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Ai matti si dà sempre torto


"Lasciate ogni speranza, o voi che entrate."

Questa frase non è scritta all'ingresso dell'ospedale psichiatrico Gervasio Magnotta ma ci farebbe un figurone in questo momento, grazie a quei neri nuvoloni annuncianti tempesta che gli fanno da pittoresco sfondo in questa cupa sera di febbraio.

In verità, quella frase sarebbe appropriata anche in assenza di nembi, poiché l'ospedale ha un aspetto orribile persino nelle giornate soleggiate. E non può essere altrimenti, trattandosi di un vecchio manicomio abbandonato per anni e tornato al suo scopo originario dopo l'abolizione della legge 180, che nel 2020 ha riportato il trattamento dei pazienti affetti da malattia mentale indietro di circa cinquant'anni. Il Comune di Casalnutrione, provincia mantovana, male non aveva pensato a riportare l'edificio ai suoi antichi fasti rivalutando così quella costruzione fatiscente divenuta manifesto del degrado e motivo di vergogna per i cittadini tutti, ma la mancanza dei fondi promessi dalla Regione per il recupero dei vecchi edifici pubblici ha costretto il Comune a un'opera di ristrutturazione talmente approssimativa che l'esterno dell'ospedale appare ancor più lugubre di quanto fosse nel precedente stato di abbandono.

E l'interno è ancora peggio...

Al dottor Fresconi viene naturale abbassare lo sguardo quando entra in quel luogo nefasto, un inconsapevole tentativo di fuga dalla realtà, la realtà di essere il responsabile di una decrepita struttura medica e di dover fare da anni quello sventurato ingresso. Ogni maledetto giorno.

Quando la famosa legge Basaglia è stata abolita e il manicomio (anche se il termine è stato rimpiazzato con "Centro di Igiene Mentale", per motivi di decenza) Gervasio Magnotta inaugurato per la sua seconda vita, il dottor Leonardo Fresconi era stato fiero della sua nuova carica di responsabile. Finalmente un ruolo dirigenziale a poche centinaia di metri da casa, dopo anni di duro lavoro la realizzazione professionale andava ad affiancarsi a una vita familiare più che soddisfacente.

«Buonasera dottore.»

Il saluto dell'infermiera alla reception, consueto rito d'iniziazione alla nottata lavorativa.

«Buonasera, buonasera.»

«Tutto bene a casa?»

Il dottor Fresconi tira dritto ignorando la domanda, lo sguardo ancora rivolto alle vetuste mattonelle che scorrono al suo passo.

Tutto bene a casa? È forse una domanda da farsi? Addirittura il primo interrogativo da rivolgere a un povero cristo all'inizio del turno di lavoro, peraltro notturno?

Questi sono i pensieri che percorrono la mente del dottore, non riflette sul fatto che quel quesito gli viene posto ormai da anni da quella particolare infermiera in quello specifico turno. È routine, è il seguito del rituale "buonasera". Ma questa non è una sera normale, perché è la diretta continuazione di una giornata ancora più particolare di tutte le precedenti.

«Buonasera, dottore.» dice una seconda infermiera.

«Buonasera, buonasera.»

«Che brutte occhiaie ha- Anche questa adesso? Ma cos'hanno le infermiere oggi per essere così invadenti? - non ha dormito questo pomeriggio?»

Possibile si veda tanto? Il dottor Fresconi sarebbe sul punto di risponderle ma poi una scintilla di sospetto balena nella sua mente: chi gli dice che l'infermiera non sappia dell'avvenimento di questa mattina? Del resto alla cena di Natale del centro l'ha vista conversare con sua moglie mentre lui era preso a discorrere con il dottor Gastaldi, primario dell'ospedale Mincio Oglio. Non potrebbe essere nata un'amicizia in quello scambio di battute? Sua moglie questa notte non avrebbe potuto necessitare della possibilità di sfogarsi con qualcuno per via telefonica, magari una persona di fiducia dotata della facoltà di poter vedere quotidianamente suo marito in un ambito, quello lavorativo, cui lei non ha possibilità di accedere?

E a causa di questa nuova ondata di pensieri infelici sbatte la porta in faccia all'infermiera e si chiude nel suo ufficio, godendosi un momento di pace in cui indossare il camice e ordinare le cartelle cliniche per le visite serali.

Ma per quanto serrarsi in una stanza possa portare una pace a prova di influenze esterne, niente può contro i parti della propria mente. Leonardo torna a pensare alla colazione di questa mattina, il diverbio avuto con la moglie di fronte ai loro due splendidi figli...

