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Capitolo XXV

Undici anni prima - Mosca

Dimitri sente le dita di Lora che picchiettano sulla tastiera del computer portatile, seduta con le gambe incrociate sul tappeto persiano steso sul pavimento della palestra. Infastidito dal rumore che gli fa perdere il conto delle flessioni che sta facendo, si alza in piedi e guarda sua sorella, concentrata sullo schermo.

<< Credo che fossi arrivato a centodiciassette... >> mormora Lora, prima di alzare gli occhi su di lui.

Dimitri arriccia il labbro, un rivolo di sudore che gli scende lungo la nuca.

<< Lo so >> borbotta, << Cosa diamine stai facendo? >>.

Lora sorride, con quella faccia che usa quando vuole ottenere qualcosa, e che la fa assomigliare a una bimba di sei anni. Gira il computer verso di lui e gli mostra quello che c'è sullo schermo.

Un cane.

Sta guardando la foto di un cane dal pelo color crema, che Dimitri identifica immediatamente come un Golden Retriever. Femmina, a giudicare dal collare rosa.

<< Ne prendiamo uno? >> domanda Lora, mentre le si formano due fossette sulle guance.

Dimitri non risponde. Fissa il cane per qualche istante, valutando quanto un cane di quella razza possa essere utile. Nel giro di un paio di secondi conclude che le possibilità sono pari a zero.

<< Perché vuoi un cane? >> domanda.

Lora torna a girare il computer verso di lei.

<< Mi farebbe compagnia, no? E poi mi piacerebbe occuparmi di lui >> risponde, seria, segno che ci ha pensato già un po', << Papà ha detto che va bene >>.

Dimitri sbuffa e mette da parte l'asciugamano. Sinceramente avere o no un cane non gli cambia la vita, ma se per Lora è importante è disposto a perdere un po' del suo tempo, anche se ultimamente ne ha davvero molto poco da dedicarle. La storia di Vladimir Buinov sta rendendo tutto più difficile, negli ultimi mesi.

Si siede di fianco a sua sorella e aspetta che lei finisca di digitare sulla tastiera.

<< Ti serve proprio un Golden Retriever? >> domanda.

Lora lo guarda con la coda dell'occhio.

<< Non mi serve >> gli fa il verso, << Dafne ne ha uno, ed è molto affettuoso e abbaia poco. Mi piace. Tu cosa vorresti? >>.

Dimitri ci pensa un momento; per lei sembra essere sempre tutto molto semplice.

Forse, vista la situazione, sarebbe adatto un cane in grado di difendere sua sorella in caso di bisogno; magari un dobermann, o un pitbull. Una bestia forte, decisa.

<< Pensavo un cane da difesa >> risponde.

Lora lo guarda per un secondo.

<< A cosa mi serve un cane da difesa? >>.

<< A difenderti, tonta >>.

Lora ridacchia. Digita sulla tastiera cane da difesa e sullo schermo appaiono tante foto di rottweiler, dobermann, pitbull. Sua sorella li guarda tutti uno a uno, finché non si sofferma su uno in particolare.

<< Non mi piacciono >> sentenzia, << Sembrano un po'... cattivi. Però questo... >>.

Gli indica un cane con il muso schiacciato, simile a un bulldog, solo molto più grosso e agile, dal pelo fulvo.

<< Un mastino? >> domanda Dimitri.

Lora annuisce.

<< Sì, è carino >>. Lo guarda un secondo, poi aggiunge: << Ti somiglia, sai? Ha la tua stessa brutta faccia arrabbiata >>.

Dimitri inarca un sopracciglio, prima di sbuffare.

<< Non stavo scherzando, quando dicevo un cane da guardia >> dice.

Lora gli tira una pacca sulla spalla, mentre Dimitri si rialza per tornare ad allenarsi. Lo sta prendendo di nuovo in giro, ma lui è troppo nervoso per stare al gioco.

<< Ci sei già tu come cane da guardia, Dim >> commenta Lora, ridacchiando.

Dimitri scuote il capo. Sa già che Lora otterrà il suo Golden Retriever, perché quando lei vuole qualcosa il primo a procurarglielo è proprio lui.

Quello che non sa è che nemmeno un mastino come lui sarà in grado di proteggerla dal destino che è stato scritto per lei.



Ore 10.00 – Managua, Nicaragua

Irina si svegliò con la gola secca e il collo anchilosato, nonostante trovasse il cuscino sotto la sua testa particolarmente morbido. Forse però nella sua condizione avrebbe trovato morbida anche una pietra, molto probabilmente.

Si girò su un fianco, le lenzuola ruvide che le strusciarono sulla pelle delle gambe, e cercò con tutte le forze di aprire gli occhi. Fu difficile, perché nonostante le dieci ore di sonno sulle spalle, avrebbe voluto dormire ancora un po'.

