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[Salve! chiedo scusa in anticipo per la lunghezza eccessiva del racconto, ma era davvero necessario per riuscire a scrivere tutto ciò che volevo scrivere. Comunque il racconto è suddiviso in più paragrafi, in modo che possiate leggerlo anche un po' per volta, se preferite! Detto questo, buona lettura!]

Lo specchio scuro e scintillante vibrava, increspando le immagini tremanti riflesse sulla sua superficie e rendendo quasi mobili quelle sfere lontane che, apparentemente minuscole, svettavano in alto, inchiodate a quel soffitto di cielo da cui traspariva solo una millesima frazione della straordinaria ampiezza di quell'infinito universo costantemente in espansione. Giochi di luci e colori si alternavano su quell'acqua di vetro, quella distesa silenziosa ed enorme, quello stralcio nostalgico di un paesaggio che ormai non esisteva più. La neve fragile aveva abbandonato ogni purezza; i frammenti delicati e bianchi erano ora calpestati, frantumati e sporchi, tra i piedi scalzi e gli zoccoli e le zampe pelose e sanguinanti e i supporti metallici arrugginiti e le lacrime disperse e ora congelate. Un clangore caotico ed assordante spezzava il freddo statico dell'aria e serpeggiava tutto intorno, come un assordante presagio.

La piccola creatura dal manto verde scuro e le lunghe orecchie penzolanti arrancava con stanchezza tra le strade inclinate e affollate di quel gelido paese della Norvegia, in quell'angolo di pianeta a lui così sconosciuto. Il bagliore luminoso e appariscente del sistema nervoso centrale che illuminava il suo stomaco (i cui meravigliosi e scintillanti colori erano da sempre stati motivo di vanto per la sua specie) si intravedeva ora, appena visibile nell'oscurità di quella sera spenta, pulsare di una flebile luce giallastra, fioca ed intermittente. Gli occhi gommosi, che solitamente guizzavano in ogni direzione, iper mobili e quasi liquidi, giacevano annacquati e flaccidi, all'interno di quelle tonde cavità che solcavano il suo muso stanco. La schiena era curva, piegata dal peso di una grossa sacca che pendeva come un feretro sulla sua schiena, e le zampe asciutte e sottili, simili a storte canne di bambù, si piegavano ad ogni passo con maggior curvatura, e con maggior fatica si risollevavano ogni volta, trascinando verso l'alto quel corpo che appariva ad ogni nuovo movimento più pesante. Eppure non si fermava. Sembrava animarlo qualcosa, come una forza invisibile che premeva all'interno di ogni punto del suo corpo squamoso e lo spingeva a continuare arrancando, in quella fila quasi infinita di creature stanche. Poteva essere la paura, a farlo camminare. Eppure le grida di quelle grosse armature nere e i lampi fosforescenti che fuoriuscivano di tanto in tanto dalle armi oblunghe e che si schiantavano o nella pietra, a pochi metri da lui, o nel ventre tenero di qualche strano essere, non sembravano neanche sfiorare le sue lunghe orecchie. Poteva essere l'istinto di sopravvivenza. Eppure non emetteva neanche un sussulto, quando qualcuno degli uomini che si trovavano insieme alle armature robot, tirava un calcio per puro divertimento alle sue ginocchia. Poteva essere speranza. Eppure lanciò uno sguardo indifferente, passando di fianco ad uno dei tanti fogli sbiaditi e stropicciati che giaceva a terra, raffigurante quel volto pallido e sottile i cui occhi di un verde vivido sembravano quasi trapassare la carta. Non provò niente, alla vista del grumo di saliva che si staccava con disprezzo dalle labbra della grossa creatura pelosa che camminava davanti a lui, e che affondava sulla fronte di quel volto così famoso e allo stesso tempo così impalpabile. Non provava rabbia, verso quel volto; non come la maggior parte delle creature della galassia. Non provava odio, verso quella figura leggendaria che si pensava stesse lottando per la libertà di tutti, ma che tuttavia pareva invisibile, e che non aveva impedito la loro cattura, le loro sofferenze, le loro morti. Non provava niente, così come non si prova niente verso qualcosa che si ritiene inesistente. Una figura leggendaria, mitologica quasi, una favola che gli esseri viventi provenienti dai pianeti più disparati ma accomunati dalla stessa, tetra ed invalidante stanchezza, avevano iniziato a raccontarsi per sopravvivere: così la pensava, quella creatura verde bottiglia. Dunque non era la speranza la forza che lo costringeva a porre un muscolo avvizzito davanti all'altro, anziché lasciare che il suo stanco corpo collassasse, proprio lì davanti alla grande piazza che avevano ormai quasi raggiunto, come tanti altri davanti a lui avevano già fatto. Nulla di tutto questo. Ma qualcosa. Qualcosa c'era. E fu quel qualcosa che lo indusse a bloccarsi di colpo. Era appena giunto davanti all'ampia piazza che si apriva intorno all'enorme edificio nero, (che non era in realtà un edificio bensì una gigantesca astronave) talmente imponente da sovrastare con la propria ombra quasi un terzo della città, oscurando le case e ponendo tutti gli stanchi e impauriti abitanti in una condizione di costante ed insidiosa oscurità. A pochi metri da quella piazza, si fermò. A causa di quel movimento improvviso, la creatura nera dietro di lui quasi inciampò, agitando convulsamente per rimanere in piedi le sue due gambe esili e sottili, che spuntavano in maniera ridicolmente sproporzionata dall'enorme corpo lucido sovrastante. Gli urlò contro qualche strano improperio in una lingua gutturale a lui sconosciuta; ma la figura verde non sentì. Tutti i suoi sensi erano concentrati sulla grande proiezione che brillava nell'aria attraverso una luce verde fosforescente, lì dove ormai era tradizione proiettare lo spettacolo serale (se spettacolo lo si poteva chiamare). La luce del suo ventre iniziò a pulsare ad un ritmo forsennato, variando il colore con sempre più intensità, e i suoi occhi, non più spenti, erano puntati su una sola figura all'interno di quell'enorme proiezione. Una sola, minuscola figura. Fu proprio in quel momento, che all'improvviso, forse per un caso fortuito, forse per il destino o forse per la volontà di quella Forza che ormai tutti avevano smesso di invocare, gli androidi che circondavano i prigionieri si bloccarono di colpo, tutti contemporaneamente, come se fossero stati tanti bambini intenti a giocare ad un-due-tre-stella. Fu solo per un secondo, ma bastò. La creatura iniziò a correre.

