Dei miei 18 anni
Per il mio diciottesimo compleanno, mio padre volle organizzare una festa in pompa magna, come si usava, nonostante i miei continui rifiuti. Mi comprò addirittura un abito da sera, probabilmente costato un occhio, color rosa pallido, ma fui io ad impallidire quando me lo presentò: non lo avrei messo nemmeno sotto tortura.
Le mie parole sembravano non toccarlo minimamente e qualsiasi cosa pensassi o dicessi gli scivolava addosso, come nulla fosse, e questo mi faceva infuriare. Non volevo i suoi soldi, i suoi amici, né i ragazzi che si ostinava a farmi conoscere, inutili bambocci senza spina dorsale. Se voleva la sua festa che la facesse pure, però avrei giocato la partita a modo mio.
Feci avere a tutta la compagnia, e agli amici degli amici, l'invito per poter entrare al Country Club la sera del mio compleanno, tutti in perfetta tenuta da motociclisti poco raccomandabili. Ad aprire il corteo c'eravamo Max e io, con una bottiglia di birra in mano e con addosso pantaloni di pelle, top di pelle con fibbie e chiodo.
Sapevo che mio padre si sarebbe infuriato e mi meraviglio ancora del fatto che non gli sia venuto un attacco di cuore, ma le facce sgomente dei suoi invitati erano alquanto esilaranti ed esaltanti. Mi sentivo superiore a tutti loro, poiché io avevo il coraggio di essere quello che volevo, come coloro che erano venuti con me.
Mio padre mi venne incontro cercando di controllarsi, paonazzo dalla rabbia, e mi prese per un braccio, strattonandomi da una parte, finché Max non me lo staccò di dosso senza andare troppo per il sottile.
«Cosa pensi di fare?» mi disse, trattenendosi a stento dall'urlare serrando i denti, mentre si divincolava dalla stretta di Max. «Questa è una pagliacciata e voglio questi delinquenti fuori di qui entro cinque minuti!»
Al sentire questa frase, Max sogghignò, cercando con lo sguardo la mia approvazione, che arrivò senza esitazioni.
«Questa è la mia festa di compleanno, il mio compleanno», sottolineai con un gesto della mano, avvicinandomi a lui per dimostrargli la mia sicurezza. «Questi sono i miei amici e il mio ragazzo, che a te piacciano o meno sono affari tuoi. Vivo la mia vita come mi pare! Tieniti pure le tue regole e i tuoi soldi. Hai voluto questa festa? Eccola! Ecco i tuoi amici, la tua gente», indicando quelli nel parco che assistevano a questa mia pacifica invasione. «Ma se loro devono andarsene, me ne andrò anch'io, perché non mi interessa restare a parlare del tempo o del football con inutili bambocci, che si credono divi di Hollywood, e bamboline tirate a lucido per una sfilata che sa di tratta d'altri tempi!»
Ormai ero a pochi centimetri dalla sua faccia, ma a quel punto avevo detto tutto e mi ritirai, appoggiandomi a Max e prendendo le sue mani per chiudermi tra le sue braccia. Ero seria e continuavo a serrare la mascella per darmi più convinzione, in attesa della risposta di mio padre.
Mi guardò negli occhi e vidi la sua delusione, accompagnata dalla rassegnazione. Confesso che mi fece male, non avrei mai voluto arrivare a questo, lo amavo ed era tutto quello che era rimasto della mia famiglia.
«Hai ragione, è il tuo compleanno». Abbassò lo sguardo e senza aggiungere altro, si voltò e si diresse verso alcuni suoi amici.
Lo vidi parlare per una decina di minuti con un sorriso tradito dai suoi occhi, colmi di tristezza; forse nemmeno lui avrebbe voluto tutto questo. Poi se ne andò senza nemmeno salutarmi.
Ero triste e arrabbiata. Avevo vinto una battaglia inutile e mi sentivo svuotata. Mi strinsi a Max, che forse capì e mi baciò.
«Meglio bruciare all'inferno con te, che vivere in paradiso da solo», mi sussurrò, restando guancia a guancia. Mi sfiorò il collo con le labbra e mi morse il lobo dell'orecchio sinistro. «Portami all'inferno, piccola. Questo paradiso mi soffoca».
Lo baciai di nuovo, come se d'improvviso mi fossero tornate le forze, e feci strada alla comitiva verso l'uscita. Prima di andarmene richiamai l'attenzione dei presenti con un fischio del mio compagno, li ringraziai per essere intervenuti alla mia festa e augurai loro di trascorrere una piacevole serata in compagnia della propria ipocrisia.