La stanza d'hotel che aveva affittato era piccola, buia e con gli arredamenti molti vecchi. Le persiane erano in parte rotte, e la luce solare filtrava tra gli spiragli, disegnando lame polverose sul pavimento. La vernice color crema alle pareti si stava scrostando, e l'aria sapeva di stantio, ma non poteva lamentarsi. Era un hotel sperduto nella periferia di Managua, e stanca come era la sera prima, non aveva badato a dove fermarsi. In più era un posto dove nessuno sarebbe mai venuto a cercarla.

Sei giorni. Era in viaggio da sei lunghissimi giorni, che a lei le sembravano settimane. I primi due giorni erano andati piuttosto bene, ma dopo tremila chilometri aveva iniziato a sentire la fatica. Per non dare troppo nell'occhio aveva mantenuto una velocità vicina a quella del codice stradale, ma ore e ore di guida al volante della Ferrari, per quanto veloce, erano faticose e scomode. Non era un'auto fatta per i viaggi, lo scoprì ben presto a sue spese.

Si era fermata a dormire dove capitava, anche per strada, ma la sera prima era tanto stanca e sfiduciata da aver desiderato un letto vero e un po' di riposo, anche a costo di perdere tempo prezioso.

Quel viaggio sembrava infinito, e lei era solo a metà. Doveva ancora attraversare la Costa Rica, Panama e la Colombia, e non aveva idea se ce l'avrebbe fatta o meno. Ora come ora, l'idea di rimettersi al volante le dava la nausea.

"Sta' calma, Irina, sta' calma... E' solo asfalto, ricordatelo; è solo asfalto".

Era difficile non farsi prendere dal panico, in quel momento. Era lontana migliaia di chilometri da casa, da sola, in un posto pericoloso e che non conosceva. Poteva succedere qualsiasi cosa, in qualsiasi momento, e la sua vita spericolata poteva finire.

Era diverso da Los Angeles, perché lì conosceva i modi, i luoghi e le persone. Qui era isolata.

Isolata.

"Che cosa stai facendo?".

Per un attimo, il cuore di Irina accelerò i battiti, e lei si ritrovò paralizzata sotto le lenzuola, gli occhi che si spostavano in ogni angolo della stanza, e un enorme, gelido peso nello stomaco. Persino il respirò sembrò rimanerle bloccato nella cassa toracica.

Qualcosa nella sua testa improvvisamente smise di funzionare come doveva.

Era sola.

Poi, fu panico.

Irina perse il controllo del respiro e dei battiti cardiaci; si rese conto di non riconoscere nulla di quello che aveva intorno, nulla di quello che vedeva dalla finestra, nulla di quello che sentiva con le orecchie. Improvvisamente, smise anche di sapere dove si trovava e che cosa stava facendo.

I suoi occhi vagarono nella stanza, alla ricerca di qualcosa di conosciuto, ma quando non trovò nulla sentì i battiti del suo cuore accelerare ancora. Si sentì quasi soffocare, mentre cercava di muoversi.

Che cosa ci faceva lì?

Cosa stava facendo?

Dov'era?

Il suo cervello ingolfato però ritrovò un secondo di lucidità, perché Irina si rese conto di essere in preda a una vera e propria crisi di panico, la prima in tutta la sua vita.

L'unica cosa che le rimbombava dentro la testa era una parola.

Sola.

Sola.

Sola.

Sola.

<< Calma... >> mormorò a se stessa, << Calma... Calma... >>.

Deglutì, cercando di respirare profondamente, anche se il fiato le si bloccava nei polmoni. Deglutì ancora, stringendo le lenzuola con le mani, e costringendo i suoi polmoni a ricevere l'aria che ingoiava.

Sola.

Sola.

Sola.

Sola.

"Sono Irina Dwight. Mi chiamano Fenice. Sono Irina Dwight. Mi chiamano Fenice".

"Sono Irina Dwight. Mi chiamano Fenice. Sono Irina Dwight. Mi chiamano Fenice".

"Sono Irina Dwight. Mi chiamano Fenice. Sono Irina Dwight. Mi chiamano Fenice".

Era un mantra, l'unico mantra che riusciva a coprire la voce che gridava "sola" dentro la sua testa e che lei doveva assolutamente spegnere.

Funzionò, anche le sembrò di rimanere così per ore.

Lentamente, il cuore riprese i suoi battiti normali, e Irina capì di aver riacquistato un po' di controllo.

Rimase immobile per alcuni minuti, contando ogni respiro e cercando di focalizzarsi sulle sue mani aggrappate al lenzuolo. Non tremavano nemmeno, perché era completamente paralizzata.

Crisi di panico. Non aveva mai immaginato di poterne provare una.

Capì di non volerla sperimentare di nuovo.

Ricordò di nuovo dove si trovava, che cosa stava facendo e dove era diretta.

Tutto le tornò a essere chiaro, ma quel peso nello stomaco le rimase.

Lentamente si alzò dal letto, il collo che le faceva male e i piedi nudi sul pavimento.

"Avanti. In piedi, è ora di rimettersi in viaggio".