A pochi chilometri da quell'ampia piazza, non molto tempo prima del concretizzarsi di quello strano blackout tecnologico, una navicella solitaria atterrò in un angolo isolato, lontano da occhi indiscreti e dal clamore della città. Era talmente piccola da essere riuscita a sfuggire ai radar dell'Air Force, che erano costantemente in allerta per individuare eventuali infrazioni alla regola fondamentale del Nuovo Regime: vietato volare nello spazio. Il terreno, totalmente ricoperto da una spessa neve, attutì il rumore della caduta. Un fumo nero che non segnalava niente di buono fuoriuscì da quel pericolante marchingegno, che appariva ammaccato in più punti e mancante di una buona parte delle strutture necessarie per volare. Quasi nello stesso istante di quello strano e rocambolesco atterraggio, una figura esile e completamente avvolta in un lungo mantello scuro fuoriuscì con violenza dalla navicella, rotolando e rimbalzando sulla neve abbondante. Emise qualche grugnito di assestamento, poi si bloccò a pochi metri dal veicolo, stesa sulla schiena, con le braccia ancora avvolte intorno al grosso casco che le copriva la testa, e le gambe piegate in una posizione innaturale. Si tolse l'elmo, che atterrò con un tonfo sulla neve, poi ruotò il volto in direzione del suo corpo, come per assicurarsi di possedere ancora ogni osso ed ogni organo al proprio posto. Dopo essersi accertata di possedere ancora ogni struttura anatomica nella giusta posizione, si voltò verso la navicella, per poi spostare infine lo sguardo, ancora incredulo, tutt'attorno. E mentre i suoi occhi sorprendentemente verdi si posavano su quella neve candida, sull'acqua liscia di quel lago che si intravedeva in lontananza e verso quel cielo, dal quale la figura era appena piombata e nel cui manto violaceo erano incastonate le sfere di varie dimensioni di quei pianeti lontani, una risata improvvisa e quasi isterica si diffuse nell'aria. Insorse quasi sommessamente, per poi aumentare di tono e diventare irrefrenabile, come lo sfogo di una grande tensione accumulata nel tempo: una molla costantemente pressata che era appena stata rilasciata ed era esplosa, libera ed incontrollabile. La figura si alzò in piedi di scatto, sempre continuando ad emettere quella risata cristallina, e con pochi passi raggiunse la navicella, che le arrivava alla cintola in altezza e che la superava in larghezza solo di pochi metri.