Così una nuova fuga ha inizio, stavolta dal suo studio. Per sopprimere i brutti pensieri c'è solo un rimedio: una dolorosa immersione in apnea nella routine lavorativa.

Primo paziente: Marzio Levanti

Dopo essersi fiondato nella glabra saletta delle visite il dottor Fresconi, cartella poggiata sul tavolo, attende il primo degente.

Scortato da un infermiere fa il suo ingresso Marzio Levanti, classe 1964, la pelle raggrinzita e la barba bianca a invecchiarlo di almeno quindici anni, le gonfie unghie nere e la mappa di capillari sanguigni disegnata sulla pelle a renderlo quasi mostruoso; segni lasciati da eccessi cui ha ceduto nel tentativo di sopprimere la consapevolezza di una vita travagliata, obiettivo che pare aver raggiunto grazie alla pazzia che adesso lo porta a raccontare aneddoti dalla veridicità assai dubbia.

«Cosa mi racconti oggi, Marzio?»

«Il Chiti è morto.»

«Eh sì, brutta storia.»

E così ha inizio la solita solfa, un copione sempre identico per il quale il dottor Fresconi ha ormai rinunciato a segnare appunti sul suo quaderno.

«S'è impiccato, non ce la faceva più a patire così. Tutti contro aveva, tutti.»

«Sì, povero Chiti.»

«L'hanno fatto secco. Anche sua moglie l'hanno ammazzata, è morta di crepacuore quando ha visto il marito penzoloni sulla corda. Tutti farabutti, tutti!»

«Povera la moglie del Chiti.»

E nel frattempo il pensiero di Leonardo Fresconi va a un'altra consorte: sua moglie che gli punta il dito contro davanti alla prole.

«La stessa gente che mi ha messo qui dentro, perché io ci stavo bene a casa con la mia di moglie. Lei non mi ha visto morto, lei no. L'ho vista morta io.»

«Sì, povera donna pure lei.»

Il dito puntato contro, poi a indicare la porta. Lui che supplica Anna di dargli il tempo di spiegare ma niente, nulla ferma una donna accecata dalla rabbia e dalla delusione di una fiducia mal riposta.

«Io spacciavo nel '92 ma mica ho cominciato io, erano gli altri che volevano. Io giocavo al pallone da ragazzo, c'erano il Drovai, il Michelotti, lo Spina. Che tiri faceva lo Spina!»

«Sì...»

Quella battuta sulle occhiaie? E se fosse stata quella stronza dell'infermiera a raccontare ad Anna che lui se la faceva con la moglie del dottor Gastaldi da dicembre? Le donne sono così, si conoscono tutte nei loro ambienti... Vuoi vedere che quella lì e sua moglie sono davvero amiche? Magari prima ha fatto la spia poi stanotte si sono sentite... Ha sempre pensato fosse una lesbica quell'infermiera, magari pensava di togliere di mezzo lui per farsi sua moglie...

«Poi c'era anche il Chiti, ma lui non giocava bene e stava sempre in panchina.»

«Sì...»

Magari poteva trovare il modo per togliere di mezzo quella bastarda d'infermiera... ma mica può sbatterla fuori per un sospetto... Quella stronza, per colpa sua oggi ha dovuto dormire in macchina, altro che occhiaie! E poi la figura fatta con Michele e Giulia, non dimenticherà mai quelle espressioni sui loro volti...

«Al Chiti mica piaceva il pallone, gli piaceva la musica.»

«Sì...»

Ma chi se ne fotte dell'infermiera... Le facce dei suoi figli! Sua moglie... La meravigliosa famiglia che si è costruito in tutti questi anni, tutto svanito per colpa di un cedimento. Con la moglie di Gastaldi poi! Come se fosse meglio di Anna, che è sempre una bellissima donna per la sua età... Come ha potuto tradirla? Cosa doveva dimostrare? E a chi?

«Ma tanto mica gliene frega più qualcosa alla gente del Chiti.»

«Già...»

Doveva dimostrare qualcosa a se stesso forse? Del resto Anna è stata la prima e l'unica, anni di fidanzamento sin dai tempi del liceo e poi il matrimonio al termine dell'università. I figli sono arrivati anni dopo, in seguito a svariati tentativi e al timore di non poter procreare; quegli spermiogrammi infami...

«Neanche a te frega qualcosa del povero Chiti!»