Si vestì in fretta e scese nella hall dell'hotel, trovando il vecchio della sera prima esattamente dove l'aveva lasciato. Era magro, con il naso aquilino, i capelli a caschetto dall'aria unta. Irina gli allungò le chiavi della stanza, che lui afferrò malamente, poi appoggiò una banconota da cento dollari sul bancone, anche se aveva saldato la stanza la sera prima.

<< Come promesso >> disse solo.

Lasciò l'albergo e decise di fare colazione in qualche bar nei dintorni, ma scoprì di volersene andare il prima possibile.

Irina non era abituata al quel genere di città; persino il quartiere di Santa Monica, non certo il più ricco di Los Angeles, in confronto era rispettabile.

Il Nicaragua era un paese povero, e lei se ne rendeva conto a ogni angolo della strada: Managua era piena di mendicanti e bambini scalzi che correvano per i vicoli, in cerca di cibo ma molto più probabilmente per tentare qualche furtarello. Sui marciapiedi sporchi si affacciavano negozi in rovina o con pochissima merce; i titolari sedevano sulle soglie, in attesa di un cliente che sembrava un miraggio.

Le case stesse erano vecchie, con le pareti scrostate e i muri pieni di scritte. Forse il centro della città era più curato, ma in fondo la periferia ne costituiva il novanta percento ed era impossibile negare che Managua non fosse un luogo disagiato. La criminalità era alle stelle, e lei lo notò dai tanti capannelli di persone che si ritrovavano vicini ai vicoli, le facce equivoche e gli occhi sospettosi.

Con la F12 gialla, Irina capì dal primo momento di non poter passare inosservata; decise di saltare la colazione e riprendere il viaggio per non rischiare inutilmente. Si diresse verso l'autostrada, gettando occhiate a destra e sinistra, pronta a qualsiasi tipo di attacco, ma non successe nulla.

Da quel momento in poi, sarebbe stato sempre peggio. Aveva davanti a se ancora almeno quattro giorni di viaggio, in un territorio sconosciuto e pericoloso.

Si ritrovò a desiderare di avere qualcuno al suo fianco, chiunque.

No, non chiunque.

Avrebbe avuto bisogno di qualcuno in grado di farla sentire più forte, di ricordarle di essere in grado di ottenere quello che voleva quando voleva. Qualcuno che al posto di compiangerla le avrebbe tirato uno schiaffo in faccia per costringerla a tirare fuori le palle, e che di fronte alla sua debolezza le avrebbe riso in faccia.

Non avrebbe mai potuto essere Xander, Irina lo capì in quello stesso istante. Lui non aveva mai tirato fuori nulla da lei, perché l'aveva sempre trattata come una bambola di cristallo; era per questo che tra loro aveva smesso di funzionare, nonostante l'amore incondizionato e profondo che avevano provato l'uno per l'altra.

"Perdonami, Xander".

L'unica persona al mondo che in quel momento Irina avrebbe voluto di fianco a se era distante migliaia di chilometri, forse in un paese gelido dell'Est Europa, e si chiamava Dimitri Goryalef. Con il suo brutto carattere, con le sue frecciatine e il suo modo di fare ruvido ma corretto, le avrebbe ricordato in ogni istante quello che era in grado di fare.

Ed era quello di cui aveva bisogno ora; forse era quello di cui aveva sempre avuto bisogno.





Ore 11.00 – Caracas, Venezuela

Dimitri Goryalef era già stato due volte a Caracas nella sua vita, in entrambi casi come compagno d'affari di William Challagher, e nonostante tutto quella città continuava a non piacergli. Non era mai piaciuta nemmeno allo Scorpione, in realtà.

Era povera, e le colline coperte di baraccopoli che la circondavano facevano a pugni con i ricchi palazzi del centro finanziario, gli stessi che lui ora vedeva dalla finestra del suo albergo. La maggior parte della popolazione viveva ai bordi della città e campava di espedienti, perché la forbice sociale era estremamente aperta. Diversamente da Los Angeles, dove il ceto medio era quello più diffuso, qui c'erano pochissimi ricchi e moltissimi poveri, poveri che per vivere si trasformavano in criminali. Vedere benestanti uomini d'affari muoversi per le vie con una scorta armata non era per niente inusuale.

Non era tutto questo a infastidire Dimitri. Quello che non gli piaceva era la totale e completa assenza di regole nel mondo criminale che permeava Caracas.

Era abituato alla Russia, dove per lo meno vigeva un finto e falsamente rispettato codice, e a Los Angeles, dove era soprattutto il denaro a farla da padrone. A Caracas, invece, c'era solo la violenza. Una violenza senza alcun limite, a volte anche senza senso, con il solo scopo di prevaricare. Non c'era rispetto per donne e bambini, non c'era rispetto per anziani e indifesi; o sapevi combattere o finivi sull'ultimo gradino della scala criminale.

L'economia nera di Caracas si basava soprattutto sullo spaccio di droga in grandissime quantità. Era una sorta di magazzino all'ingrosso per chi voleva rifornirsi di merce a basso e medio costo. I produttori, a volte insospettabili uomini d'affari, incontravano i propri clienti nelle campagne intorno alla città, più tranquille e discrete, direttamente nel campo dove la droga veniva coltivata. I prezzi erano buoni e la qualità abbastanza elevata.

