L'Altra nello specchio
Nessun essere umano ha ricordi dei suoi primi tre anni di vita, eppure io avevo solo pochi mesi la prima volta che ho visto "l'Altra".
Ho impressa nella mente questa immagine di mio padre che tiene in braccio una neonata dalla carnagione bianca come la calce e i tratti somatici orrendamente scavati, come se strati di pelle le fossero stati affettati via dal viso. Se mi concentro vedo qualche maggiore dettaglio, ad esempio che il riflesso non era quello di uno specchio ma più quello sbiadito di una finestra chiusa su delle tapparelle serrate, oppure la barba trascurata di mio padre e il pigiama che indossava quel giorno; penso fosse una domenica o un giorno di festa. Se mi concentro il ricordo si arricchisce di altri particolari, ma poi l'occhio della memoria torna a puntare su quella spaventosa neonata e allora fuggo via dagli abissi della mente con un conato di vomito e un brivido lungo la schiena, subito cerco di pensare a qualcosa di piacevole, un appiglio per scappare da quel frammento di passato conficcato nel mio inconscio.
In passato ho chiesto più volte a mio padre se ricordasse quell'istante ma ha sempre risposto di avermi tenuto in braccio ogni giorno fino a che il mio peso glielo ha concesso, pertanto un passaggio davanti a una finestra chiusa durante una qualunque domenica dei suoi trent'anni non può essergli rimasto immortalato nella memoria. Ma io non dimentico, perché da allora l'Altra è sempre stata lì.
Il fatto è che lei non è sempre stata semplicemente "l'Altra", per anni quella bambina e io siamo state la stessa persona.
Da allora, da quel primo ricordo, ho sempre visto in ogni riflesso quel piccolo mostro. Ella è cresciuta con me: quando avevo due anni dimostrava la mia stessa età, stessa cosa a tre, quattro e così via. Due coetanee, due entità separate ma interscambiabili, ai miei occhi una cosa sola. Io ero Lei.
E come avrei potuto pensare il contrario se in ogni riflesso mi trovavo davanti quel volto scavato, gli occhi scuri senza distinzione tra pupilla e iride, i pochi capelli lunghi e corvini, quelle braccia filiformi che uscivano da vestiti uguali a quelli da me indossati mentre mi specchiavo? Quella dovevo per forza essere io, e avrei dovuto vivere il resto della mia esistenza con tanta peculiare bruttezza.
Non capivo i complimenti che mi rivolgevano gli adulti, dicevano che ero bellissima con quei capelli biondi e quegli occhi verdi. Fino a quando non fui in grado di confrontarmi con gli altri bambini, fui convinta che "biondo" e "verde" fossero le parole che definivano i colori più scuri del mondo. D'accordo per i colori ma che la mia fosse "bellezza" ... non era possibile, si stavano prendendo gioco di me, tutti mi deridevano con i loro falsi complimenti. E allora i complimenti cessarono, perché a quelle falsità io rispondevo con rabbia e crisi di pianto.
Fu così che nessun adulto si avvicinò più a me, perché è un duro colpo all'orgoglio essere causa del malessere di un infante solo con la propria presenza. In breve tempo i bambini fecero quello che gli è più naturale ovvero imitare i grandi: si allontanarono da me, così strana, troppo persino per chi ha l'età in cui l'immaginazione è ancora la chiave per interpretare il mondo.
Fui fortunata perché non crebbi sola. La fortuna di essere sventurati è che la propria disgrazia diventa un magnete in grado di attirare altri emarginati sociali. Fu possibile anche per me avere degli amici: Fausto, che per non balbettare era costretto a parlare con una lentezza disarmante; Gaia, senza mignoli a causa di una leggera focomelia; Ilaria, i cui denti non sono mai spuntati per colpa di una rarissima agenesia. Buffo che i miei amici avessero tutti nomi di battesimo inneggianti alla gioia pur non avendo nessuna ragione per essere allegri. Eppure insieme riuscivamo a esserlo, non con i nostri compagni di scuola che ci evitavano o deridevano, non con i nostri genitori incapaci di comprenderci. Insieme stavamo bene, emarginati per nostra volontà da un mondo che comunque non ci voleva.
Se non avessi avuto i miei amici adesso non sarei qui a scrivere queste righe, mi sarei uccisa prima dell'adolescenza. Non ci sarei più se non fosse stato per loro, uniche persone in grado di guardarmi dritto negli occhi. Sfortunatamente, questa è anche la ragione per cui li ho persi per sempre.