«Sì...»

Un insulto alla sua virilità. Poi si è riscosso, certo, mettendo al mondo due pargoli. Ma è rimasto un uomo legato a una sola donna tutta la vita. Come avrebbe potuto raccontarlo a Michele una volta raggiunta la pubertà con le prime conquiste amorose? Un padre che racconta balle al figlio inventandosi ex del liceo mai avute? Aspetta un momento... Sarebbero queste le motivazioni che lo hanno portato a tradire sua moglie? Ha distrutto la sua famiglia per questi pensieri puerili?

Ha perduto tutto perché è un essere così debole e meschino? Lo ha fatto solo per l'orgoglio del suo pene? Oddiodiodiodiodio...

«Il Chiti è morto, l'hanno ammazzato!»

«NO!»

Leonardo Fresconi urla una sillaba di rifiuto nel tentativo di frenare l'avanzata del treno dei brutti pensieri ma viene frainteso dal paziente Marzio Levanti, visibilmente sconvolto da questa reazione del medico e convinto che quel "no" fosse rivolto a lui.

«Co-come no? Il Chiti l'hanno ammazzato!»

«Come ammazzato? Ma non si era impiccato?»

Al dottore viene spontaneo contraddire nuovamente il paziente, nel tentativo di recuperare un filo logico finora mancante. Marzio è incredulo, abbassa lo sguardo e respira forte, poi si alza e inizia a camminare avanti e indietro nella saletta, combattendo un'invisibile guerra nella sua testa.

«Il Chiti è morto... l'hanno ammazzato.»

«Ma se hai detto che si era impiccato!»

Il dottore prova un senso di sadico piacere nel seminare il dubbio nella mente di Marzio, cosa mai provata prima. Il povero folle deambula a passetti, poi si volta verso Fresconi.

«Allora il Chiti si è impiccato?»

«Così hai detto.»

Marzio fissa il pavimento per qualche secondo, poi si rivolge nuovamente al medico.

«È vero, grazie dottore.»

Un sorriso mai visto prima su quel volto scarno raggela Leonardo, che rimane ammutolito.

Entra l'infermiere a portare via l'uomo, lasciando solo il dottore. Che cosa significava quel sorriso? E come mai ha contraddetto il suo paziente, azione vietata da ogni libro e rivista scientifica su cui abbia mai posato occhio? Non lo sa, ma farlo gli ha permesso di dimenticare, seppur temporaneamente, il brutto episodio di quella mattina. E ciò lo ha fatto stare bene.

Giusto il tempo di rendersi conto di ciò, la porta si apre e un altro infermiere introduce una nuova paziente.

Seconda paziente: Giovanna Paciocchi

La corpulenta donna si avvicina al tavolo, faticando a sedersi data la mole e per questo aiutata dall'infermiere, costretto a esibirsi in smorfie causate dal nauseabondo puzzo di piscio cui è pregna la scarruffata signora.

«Buongiorno Giovanna, come stai oggi?»

«A me garba la trippa.»

Questa donnona dai tondi occhi blu ha due chiodi fissi. La trippa è uno.

«Sì, è buona.»

«La do da mangiare anche a Briciola.»

L'altro chiodo sono i gatti.

«Brava Giovanna. Ma tu come ti senti oggi?»

«A te garba la trippa?»

«Sì, è buona.»

La signora Paciocchi emette una sonora risata.

«Ma quanto è bona la trippa!»

«Sì. Tu come stai?»

Il dito puntato di Anna, le urla, le facce dei figli.

«La mangia anche il gatto!»

«Sì. Ma tu come stai?»

Il pomeriggio passato in macchina, l'infermiera, le occhiaie.

«A te garba la trippa?»

«NOOOOOMIFASCHIFONONLAMANGIOSONOVEGETARIANOPORCOMONDO!»

La signora Paciocchi rimane sbigottita, la bocca aperta a forma di "O" all'interno del viso paffuto.

«Scusa, Giovanna.»

«No dottore, ha ragione. La trippa fa schifo.»

«No no Giovanna, non è poi così male...»

«No, ha ragione lei, fa schifo. Ha fatto benissimo a farmelo presente. Grazie.»

La signora Paciocchi si esibisce in un sincero sorriso mettendo in mostra i denti gialli, poi esce senza attendere infermieri.