L'unico problema era portare la droga da Caracas fino in California, o comunque nell'America Settentrionale: anche se molta della polizia era corrotta, qualche controllo c'era sempre, soprattutto quando viaggiavano grandi quantitativi di merce. Challagher aveva risolto il problema dedicando uno dei suoi jet privati a quello scopo, ma Dimitri sapeva che c'erano "corridoi" di trasporto che passavano attraverso tutta l'America Latina e che terminavano in Arizona.

Da quello che aveva potuto capire, Velasquez e il suo capo avevano cercato di reclutare piloti per la loro banda di corrieri e riuscire così a trasportare la droga più velocemente. Molto probabilmente, avevano accesso ai "famosi" e leggendari tunnel sotto il deserto del Messico, dove le auto cariche di droga correvano indisturbate.

In cinque giorni, Dimitri non aveva incontrato nessuno di quei signori della droga, ma non aveva nemmeno chiesto di farlo. Aveva semplicemente seguito le istruzioni di Velasquez: raggiungi Caracas e aspetta.

Attere era una cosa che sapeva fare bene, ma che non gli piaceva di sicuro, però gli aveva dato modo di pensare e ragionare.

Irina era stata tenuta all'oscuro per mesi del motivo della morte di Went, ed era stato proprio McDonall a volerlo, e lui era certo che non si trattasse di compassione nei confronti della ragazza. In più, le aveva negato la possibilità di entrare nell'F.B.I. per occuparsi di persona della cosa. Molto probabilmente Went era stato ammazzato perché si era avvicinato troppo al capo di Velasquez.

Però non spiegava il fatto che McDonall fosse stato in silenzio.

Lo conosceva troppo poco per poter capire cosa era passato nella testa di quell'uomo, però era sempre stato il primo a credere in Fenice e voltarle le spalle era qualcosa di inaspettato. Molto probabilmente Irina si era arrabbiata per quel motivo, e per quel motivo era tornata in strada.

Era inutile, il suo destino era quello di rimanere una pilota clandestina, anche se a metà.

Poi, c'era quella questione, quella di voler distruggere Fenice in tutte le sue forme, che aveva il sapore di una vendetta personale, ma per cosa?

Per la Black List?

No. Era incredibile, ma quasi nessuno ricordava che era stata proprio Irina a decretarne la fine; era come se tutti sorvolassero sul fatto che Fenice avesse lasciato che uno sbirro si infiltrasse tra i piloti di Challagher e lo facesse arrestare. Persino Dimitri non lo ricordava più, ma solo perché era Irina, il fulcro di quella storia, e Irina era in grado di fare qualsiasi cosa, persino farsi amare dai nemici.

C'era qualcosa di diverso sotto, e sicuramente l'avrebbe scoperto solo quando finalmente avrebbe incontrato il capo di Velasquez.

Era solo questione di tempo, prima di avere davanti quello che voleva fargli credere di essere interessato a collaborare con lui, e a quel punto Dimitri avrebbe giocato tutte le carte che aveva in mano, anche se erano molte poche. Chiunque era contro Fenice, era anche contro di lui, per principio. Indipendentemente da ogni altra cosa, indipendentemente dai sentimenti o meno.

Emilian e Ivan lo avevano seguito per quel motivo: Irina era una di loro, punto e basta.

Negli anni, la famiglia Goryalef si era macchiata di tanti crimini, forse Dimitri più di tutti, ma non si poteva dire che non avessero mai dato valore alle persone. Chiunque si era imbattuto nei Goryalef e aveva avuto bisogno di aiuto, se meritevole, era stato aiutato. Erano criminali, ma la loro etica era innegabile, e di questo Dimitri era sempre stato orgoglioso.

Si sedette sul divano di pelle nera e accese la tv, anche se non capiva l'argentino e odiava il loro modo troppo rapido di parlare. Chiamò Vilena, per chiederle se a Los Angeles fosse tutto a posto, e Yana insistette nel voler parlare con lui.

<< Dove sei, zio? >>.

<< Lontano da casa >> rispose Dimitri, evasivo, << Sto cercando Irina, lo sai >>.

<< Quando la trovi le dici una cosa? >> domandò la bambina.

<< Cosa? >>.

<< Deve insegnarmi a fare un'altra torta, per favore >> rispose Yana.

Chissà cosa c'era nella testa di quella bambina... Dimitri le disse che lo avrebbe fatto, prima di chiudere la telefonata e guardare fuori dalla finestra, teso.

In quel momento, Fenice era da qualche parte a bordo di una Ferrari gialla diretta verso la città più pericolosa del mondo, e lui non aveva ancora la situazione sotto controllo. 




Ore 17.00 – Venezuela, Caracas

Quando Irina consegnò il denaro al casellante e la sbarra a strisce bianche e rosse calata davanti a lei venne alzata, qualcosa di enormemente pesante le si sciolse nello stomaco, e persino le spalle anchilosate smisero di farle male.

Perché era arrivata.