Attraversammo di nuovo tutto il parcheggio per arrivare alle moto, decidemmo una meta, una come un'altra, e tutti partirono, tranne noi. Max mi trattenne continuando a baciarmi per poi scendere lungo il mio collo. Sentivo la sua lingua sfiorarmi e mi venivano i brividi.
Per un istante pensai che eravamo nel parcheggio del Club, nonostante ci avessero messi proprio in fondo, ma alla seconda volta che me lo ripetei, la frase assunse un tono diverso, opposto al precedente. Le mie mani, nel frattempo, erano scivolate lungo i fianchi di Max e avevano sbottonato i suoi pantaloni. Sapevo che era ciò cui voleva arrivare anche lui.
Prese la mia faccia tra le sue mani serrandola in una dolce presa, alzandola leggermente, e mi morse il labbro inferiore un paio di volte, per poi baciarmi di nuovo stringendomi a sé con forza. Sentivo come un fuoco ardere dentro di me: mi spingeva sempre oltre. Oltre i limiti, oltre le regole... semplicemente oltre la mia stessa immaginazione.
Restammo qualche istante in silenzio a fissarci. Respiravo la sua aria: vicina a lui mi sentivo così viva e libera da dimenticare anche il freddo di quella sera. Chinai leggermente la testa arretrando, mentre sbottonavo i miei pantaloni, e lo guardai di sbieco, sogghignando in attesa di un suo cenno, che non si fece attendere troppo.
A pensarci ora rabbrividisco. Eravamo veramente due animali fuori controllo, ma mai più nella mia vita avrei provato emozioni così intense, per cui, forse, ne è valsa la pena.
Anche in quel parcheggio, anche con quel freddo, sentire il suo respiro ansimante sul mio collo, le sue mani che mi stringevano e mi accarezzavano, il suo petto sulla mia schiena... Forse tutto ciò ha avuto un senso alla fine.
Un mese più tardi ci ritrovammo a girare sulla Market Street e ci fermammo in un piccolo locale, dove c'erano altre moto parcheggiate. Giravamo spesso per il Tenderloin senza grossi problemi, o almeno nessuno che non fosse gestibile, e avevamo fatto tappa altre volte in quel locale, eppure quella sera di fine gennaio qualcosa andò decisamente per il verso sbagliato: forse una birra di troppo, non so, e scoppiò l'ennesima rissa. Stavolta, però, si andò sul pesante e i nostri avversari si mostrarono armati di coltelli. Noi non eravamo certo a mani vuote, ma non si era mai arrivati alle armi.
Il cuore mi saltò in gola, mentre Jenny mi trascinava da una parte, fuori dalla mischia. Non riuscivo a parlare: restai a fissare Max, impietrita per la paura che gli succedesse qualcosa, quando lo vidi schivare il colpo di un tizio che aveva di fronte, allontanandolo con un calcio dritto allo stomaco che lo fece stramazzare a terra.
Tirai un sospiro di sollievo, finché non mi accorsi che c'era un altro uomo dietro di lui.
«Max!» urlai con tutto il fiato che avevo, ma non servì. Lui sì voltò nella mia direzione per un istante e, in quel momento, il bastardo alle sue spalle gli infilò il coltello nella schiena.
Mi divincolai dalla presa di Jenny e corsi verso di lui, mentre Bill e Sam si occupavano di quel tipo. Quando gli arrivai davanti, Max cadde sulle ginocchia. Cercai di sorreggerlo, prendendolo sotto le braccia e stringendolo a me. Continuavo a chiamarlo, mentre le lacrime mi scendevano lungo il viso. Mick fu il primo ad arrivare e gli diede un'occhiata, poi lo fece alzare e, tenendolo in piedi di peso, lo portò verso le moto.
Poco dopo arrivarono anche gli altri. So che dissero qualcosa, ma non riuscii a capire cosa: mi guardavo le mani sporche del sangue di Max, deglutendo a fatica, singhiozzando e respirando a stento.
Sam saltò sulla sua moto mentre Bill e Tom caricarono Max dietro di lui, assicurandolo allo schienale con una corda e procurandogli non poco dolore, palesato dalle smorfie sul suo volto. Mick mi prese per un braccio e mi fece salire sulla sua invece. A quel punto realizzai che stavolta la regola non sarebbe stata rispettata. Ci dirigemmo all'ospedale il più in fretta possibile e quando lo consegnammo nelle mani dei medici venimmo esclusi da tutto: non avevamo nessun legame di parentela con lui e per ore nessuno ci disse nulla, nonostante le imprecazioni di Sam e Mick. Finalmente un'infermiera molto gentile mi si avvicinò, avendo sentito che ero la sua ragazza, e mi rassicurò sulle sue condizioni. Passarono, tuttavia, un altro paio d'ore prima che mi permettessero di vederlo, dietro specifica richiesta del paziente.