Un giorno dei nostri allora tredici anni di età Fausto e io fissavamo il soffitto, sdraiati sul letto nella sua camera. A un tratto mi prese per mano, io ruotai la testa verso di lui, con lentezza si avvicinò restando in silenzio, il battito del mio cuore aumentò all'impazzata, lo stesso fece il respiro, sulle mie labbra il suo fiato caldo, chiusi gli occhi per poi riaprirli, anche i suoi erano aperti... sulle iridi non c'era Lei.
L'Altra non era lì, sostituita da un'altra ragazza, una ragazza bellissima. Quella riflessa negli occhi del mio amico non ero io, convinta all'epoca di avere tratti somatici scheletrici e pochi capelli corvini, bensì una fanciulla dai capelli ricci e chiari... una nuova estranea prigioniera dei bulbi oculari di Fausto.
Questo è ciò che devo aver pensato in quel momento, non ricordo bene perché fu tutto molto rapido. L'apparizione di quella persona, mai vista prima, riflessa al posto dell'Altra mi terrorizzò e insperanzì allo stesso tempo: saltai su Fausto e con le dita gli bloccai le palpebre per non perdere di vista l'estranea racchiusa nell'iride. Lui tentò di togliermi di dosso ma io glielo impedii col mio peso; non potevo far scappare la nuova bellissima me dai suoi occhi! Premetti le palpebre perché non sbattessero e lo feci con troppa forza. I capillari dei bulbi oculari cominciarono a formare una rete sanguigna ma io continuai a premere sempre più forte, attorno agli occhi lentamente del sangue sgorgò fuori, la molle pelle su cui le dita sprofondavano stava invece diventando nera, Fausto urlò...
Si spalancò la porta di camera, sua madre vide la scena e dopo aver cacciato uno strillo mi fu addosso, allora mollai il figlio per mettere le mani sul suo viso: volevo vedere se la nuova ragazza del riflesso era presente anche nell'occhio della madre di Fausto. Lei si oppose bloccandomi la mano sinistra, con la destra allora afferrai una lampada dal mobile più vicino e gliela fracassai in testa, la donna cadde e io le fui addosso, con le dita a spalancarle le palpebre: vidi la ragazza bellissima, lo era davvero sebbene in evidente stato di agitazione ma quando le sorrisi lei fece lo stesso, ricambiò lo stesso mio sorriso. Ne fui quasi ipnotizzata, tanto da non accorgermi delle mani che mi afferrarono da dietro. Fausto si era ripreso e voleva difendere la madre.
Risposi con delle gomitate ma anche sua madre, grondante sangue da una tempia, mi fu addosso. Scalciai e fuggii dalla camera, mi precipitai di corsa giù dalle scale e scappai verso l'uscita, allungai la mano per afferrare la maniglia della porta... e vidi di nuovo l'Altra. Sulla maniglia d'ottone non c'era la bella ragazza riflessa sugli occhi di Fausto e di sua madre, c'era l'orribile versione di me stessa, il mostro che mi perseguitava da sempre.
Cacciai un urlo di rabbia e disperazione; tirai giù la maniglia con un pugno e la porta si aprì consentendomi di scappare. Perché l'Altra era tornata dopo così breve tempo?
Corsi urlando come una disperata e inciampai dopo pochi metri finendo con le mani in una pozzanghera, era infatti una giornata piovosa. L'Altra mi urlava contro, riflessa nella marrone acqua fangosa. Fuggii via col viso grondante lacrime, gli occhi così gonfi da non accorgermi di aver urtato un passante, caddi all'indietro. L'uomo mi prese delicatamente per un braccio chiedendomi se mi ero fatta male, io gli afferrai l'arto e lo tirai verso di me, avevo infatti bisogno di una nuova conferma. Lo guardai negli occhi e riflessa sull'iride la vidi di nuovo: la bella ragazza, la meravigliosa versione di me stessa.
L'uomo si spaventò e tirò indietro il capo, io lo pregai di non farlo; avevo bisogno dell'immagine nei suoi occhi, la mia speranza di essere qualcosa di diverso, qualcosa di migliore. Lo afferrai per una gamba e tentai di tirarlo giù, fallendo. Lui intanto chiese aiuto. Altri passanti nel frattempo si erano fermati intorno a noi, saltai allora su di loro, una persona alla volta, sguardo incrociato con ognuno. C'era sempre la bella ragazza in quei minuscoli riflessi, scintille di speranza scaldavano il mio cuore.