Leonardo dovrebbe fare qualcosa, una paziente non può lasciare la stanza di sua spontanea volontà, ma è talmente sbalordito da non riuscire a fare alcuna mossa. Non è colpito tanto dalla reazione della Paciocchi, quanto dal proprio atto: ha contraddetto due pazienti affetti da disturbi mentali, cosa mai provata prima e bandita dal codice di condotta professionale del personale medico, ma soprattutto ha provato piacere nel farlo.

E la replica dei due matti? Accettazione, sorrisi, frasi con un senso logico... come se avessero recuperato la ragione. Ma ciò non è possibile, no...

Terzo paziente: Foffo Sabatini

E così fa il suo ingresso il peggiore di tutti, peggiore in quanto chiuso in un impenetrabile mondo di canzoni dai testi sconclusionati. Foffo Sabatini, quarantacinque anni d'età, altezza un metro e sessanta, la barba lunghissima come a compensare l'assenza di capelli sul cranio, i pochi rimasti lunghissimi. Ma a un menestrello pazzo può interessare qualcosa di farsi crescere la barba per opporsi alla calvizie? In effetti no, un matto non ha bisogno di curare il proprio aspetto.

«Come stai oggi, Foffo?»

«E Aristofeleeeee, testa di zucca, a coprire le spalleeee cadentiiiii...»

Alla fine la voce non è nemmeno male, ricorda un po' De Gregori. Se solo fosse intonato...

«La tua preferita. Me la canti sempre...»

«E un sorso di whisky per contemplare le sultaneeeee...»

«Stai bene anche oggi, presumo.»

«Le sottaneeeeeee...»

«Che ugola d'oro.»

«Le sottaneeeeee delle sultaneeeeee...»

Foffo si esibisce in un acuto assai lungo.

«eeeeeeeeeeeee...»

Molto lungo.

«eeeeeeeeeeeee...»

Troppo lungo.

«eeeeeeeeeeeee...»

«EBBASTACONQUESTALAGNA!»

L'acuto si interrompe così come l'imperturbabilità di Foffo.

«Fai schifo! Non sai cantare e i tuoi testi sono una roba tremenda! Ti strapperei le corde vocali, poi i peli della barba, poi quel dannato cervello così che tu non possa mai più produrre qualcosa anche solo somigliante a quelle schifosissime canzoni da malato mentale!»

Silenzio e occhiate intense tra i due.

«In effetti, dottore, ha ragione lei. Credo che dovrei ispirarmi a qualche cantante più leggero, tipo Zarrillo. Mi metto subito a scrivere e ad allenarmi nell'intonazione. La prossima volta vedrà un nuovo artista!»

Foffo si dirige verso la porta e la apre ma prima di uscire si volta, ha qualcosa da dire.

«Grazie, dottore.»

Sorride e se ne va.

Un altro paziente contraddetto e apparentemente guarito.

Nessun pensiero rivolto a sua moglie e a quella giornata infausta.

Leonardo Fresconi comincia a prenderci gusto.

Quarto paziente: Mario Scalzi

«La mia mamma me ne dava tante da piccino, ogni tanto me ne dà ancora. La mia mamma è una bestia.»

«Mario, tua madre è morta da dieci anni.»

«Ah... Grazie, dottore!»

«Il prossimo!»

Quinto paziente: Gigi Costa

«Io sono un uomo felice in un mondo libero.»

«No, sei un malato chiuso in un manicomio.»

«Ah. Grazie, dottore!»

«Il prossimo!»

Sesta paziente: Rosanna Buti

«Non mi perdo mai un concerto dei Pooh!»

«I Pooh fanno schifo!»

«Grazie dottore!»

«Il prossimo!»

Settimo paziente: Carlo Meli

«Io ho paura delle suore con le calze!»

«A me arrapano un casino!»

«Però, in effetti... Grazie dottore!»

«Il prossimo!»

E così via, paziente dopo paziente, la cura della contraddizione pare funzionare sia sui degenti che sul dottore il quale, alla fine del giro di visite, non pensa più alla moglie né ai problemi lasciati nella sua dimora. Adesso è fiero del suo operato ed eccitato cammina in tondo all'interno dell'asettica saletta pensando ai successi professionali che otterrà grazie alla sua scoperta.

Contraddire i matti. Chi mai ci avrebbe pensato?

Afferra cartelle cliniche e quaderno ed esce in corridoio, un'infermiera gli taglia la strada.

«Infermiera, potrebbe gentilmente...»

«Dica, dottore?»

Leonardo rimane a bocca aperta: non è un'infermiera ma la paziente Rosanna Buti vestita come tale.