Dopo undici giorni di viaggio, ottomila chilometri e migliaia di litri di carburante consumati, finalmente vedeva il profilo di Caracas all'orizzonte.

Alla fine era stato davvero solo asfalto.

La Ferrari F12 gialla si diresse verso la città, il casellante che la guardava stupito, e il cuore di Irina che batteva sempre più forte.

Caracas si stagliava con i suoi grattacieli del centro davanti ai suoi occhi, completamente attorniati da edifici vecchi e malconci. Sullo sfondo, aggrappate alle colline, vedeva i barrios, i quartieri più poveri.

Irina non ci mise molto a capire che quella non era Los Angeles; la forbice tra ricchi e poveri era troppo ampia per non essere notata. Si sentì osservata dal primo istante in cui le ruote della Ferrari toccarono l'asfalto della città.

Avrebbe voluto affittare una stanza extra lusso, farsi un bagno di due ore dentro una vasca piena di bagnoschiuma profumato e farsi servire una cena molto abbondante nel ristorante dell'hotel, ma sapeva di non poter dare troppo nell'occhio. Già la sua auto non l'avrebbe aiutata.

A malincuore si diresse verso la zona meno ricca della città, tra gli autobus di linea e le vecchie utilitarie grigie, mentre si assuefaceva al nuovo clima. Faceva molto più caldo che a Los Angeles, e la gente, nonostante fosse dicembre, andava in giro con semplici giacchine leggere.

Trovò un albergo nella zona popolare, di nome Hermana, un edificio non troppo alto, dalle pareti esterne azzurre vecchie ma ben tenute. Le finestre delle stanze si aprivano sulla strada, e nel retro doveva esserci un piccolo parcheggio che avrebbe fatto al caso suo. Sperava fosse un posto discreto e non troppo costoso.

Parcheggiò la Ferrari sul vialetto di accesso, per non lasciarla in mezzo alla strada sotto gli occhi di tutti, ed entrò nell'hotel.

Alla reception trovò una donna che sembrava avere almeno settant'anni, a giudicare dal fittissimo reticolo di rughe che le solcavano il viso. Aveva capelli corti di un bianco lattiginoso, carnagione scura, e indossava un grembiule a righe azzurre e blu. Teneva la televisione accesa su una telenovela, dove i protagonisti parlavano una lingua velocissima e incomprensibile, e non la sentì nemmeno entrare.

Irina osservò la signora per qualche istante, poi si avvicinò al bancone e si schiarì la voce. Finalmente la donna si accorse di lei e la guardò con gli occhi spalancati e sorpresi. Improvvisamente Irina si ricordò che non parlava una parola di spagnolo.

<< Buonasera... >> disse, sperando che la capisse.

La donna la mise a fuoco per qualche istante, quasi la stesse esaminando.

<< Signorina, cosa ci fa qui? >> domandò con voce stridula, ma in un inglese decisamente buono.

Presa in contropiede, Irina si grattò la testa.

<< Vorrei una stanza, per favore >> rispose.

La vecchina inforcò un paio di occhiali enormi e la guardò di nuovo, facendo uno strano movimento con le labbra.

<< Una stanza? Ma ne è sicura? >> domandò, come se non credesse alle sue orecchie.

<< Sì... Ne ha una libera? >> rispose Irina, più perplessa di lei.

<< Certo che ne ho una libera, signorina >> rispose la donna, << Ma non è che lei è una signorina di strada? Non ha tanto la faccia da... >>.

Per un momento, Irina trovò surreale quella situazione. Aveva fatto ottomila chilometri in auto come pilota clandestina, e ora trovava una vecchietta che la chiamava... prostituta.

<< No no no >> si affrettò a rispondere, imbarazzata, << Sono sola, e mi serve una camera per qualche giorno >>.

Avrebbe tanto voluto dire "E sono una persona rispettabile, una poliziotta", ma non era vero, quindi rimase in silenzio di fronte a quella strana vecchina che parlava perfettamente inglese.

<< No, perché abbiamo tariffe diverse, sa? >> rispose la donna, tranquillamente. Tirò fuori un taccuino tutto rovinato e lo aprì: sembrava un listino prezzi.

Perplessa, Irina si chiese cosa significasse quello che aveva appena detto la donna, ma lei scorse il suo quadernetto, gli occhiali ben incollati al viso.

<< Non si può portare droga qui dentro, lo sa, vero? >> disse.

<< Non ho droga con me >>.

<< E non si mangia con le armi in tasca >> aggiunse la donna.

<< Ehm... Ok >> disse Irina.

Qualcosa non andava, e lei capì di essere capitata in un albergo piuttosto strano; o forse era la donna a essere strana.

La vecchia si sporse dal bancone, guardandola più da vicino.

<< Che mestiere fa, signorina? >> domandò, << Perché lei ha la faccia da ricettatrice... >>.

Irina la fissò con gli occhi spalancati, senza capire. Dove diamine era capitata? In un albergo per criminali?

<< No, signora, non faccio la ricettatrice... >> rispose. Se non fosse stata una signora di una certa età, l'avrebbe mandata al diavolo.