La gente gridava, alla folla si erano aggiunti persino Fausto e la madre, perdevano sangue e gridavano pure loro ma io non ascoltavo quello che dicevano, l'unica cosa che contava era non lasciar scappare la bella prigioniera degli occhi. Mani mi afferravano, braccia mi bloccavano, tutti urlavano, io strillavo...
Qualche ora dopo anche i miei genitori gridarono, supplicando le forze dell'ordine di lasciarmi tornare a casa e giurando che tutto questo non sarebbe successo mai più, che mi avrebbero tenuta d'occhio, meglio di quanto fatto fino a quel momento. Ma avevo ferito due persone, il mio ex-migliore amico rischiava la vista, per non parlare poi del casino che avevo combinato per strada. Era palese che avessi un problema, qualcosa di sbagliato nella mia mente. Dovevo essere aggiustata, c'era bisogno di una cura.
I miei genitori riuscirono con le loro insistenze a mantenere la mia custodia a patto di sottopormi a giornalieri controlli medici e assunzioni di farmaci. Fu così che divenni prigioniera in casa mia, così come la bella ragazza degli occhi era prigioniera delle iridi altrui. Solo che io, a differenza di lei, non ero sola: mi tenevano compagnia i miei genitori iperprotettivi, incapaci di comprendere il mio malessere, e l'Altra.
Era ancora lì, su specchi, finestre, cucchiai... ovunque mi riflettessi c'era Lei a ricordarmi che non mi avrebbe mai lasciato, che eravamo una cosa sola mentre quella degli occhi era solo un miraggio, un flebile sogno che presto ci avrebbe abbandonato, soffocato dai farmaci.
Forse fu per questo che smisi di assumere i medicinali vomitandoli grazie all'antico trucco delle dita in gola, insegnatomi dalla mia amica Gaia che non avrà avuto i mignoli ma di sicuro aveva cura della sua immagine corporea. Niente più medicine dunque, ma avevo bisogno di un bagliore di speranza per continuare l'ardua lotta chiamata "vita", altrimenti non avrebbe avuto senso perseverare in essa. La mia ragione di esistere era liberare la meravigliosa versione di me, reclusa nella gabbia dei bulbi oculari di chi mi circondava.
Ma ella esisteva ancora? Non ne avevo alcuna prova in quanto i pochi esseri umani con cui avevo possibilità di interagire ovvero dottori, infermieri, i miei genitori, tutti evitavano il mio sguardo. Se tentavo di fissarli negli occhi, prontamente li puntavano a terra o trovavano una scusa per voltarsi da un'altra parte. Non so perché lo facessero, ma mi facevano stare male. Se davvero ero malata, perché dovevano cagionarmi pure questo dolore?
Ero sola, circondata da persone che non mi amavano e che avrebbero preferito essere altrove piuttosto che con me.
Sola, senza più i miei amici, uno dei quali avevo ferito con le mie mani colpevoli.
Ero isolata dal mondo. Ma peggio ancora, la mia unica compagnia era l'Altra.
Avevo bisogno di una nuova amica, della vera me stessa: dovevo liberare la bella prigioniera degli occhi.
Così una notte mi alzai da letto e uscii di camera evitando di produrre il minimo rumore, a passo felpato percorsi il corridoio, sempre adagio aprii la porta della camera da letto dei miei genitori. Il più vicino alla porta era mio padre, dormiva supino con la bocca semiaperta russando leggermente; pallida luce lunare entrava nella stanza grazie alle tapparelle abbassate solo a metà garantendomi una discreta luminosità e favorendomi la liberazione. Alzai la mano, nella quale tenevo ben chiuse le forbici sottratte prima di cena dal cassetto della credenza ritenuto da mia madre un ottimo nascondiglio per gli oggetti contundenti.
Colpii.
Un colpo ben assestato sulla cavità oculare, con l'intenzione di ruotare attorno al bulbo per estrarlo dalla testa.
Purtroppo le cose non andarono come pianificato.
Seguirono urla e sangue, molto sangue. Mio padre dimenandosi mi impedì di proseguire, mia madre si svegliò di soprassalto e mi fu addosso. Mi liberai colpendola più volte alla gamba con la punta delle forbici, mollò la presa, ne approfittai per tentare l'atto di liberazione sui suoi occhi ma mio padre, sferrando colpi alla cieca seguendo gli strilli della moglie, mi sferrò un pugno alla testa stordendomi al punto da farmi scivolare l'arma via dalla mano.