«Sì, dottore?»

«Ma Rosanna, che ci fai vestita così? Non puoi prendere i vestiti alle infermiere!»

«Lei ha sempre voglia di scherzare.»

Alza i tacchi e se ne va lasciandolo interdetto in mezzo al corridoio. Non può accettare una cosa simile, non è che una volta guariti i pazienti possono mettersi a giocare a dottori e infermiere, che diamine. Va nella direzione opposta verso l'area relax, sicuro di trovarvi qualcuno del personale e difatti non sbaglia, due infermieri stanno discorrendo davanti alla macchina del caffè.

«Mi spiegate perché la Buti va in giro vestita da...»

Si blocca appena i due si voltano: sono Carlo Meli e Gigi Costa.

«Dica, dottore?»

«Che? Anche voi?»

«Anche noi cosa?»

«Non potete andare in giro vestiti come il personale! Dove avete preso questi indumenti?»

«Ma che dice, dottore? - domanda Meli, poi Costa risponde al quesito del responsabile del centro - noi lavoriamo qui.»

«Voi non lavorate qui! Voi siete pazienti e dovete tornare nelle vostre stanze!»

«Si calmi, dottore...»

«Sono calmissimo io!»

«Che succede qua?»

Leonardo si gira e scorge il camice di un collega ma a indossarlo è Marzio Levanti, la barba curata e un paio di occhialini sul naso a dargli un'aria seria e degna di rispetto. Tiene delle cartelle cliniche sulla mano sinistra, le cui unghie sono rosa e non più nere come apparivano solo un'oretta prima.

«Che diavolo fai tu col camice?»

«Leonardo, è il mio turno. Sarebbe strano se non lo avessi.»

«Il tuo turno cosa? Tu non sei un dottore!»

«La targhetta dice il contrario.»

Con la mano destra Marzio Levanti ticchetta il cartellino attaccato al petto, sul quale tra foto e nome vi è, in effetti, riportata la scritta "Dott.".

«Tu sei il dottore di una bella mazza! Togliti quest'affare dal petto!»

Leonardo strappa la targhetta dal camice dell'ex-paziente e gli sbatte le cartelle cliniche in faccia con violenza, Meli e Costa lo abbrancano allora da dietro mentre Levanti chiama un'infermiera ordinandole di portare del sedativo. Leonardo si agita e urla ma ogni suo sforzo di liberarsi è vano, scorge una gargantuesca figura avvicinarsi dal fondo del corridoio: si tratta di Giovanna Paciocchi, tra le sue grosse dita tiene una siringa il cui contenuto finisce iniettato nel corpo di Fresconi.

La vista si annebbia, attorno tutto ruota e i sensi se ne vanno...

Ultimo paziente: Leonardo Fresconi

Le stanze di degenza dell'ospedale psichiatrico Gervasio Magnotta sono tutte obbrobriose. Arredate solo da un letto e un comodino, hanno pareti bianche crepate dove vi sia ancora presente intonaco, in alternativa i mattoni del secolo scorso sono in bella vista.

Il paziente che occupava la stanza in cui è rinchiuso Leonardo, una notte si era impadronito di un pennarello e adesso le mura sono tutte adornate da incomprensibili scritte simili a geroglifici e squallidi disegni, ricordanti le pitture rupestri degli uomini primitivi. Leonardo è fortunato: quanto meno, può intrattenersi godendo di quella forma d'arte pazzoide.

Tuttavia i suoi sensi annebbiati dal torpore adesso stanno esplodendo in un impeto di paura e allarme, la necessità di scoprire perché è lì dentro e soprattutto come uscirne, gli rende impossibile concentrarsi sui graffiti.

Fortunatamente, la porta si apre.

Sfortunatamente, a entrare è il neodottore Marzio Levanti.

«Come sta il nostro paziente?»

«Paziente un accidenti, togliti subito quel camice!»

Leonardo tenta di alzarsi ma lo sforzo è vano, il dottor Levanti scrive su una cartella clinica.

«Sì Leonardo, dopo me lo tolgo. Vedo che sei ancora sotto l'effetto del sedativo.»

«Zitto, pazzoide! Dammi subito quel camice! Tu non fai parte del personale medico!»

«Certo, Leonardo, certo.»

«Smetti di assecondarmi e dammi quel camice!»