<< Allora è proprio sicura di non fare la signorina di strada? Ha un bel faccino... >> continuò la donna.

Irina alzò gli occhi al cielo.

<< Sono una pilota clandestina >> buttò lì alla fine, per convincere la signora di non essere una prostituta.

La vecchia sembrò soddisfatta dalla risposta. Tornò a sedersi e controllò sul suo quaderno.

<< Ho la stanza 32, al terzo piano >> rispose, << Una singola >>. Sottolineò, e la guardò da sopra gli occhiali.

<< Va bene. Non so quanto mi fermerò, però >> disse Irina.

La donna annuì.

<< Qui nessuno sa mai quanto si ferma >> rispose, uscendo da dietro la scrivania, rivelandosi non più alta di un metro e cinquanta, << E' sua quella cosa gialla la fuori? >>.

Cosa gialla?

<< L'auto? Sì, è mia >>.

<< La metta dietro, per favore. C'è un telo per coprirla >>.

Perplessa, Irina spostò la F12 sul retro, dove si apriva uno spiazzo abbastanza ampio da farci stare quattro auto. Lasciò la Ferrari in fondo, dove in effetti trovò un grande lenzuolo nero; la coprì, accertandosi che non fosse riconoscibile, e tornò nell'albergo.

La signora aveva ripreso a guardare la sua telenovela, ma questa volta la sentì entrare.

<< Come si chiama? >> le chiese, senza però accennare a volere un documento di identità.

Irina trovò sospetta quella cosa, ma decise di approfittare dell'ingenuità della donna.

<< Dina Black >> rispose.

La vecchia si voltò a guardarla.

<< Il suo nome vero, per favore >> sbuffò.

Per un'istante, Irina pensò di girare i tacchi e andarsene, perché quell'hotel e quella signora erano completamente fuori da ogni schema mentale a cui lei si era preparata. Però qualcosa le disse che era nel posto giusto, almeno stavolta. E comunque, se era ricercata anche da quelle parti, la sua faccia doveva essere stata appesa a qualche manifesto in giro per la città con una bella taglia sopra, perciò un nome finto avrebbe funzionato molto poco.

<< Irina Dwight >> rispose.

La donna non diede segno di riconoscere in qualche modo il suo nome, o forse fece finta, perché Irina concluse che fosse molto furba. Lo scrisse sul suo foglietto, e le fece cenno di prendere le scale. Con una sorprendente agilità per una donna minuta e anziana come quella, salì i gradini e la portò alla sua camera.

<< Mi chiamo Enrica Furte Mendoza >> disse la signora all'improvviso, << Ma la gente che viene abitualmente qui mi chiama Nene. Alcuni nonna Nene, anche se mi fa sentire vecchia >>.

Irina annuì, e la donna aprì la porta della sua stanza. Era arredata all'antica, con i mobili in legno laccato e il letto con la testata elaborata, e i tessuti in colore pastello che trasmisero a Irina una stranissima calma. Sembrava un posto antico, rimasto indietro di cinquant'anni, ed era ancora più singolare perché si trovava nel bel mezzo di una città dell'America Latina famosa solo per la criminalità-

<< Va bene, signorina? >> domandò Nene.

Irina annuì. Era piccola ma accogliente, e non poteva chiedere di meglio, dopo giorni passati in mezzo alla strada.

<< Sì, la ringrazio >>.

Nene mosse il capo.

<< Lei è la prima pilota clandestina che mi capita qui >> disse, << Sa? >>.

<< Mi scusi se glielo chiedo, ma che genere di clientela ha il suo albergo? >> chiese Irina, ed ebbe paura di sentire la risposta.

Nene inarcò un sopracciglio.

<< Oh, un po' di tutto. Borseggiatori, spacciatori, imbroglioni... Un po' di tutto >> rispose con noncuranza, << Ma non stupratori, quelli proprio no. Il mio albergo è aperto a tutti quelli che vogliono dormire in un letto morbido e mangiare un pasto caldo fatto in casa, basta che rispettino le mie regole. Comunque, qui dentro è molto più sicuro che la fuori, sa? >>.

Per qualche istante, Irina guardò quella strana vecchina, chiedendosi da dove fosse uscita e come avesse fatto lei a incontrarla. Però era troppo stanca per intavolare una discussione sul perché gestisse quell'hotel, così annuì in silenzio. La donna fece per uscire.

<< Servo la cena alle sette e mezza, signorina. Se lo ricorda? >>.

<< Sì, grazie >>.

Avrebbe voluto farsi una doccia e cambiarsi, ma ebbe solo la forza di sdraiarsi sul letto e addormentarsi a faccia in giù sul cuscino.

Quando riaprì gli occhi, l'orologio segnava le sei e dieci del mattino, e a giudicare dal fatto che il suo stomaco brontolava sonoramente doveva aver dimenticato che Nene serviva la cena alle sette e mezza. Si alzò e fece una lunga doccia sotto il getto caldo dell'acqua, trovando dei morbidi asciugamani ad accoglierla. Un'ora dopo si chiudeva la porta alle spalle e scendeva di sotto.

