata dal gestore.

Non era la prima rissa a cui assistevo, ciononostante era la prima a cui partecipavo attivamente. Sapevo dunque come funzionavano le cose e che non ci sarebbero stati né ospedali né medici: ognuno avrebbe pensato a sé e il gruppo avrebbe pensato a tutti. Una filosofia che può sembrare strana, ma che funziona bene in quel genere di ambiente, dove il gruppo è una sorta di famiglia particolare, che non ti sta mai addosso e non ti soffoca.

Ci fermammo in un motel a diverse miglia di distanza e prendemmo tre camere. La mano mi doleva ancora, seppur non quanto lo stomaco. Non avevo mai provato una sensazione simile e faticavo a restare in piedi diritta. Max mi aiutò a entrare in camera e a sedermi sul letto, poi andò in bagno a lavarsi mani e faccia, senza proferire parola. Tornato nella stanza, tirò fuori dallo zaino il necessario per le medicazioni: delle garze, del disinfettante, una scatola di antidolorifici che mi lanciò sul letto e una birra, che aprì e bevve per metà d'un fiato prima di portarmela.

Sembrava ancora molto alterato, ebbi però l'impressione che ce l'avesse con se stesso, come se si sentisse in colpa, forse nella convinzione che avrebbe dovuto prevedere quell'eventualità. Non era il momento giusto per chiedergli spiegazioni, anzi; conoscendolo, se era davvero così, non sarebbe mai esistito un momento giusto, giacché si era sempre dimostrato inclemente verso di sé, non riuscendo a perdonare i propri errori.

Si sedette di fianco a me e lo vidi versarsi il disinfettante sulle mani, piene di abrasioni. Io ingoiai un antidolorifico con un sorso di birra, dopo di che presi le garze e gliele fasciai. Ci era andato indubbiamente pesante, di solito non si riduceva in quel modo.

Il labbro gli sanguinava ancora e volevo medicarlo, ma non me ne diede il tempo. Mi fermò, afferrandomi il polso, e mi baciò con foga, come se dovesse ancora scaricare l'adrenalina della rissa; mi stese sul letto e facemmo l'amore, come se non lo facessimo da mesi, seppure ogni tanto mi facessero male lo stomaco e la mano. Non mi importava; sentivo il dolore come una fitta acuta e lo lasciavo scorrere via in quel fiume di piacere.

I ragazzi cambiarono atteggiamento nei miei confronti; prima mi rispettavano perché dovevano, invece, dopo quella rissa, sembravano farlo perché me lo meritavo. Smisero anche di chiamarmi con quell'odioso soprannome che non avevo mai apprezzato: non ero più la bambina dei piani alti.

Anche nel comportamento di Max cambiò qualcosa, seppur in modo quasi impercettibile, sfuggito forse ai più. Ad esempio, quando eravamo in un locale, non lasciava più che andassimo sole a prendere da bere, tuttavia, se qualcuno attaccava briga, mi lasciava sempre la possibilità di difendermi da sola, prima di intervenire. Iniziò a insegnarmi qualcosa di più concreto su come proteggermi, cosa che si era sempre rifiutato di fare, spiegandomi come e dove colpire per avere il miglior risultato e il minimo dolore per me.

Mi regalò anche il suo balisong, che già adoravo e con cui giocherellavo da un po', spiegandomi tutti i movimenti classici, i passaggi tra le dita e come utilizzarlo seriamente.

«I giochetti col butterfly sono belli quando tutto è tranquillo, ma se, invece, si parla di cose serie, la musica cambia e quei giochetti non servono a nulla, se non a darti confidenza con la lama.»

Questa frase la ricordo parola per parola, come la sua espressione seria mentre la diceva e il tono basso, sommesso, quasi mi stesse rivelando un segreto che solo chi è del giro deve sapere e, comunque, come se stesse facendo qualcosa che gli pesava.

Quel coltello lo conservo ancora, tutt'oggi mi accompagna. Nonostante tutto e senza saperlo, Max mi continua a proteggere.

Inoltre, mi insegnò a guidare la sua moto. Sapeva quanto lo desiderassie mi accontentò, asserendo che era sempre bene sapersela cavare. Eradavvero stupendo: la sensazione che avevo solitamente da passeggera, era soloun riflesso di quello che realmente si prova stando in sella a una moto eguidandola in prima persona. Avrei voluto poterneavere una mia, ma non avrei mai lasciato il postoalle spalle del mio centauro; c'erano altre emozioni che si intrecciavano suquella moto ed erano irrinunciabili.


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