Quando varcai la soglia della stanza e lo vidi steso su quel letto con gli occhi chiusi, mi sentii mancare e ripresi a piangere in silenzio per non svegliarlo. Mi avvicinai lentamente, ma Max si voltò verso di me e mi allungò la mano che presi: mi chinai per baciarlo, sfiorandogli appena le labbra, e scoppiai in un pianto disperato.
Mi sorrise dolcemente e mi strinse un po' per calmarmi. Riuscirono a tenerlo in ospedale per un giorno e mezzo, poi non ci fu verso e se ne andò contro il parere dei medici. Passai a prenderlo io in macchina e lo accompagnai a casa sua. Fu in quel momento che mi resi conto di non averla mai vista e di non sapere nemmeno dove fosse. Si era sempre comportato come se non ne avesse una e, infatti, non dimostrava grande gioia al pensiero di doverci andare; durante il viaggio restò in silenzio, salvo per le indicazioni stradali necessarie per giungere a destinazione.
Abitava sulla Pine Street: ecco spiegato perché conosceva bene quel quartiere. Dovetti insistere per accompagnarlo in casa. Immagino non volesse portarmi in quel suo pezzo di mondo.
Entrammo e sembrava non ci fosse nessuno in casa. Lo aiutai a sedersi sul divano, poi gli chiesi se avesse bisogno di qualcosa e andai a vedere se nel frigo ci fosse da mangiare. In realtà non c'era molto, a parte un'infinita scorta di birra, seguita da diverse bottiglie di whisky nella credenza. Presi una birra e gli preparai un sandwich con quello che avevo trovato. Mi sedetti vicino a lui che, senza proferire parola, mi strappò letteralmente la bottiglia di mano, come avesse decisamente sete. Sembrava piuttosto teso, cosa assai rara.
Poco meno di mezz'ora più tardi, si aprì la porta e vidi entrare suo padre, altra figura evanescente della sua vita. Dopo quella breve conoscenza ne capii il motivo: era un uomo sulla quarantina, mal tenuto e ubriaco fradicio alle sette di sera, anche se doveva esserlo già da un bel pezzo. Strabuzzò gli occhi alla nostra vista e mi si avvicinò, quasi odorandomi, prima di scoppiare in una risata seguita da alcune imprecazioni.
«Cosa fai tu da queste parti?» disse, lanciando un'occhiata verso suo figlio, che guardava la televisione e sembrava ignorarlo completamente. «Se hai messo incinta questa bambolina sono solo affari tuoi! Non venire a cercar soldi».
Max non si voltò a guardarlo e buttò giù un altro sorso di birra.
«Tranquillo Rob, non è incinta e non voglio i tuoi soldi. Mi fermo solo per qualche notte», disse stringendomi.
«Ti sei messo nei guai, eh?» borbottò in qualche modo il padre, avvicinandosi nuovamente a me. «Almeno è maggiorenne?»
Aveva addosso un tanfo insopportabile.
«Si ferma anche lei, vero?» aggiunse.
Il tono di quest'ultima frase mi fece salire un brivido lungo la schiena: risultava alquanto raccapricciante e poco rassicurante. Max si voltò a guardarlo con l'aria di un cane pronto ad azzannare.
«No! E adesso levati dai piedi e fammi guardare la TV in pace», concluse lapidario.
Era facile a quel punto capire da cosa scappasse, quali fossero i suoi demoni e perché si fosse costruito quella spessa corazza. Restai a baciargli un po' la mano con cui mi stringeva, così dura, nodosa, sia per i lavori manuali che aveva sempre dovuto fare, che per la quantità non specificabile di risse. Eppure, sapevano essere così gentili e delicate quando mi toccavano, quando mi accarezzavano.
In effetti si fermò a casa solo qualche giorno, poi riprendemmo a girare per un po' con la mia macchina.
Per diverse settimane non riuscii a dormire. Ogni volta che mi addormentavo, rivedevo la stessa scena: lui che si accasciava a terra e le mie mani sporche di sangue. Piano piano, per fortuna, ritornai alla tranquillità, ormai provata dalla mancanza di sonno e dai continui ed insistenti interrogatori in famiglia.
La storia con Max durò circa tre anni, durante i quali feci impazzire mio padre, vivendo senza regole e all'insegna delle più sfrenate passioni.
Se chiudo gli occhi, riesco ancoraa sentire il profumo della sua pelle, i suoi lunghi capelli tra le mie dita, lesue mani.
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