Attraversò i corridoi, circospetta, senza trovare nessuno. Uscì nel cortile per controllare che la Ferrari ci fosse ancora e respirò l'aria frizzante del mattino che le diede una scossa.

Era arrivata.

Era a Caracas.

<< Pensa di saltare anche la colazione, signorina? >>.

Irina sussultò quando sentì la voce di Nene alle sue spalle. Si voltò, trovando la signora con un nuovo grembiule a righe rosse e la stessa pettinatura del giorno prima.

<< Mi scusi, per ieri sera. Mi sono addormentata >> rispose Irina, << Una colazione la gradirei sicuramente >>.

Nene le fece cenno di entrare, e Irina la seguì in quella che sembrava una sala da pranzo molto grande, con sei tavoli da quattro posti disposti lungo le pareti. In fondo, una porta doveva condurre alla cucina, mentre in un angolo c'era un vecchio televisore spento. Era tutto arredato con un stile retrò, con i mobili in legno massiccio e le tovaglie a quadretti. L'insieme diede a Irina una strana sensazione che il tempo si fosse fermato a cinquant'anni prima.

<< Si sieda, signorina >> le disse Nene, << Stamattina ho del latte fresco che mi ha portato il fattorino e una crostata di mele. O preferisce bei biscotti caserecci? >>.

<< Una fetta di crostata va bene >> rispose Irina, leggermente in imbarazzo per la premura di quella donna.

Nene tornò cinque minuti dopo con un bricco di latte caldo, la crostata e i biscotti. Le porse una tazza di ceramica con dei fiori dipinti sopra e le versò il latte.

<< Ho pensato di portarle sia la torta sia i biscotti. Mi sembra un po' deperita, signorina >> commentò Nene.

Irina si lasciò scappare un sorriso.

<< La ringrazio. Può darmi del tu, se vuole >>.

La donna annuì e le augurò buona colazione, lasciandola sola. La crostata era deliziosa, e Irina assaggiò comunque qualche biscotto, scoprendo che erano davvero buoni.

Nene tornò quando ebbe finito per portare via la scodella, ma Irina la fermò prima che se ne andasse.

<< Posso farle una domanda, signora? >>.

<< Sì >>.

<< Che genere di albergo è questo? Mi ha risposto ieri, ma credo di non aver capito >>.

Nene sorrise, e le sue rughe sembrarono quasi attenuarsi.

<< E' un posto dove tutti possono dormire o mangiare, che il loro sia un lavoro onesto o meno >>.

Insomma, Irina era finita in un hotel per criminali gestito da una adorabile vecchietta che faceva ottime crostate di mele... C'era un limite alle assurdità che le capitavano?

<< Posso farti una domanda io, Irina? >>.

<< Penso di sì >>.

<< Da dove arrivi? >>.

Avrebbe dovuto mentire, ma Irina sentì di potersi fidare di quella donna. In fondo, aveva capito immediatamente che nascondeva qualcosa, e se avesse voluto farla catturare avrebbe potuto chiamare la polizia la sera prima, subito dopo che era crollata morta di sonno sul letto.

<< Los Angeles >> rispose.

<< E sei venuta con quel trabiccolo giallo? >>.

<< Sì. Glielo detto, sono una pilota clandestina >>.

Nene appoggiò le tazze sul tavolo, per guardarla meglio.

<< Dimmi un po', cosa fanno questi piloti clandestini? >>.

<< Fanno gare di auto nelle vie delle città e si spartiscono le vincite >> rispose Irina, con molta semplicità, << Usano auto potenti ed elaborate >>.

Nene non sembrava convinta.

<< Questi giovani... >> commentò alla fine, << Non sanno proprio cosa inventarsi, per tirare avanti... >>.

Riprese tazza e piatto e tornò verso la cucina, ciabattando. In quell'esatto istante un uomo grosso come un armadio, con una barba folta e nera e un tatuaggio proprio sotto l'occhio, a forma di croce, entrò nella saletta, un paio di scarponi ai piedi e una camicia sgualcita. Subito dopo lo seguì un ometto mingherlino, con spessi occhiali da vista e quasi senza capelli. Era vestito bene, con una camicia bianca e pantaloni di velluto scuro.

Quando la videro, i due inchiodarono e gli ultimi accenni di sonno che portavano sulla faccia sparirono. Irina guardò loro, sapendo benissimo che in base a ciò che aveva detto Nene dovevano essere due sue clienti... Criminali.

<< Buongiorno >> li salutò alla fine, sentendosi molto stupida.

Nessuno dei due rispose, molto probabilmente perché non avevano capito per via della lingua. Per fortuna Nene intervenne, un mestolo di legno in mano che sventolò con aria molto pericolosa. Disse qualcosa in spagnolo, e i due sembrarono finalmente realizzare cosa stesse succedendo.

<< Buenos dias... >> risposero entrambi, andandosi a sedere a tavola.