Mio padre; l'uomo che ha sempre preso le mie difese, spesso irragionevolmente; la persona che mi ha sempre protetto dai giudizi degli estranei alla famiglia, quasi morbosamente; mi aveva appena sferrato un pugno. Forse fu lo shock a svegliarmi ma d'improvviso mi resi conto di quello che avevo fatto. Scoppiai in lacrime e scappai fuori dalla stanza come avevo fatto dopo l'assalto a Fausto e a sua madre ma con la differenza che stavolta mi allontanavo dai miei genitori, coloro che mi hanno messa al mondo, consapevole di aver fatto qualcosa di imperdonabile. Scesi le scale, arrivai alla porta ma la trovai serrata. Non poteva essere altrimenti, era pur sempre la casa di una ragazza malata di mente con genitori molto (se non si considerano le forbici lasciate nella credenza) previdenti. Urlai, graffiai la porta mentre le mie ginocchia cedevano sprofondandomi al suolo. Volevo fuggire da quello che avevo fatto, volevo cancellare tutto, ricominciare da zero. Ma non potevo e, coltello nella piaga, la maniglia in ottone rifletteva l'Altra, la quale si scioglieva per terra come una mostruosa bambola di plastica gettata tra le fiamme.
I miei scesero le scale, entrambi sanguinolenti; li supplicai di perdonarmi, cercai di spiegare la mia assurda situazione ma quanto avevo fatto quella sera era troppo. Non potevo più vivere con loro, avevo bisogno di cure, drastiche cure...
I giorni adesso passano tutti uguali.
La monotonia spacciata per normalità, spacciata a sua volta come "il meglio per i pazienti", regna sovrana tra queste mura di un celeste pallido spezzato ad altezza uomo da un bianco che va fino al soffitto. Così sono verniciate tutte le pareti dell'istituto, con i due colori divisi da quella austera linea orizzontale, non sia mai che una pennellata imprecisa possa turbare noi "ospiti" della struttura.
Gli orari sono rigidi, le attività sempre le stesse; ogni giorno si ripete uguale al precedente, per il nostro bene, dicono. L'unica variabile è il fattore umano: nuovi pazienti o membri del personale suscitano notevole interesse al loro arrivo ma, in brevissimo tempo, si adeguano allo standard del centro di igiene mentale, come se questa enorme entità divorasse tutti coloro che vi accedono masticandoli, deglutendoli, plasmandoli grazie ai suoi succhi gastrici, ma senza mai evacuarli. Tutto qui dentro diventa parte di una massa uniforme, una schifosa poltiglia destinata a rimanere intrappolata in uno squallido intestino.
Gli unici liberi sono i visitatori, questi escono dalla struttura dopo la loro oretta di visita uguali a come ne sono entrati, appena appena macchiati di un leggero turbamento che una folata di vento soffierà via una volta rimesso piede nel mondo esterno.
I miei genitori sono gli unici a visitarmi; i primi tempi venivano tutti i giorni, adesso sempre più di rado. Forse non sopportano più l'odore nauseabondo della poltiglia cui faccio parte, chissà.
Una volta però è venuto a trovarmi Fausto. Eravamo separati dal solito pannello di vetro della sala visite, aveva una benda su un occhio, ricordo di quel giorno in cui eravamo sdraiati sul letto a fissare il soffitto. Non ha spiccicato parola, è andato via con le lacrime che sgorgavano dall'occhio scoperto. Sembrava non mi riconoscesse o quantomeno che il mio aspetto lo turbasse.
Già, perché sono cambiata rispetto a un po' di tempo fa. O almeno così dicono.
La mia perdita di peso preoccupa medici e infermiere: il corpo ogni giorno più sottile, i tratti del viso sempre più scavati, tutto a causa del mio rifiuto di ingerire il cibo o di espellerlo con due dita nella gola (grazie per la dritta, Gaia) dopo che me lo hanno somministrato a forza. Ma ciò che non riescono a spiegarsi è il cambio di colore dei capelli e degli occhi, ormai neri come la pece. Soprattutto gli occhi, da cui sono scomparse completamente le iridi facendo largo a due enormi e inquietanti pupille.
A me non importa ciò che vedono loro.
La bella prigioniera degli occhi, con i suoi lineamenti soavi e i riccioli biondi, adesso compare in ogni riflesso. Almeno lei ora è libera, libera di essere me stessa.
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