«Certo Leonardo, smetterò di assecondarti. Del resto è questa la prassi, i matti vanno contraddetti affinché recuperino il nesso, il senso logico delle cose, il tassello mancante nel mosaico della loro misera esistenza. La follia è una malattia da debellare, non certo la cura a una sofferenza quotidiana chiamata vita. Per questo esiste il manicomio, pardon, il Centro di Igiene Mentale. L'anticamera che si affaccia su una reintegrazione alla vita sociale. Uscirai di qui, Leonardo, ti serve solo la chiave.»

«La chiave?»

«Sarà la notte a donarti la chiave, Leonardo. Solo la notte ha la chiave, per questo noi medici sconsigliamo di dormire al pomeriggio. La luce solare non dà buoni sogni, solo la luna sa cullare le menti in disordine.»

E se ne va, una volta uscito lo si sente discorrere con l'infermiere Foffo Sabatini, incaricato di fare la guardia oltre la porta, compito cui comincia subito ad adempiere cantando.

«Cinque giorni che ti ho perso, quanto freddo in questa vitaaaa...»

Chiave? Notte? Sogni? Leonardo si domanda di cosa stesse parlando quel pazzo improvvisatosi medico, fino a quando non recupera le facoltà motorie. Tenta di forzare la porta, urla, ma le uniche risposte sono le stonature dell'infermiere Sabatini.

«Una rosaaaaa bluuuuu, che non va più viaaaaaa...»

Dopo svariati tentativi è colto da un grande sconforto e si getta sul letto, nessuna via di fuga da quella orrida stanza e da quel canto straziante... L'unica via di fuga è lasciarsi andare al sonno, cullato dai flebili raggi lunari che, fendendo i nuvoloni là fuori, riescono a penetrare attraverso la finestra...

Si trova a casa sua, in cucina.

I suoi figli sono seduti a tavola, testimoni di una triste lite familiare; sua moglie gli punta il dito contro e poi gli indica la porta urlandogli di uscire. Lui esegue.

Una mano sulla spalla, si volta, sua moglie gli porge qualcosa: una fune.

«Voglio che ti ci impicchi, brutto schifoso!»

Leonardo si sveglia, è sul letto nella stanza del Centro di Igiene Mentale.

Tasta qualcosa sotto il cuscino. Si tratta di una fune.

Cosa farne gli balza in testa d'istinto: dopo averla legata alle sbarre della finestra la appende al soffitto facendo gioco con il lampadario, poi sposta il comodino e ci sale sopra. Con la corda annoda un cappio e vi infila il collo.

Sta per fare un salto in avanti, pochi secondi lo separano dalla morte per asfissia, lo slancio infatti sarebbe troppo esiguo per causare la rottura dell'osso del collo come di norma avviene nelle impiccagioni. Ci pensa un attimo... Vale davvero la pena di uccidersi?

«Sono l'elefante e noooooon ci passoooooo...»

Decide di saltare.



* * *




Si sveglia di soprassalto e la testa cozza contro il tetto della sua autovettura; Leonardo è stupito di trovarsi sdraiato sul sedile posteriore del suo mezzo. Si slancia in avanti per guardarsi allo specchietto: le occhiaie gli conferiscono l'aspetto di un uomo che ha dormito scomodamente per un intero pomeriggio.

Controlla l'orologio. È sbalordito quando vede l'ora, ma soprattutto la data.

Accende l'auto e parte a tutta velocità.

Giunto a destinazione, parcheggia e scende di corsa, non curandosi nemmeno di chiudere lo sportello.

Apre il portone, sale le scale tre gradini per volta.

Arriva all'uscio di casa, impreca cercando la chiave giusta nel mazzo, finalmente ci riesce e apre la porta.

«ANNA!»

Una testa emerge dal divano, gli occhi sbarrati della moglie lo fissano.

«Anna, amore, sono qui per implorare il tuo perdono! Ho sbagliato, non ti meriti ciò che ti ho fatto! Io non merito te! Ti prego, perdonami! Non posso vivere senza di te, senza la mia famiglia! Siete tutta la mia vita! Non potrei mai vivere una vita senza di voi, non posso perdervi e tornare al lavoro... Senza di voi, come potrei indossare di nuovo quel camice?»

Afferra il suo camice, poggiato su una sedia lì accanto, lo indica con un gesto plateale.

«Questo camice...»

Legge il nome sulla targhetta attaccata al taschino. Non è il suo.

Dal divano emerge un'altra testa, con la pelle raggrinzita e una lunga barba bianca.

«Il Fresconi s'è impiccato, non ce la faceva più a patire così.» 

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