Irina rimase un momento ferma sulla soglia, notando i due che si erano voltati a guardarla di nascosto. Avrebbe voluto rimanere lì a cercare di capire in che tipo di posto era capitata, ma non aveva tempo da perdere e doveva mettersi immediatamente alla ricerca di Diego Forterra.

Per prima cosa tornò in camera sua e riorganizzò le risorse che aveva: nascose i soldi dentro le scarpe di ricambio e armò tutte le due pistole che si era portata dietro. Prese un po' di contante e un pezzo di carta e una penna, scrivendo sopra due sole parole "Diego Forterra".

C'era la questione della lingua: lei non parlava una parola di spagnolo, ma un nome non necessitava di alcuna traduzione, perciò era certa che quello fosse il problema minore.

Quello più grande, al momento, era capire da dove cominciare.

Non era mai stata a Caracas, non aveva punti di riferimento o nomi da spendere, escludendo Forterra.

Alla fine decise di adottare una linea molto più semplice.

Si sarebbe fatta trovare.

Si cambiò, legando i capelli nella coda alta di Fenice, e mise i soldi in uno zainetto. Nascose le pistole sotto la giacca e salì sulla F12 che dopo undici giorni di viaggio era ancora pronta a correre, nonostante tutta la polvere che la ricopriva rendendo la Black List sul cofano quasi illeggibile.

Quando uscì dal cortile dell'hotel intravide dalla finestra i due tizi di prima che la spiavano.

Per prima cosa, cercò un posto dove cambiare il denaro. Trovò un ufficio cambio nei pressi del centro cittadino, e scoprì immediatamente che cambiare cifre superiori ai mille dollari era un po' sospetto, vista l'occhiata della ragazza allo sportello. Ricevette in cambio circa quindicimila pesos argentini, che si nascose addosso, e uscì dall'ufficio, questa volta diretta nella zona disagiata della città. Prima però si fermò a un autolavaggio e diede una pulita alla Ferrari.

I barrios, così venivano chiamati i quartieri più poveri di Caracas, erano per la maggior parte situati nella zona collinare della città, e offrivano uno spettacolo desolante e triste, molto peggio di quanto Irina aveva immaginato.

Baracche fatiscenti si alternavano a case in rovina; le baracche non avevano le porte, erano coperte da tetti improvvisati di pannelli di lamiera e ovviamente non avevano alcuna finestra. Quelle messe peggio avevano le pareti di cartone. Le case, quelle nelle condizioni migliori, sembravano reggersi in piedi per miracolo divino, e alle finestre erano appesi i panni ad asciugare, che nonostante tutto il loro colore, non riuscivano a portare un minimo di vivacità in quel quartiere. L'immondizia invadeva le strade, ad ogni angolo, e qualche cane selvatico gironzolava tra i bidoni in cerca di cibo.

E quello che lasciò Irina senza parole era il fatto che i barrios erano così, per chilometri.

A questo aveva condotto la fame di potere, il denaro e la corruzione. A migliaia di persone ridotte a vivere in quelle baracche senza acqua e luce, che per tirare avanti erano costrette a fare i criminali, a rubare, a spacciare droga... Erano povere, non solo di denaro. Erano povere di tutto, di opportunità, di futuro, di speranza.

Tra le strade sporche e desolate, Irina guidò la Ferrari con il motore al minimo, tesa come una molla, con la sola e stupida intenzione di attirare l'attenzione. Non era prudente, non era saggio, ma se la persona che voleva Fenice morta si trovava lì, in qualche modo qualcuno gli avrebbe riferito che lei era proprio sotto il suo naso.

In effetti, i primi a notarla furono i bambini.

Orde di bambini con i vestiti strappati, i visetti sporchi di terra e gli occhi ancora vividi dell'infanzia, sbucarono dalle case e dalle baracche, osservando quella strana auto gialla che faceva tanto rumore. Irina li guardò con il cuore gonfio di tristezza, perché vivere in quel posto significava nascere senza un futuro; più volte ebbe la tentazione di fermarsi, abbassare il finestrino ed allungare una banconota a uno di quei ragazzini, ma non sarebbe servito a niente, lo sapeva. Alcuni di loro la seguirono correndo, fino a che non arrivò a una zona che sembrava un po' meno malmessa delle precedenti.

Lì non c'erano baracche, solo palazzi di cemento armato grigi e freddi, e forse c'era anche meno immondizia. Qualche vecchia auto mezza arrugginita era parcheggiata ai lati della strada, e qualche furgoncino altrettanto malmesso circolava tra le vie. Incrociò un mercato di frutta e verdura e forse anche quella che sembrava una scuola elementare.

Anche qui attirò l'attenzione, un'attenzione molto più sospettosa della curiosità dei bambini.

Gruppetti di persone di fronte ai bar la guardarono passare, mormorando qualcosa; donne con la spesa osservarono incuriosite la Ferrari e un paio di ragazzi la apostrofarono a voce alta, quando passò. Quando ne vide un paio tirare fuori il cellulare, capì che finalmente Caracas era davvero al corrente della presenza di Fenice.  

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