-Ce l'abbiamo fatta! – gridò entusiasta, prima di rendersi conto di quanto potesse essere pericolosa quell'azione e di schiacciarsi il palmo della mano destra sulle labbra. La stoffa del guanto attutì le ultime flebili vibrazioni della sua risata. –Ce l'abbiamo fatta – ripeté, questa volta in un sussurro. Gli occhi verdi guardavano quell'ammasso confuso di ferraglia fumante con affetto.

–Caro vecchio catorcio, hai resistito ancora una volta- Allungò la mano per accarezzare quella vecchia navicella, ma all'improvviso un tremito, talmente rapido da sembrare immaginario, parve attraversare i muscoli del braccio di quella ragazza sottile, quando il suo sguardo si posò in maniera più approfondita sul mezzo di trasporto. Allontanò la mano di scatto, come se con quel movimento potesse anche reprimere qualsiasi traccia di emozione dentro di lei. Quella navicella, che come una compagna fedele l'aveva accompagnata per anni nei suoi viaggi senza mai tradirla, giaceva in quel momento a terra, con il metallo grigio frantumato in più punti ed alcuni pezzi del motore che erano scivolati sulla neve tutto intorno.

-Siamo tornati a casa, hai visto? – Le parole uscirono dalle sue labbra appena accennate, ad un volume talmente lieve che il loro suono si spense quasi subito nell'aria gelida di Bergen. Strinse le labbra, e il suo volto sottile si irrigidì in un'espressione fredda e scostante quasi identica a quella rappresentata ovunque, su quei fogli di giornale che affollavano ormai i muri e le strade di ogni pianeta di quella sterminata e oppressa galassia. –Tornerò a prenderti- decretò, con voce di nuovo solida. E dopo quelle parole, Ava Gardner strinse le dita con forza attorno all'arma che pendeva dalla sua cintura, nascosta dal lungo mantello, e iniziò a camminare con passo fermo verso il suo obiettivo.

Le strade strette della città si inerpicavano in salita, oscure e silenziose, circondate dai muri fatiscenti delle case, scrostati e scoloriti. Tutte le finestre delle misere abitazioni erano sprangate, così come le porte e i cancelli. In quell'angolo di periferia non si intravedeva alcun segno di vita, se non per i rumori attuti e caotici che si udivano provenire dall'altro capo della città, quello che si affacciava sul lato frontale del grande palazzo centrale. Eppure, nonostante in quelle strade non si udisse una voce, non si scorgesse uno spiraglio di luce, non si odorasse alcun sentore che potesse indicare la presenza di cibo o di esseri viventi, Ava sapeva che la popolazione era lì. Acquattata dietro a quelle porte serrate, rintanata nei salotti umidi e bui, spaventata e stanca. Era l'ultimo giorno dell'anno 3999, come lo era ormai da quasi 730 giorni, da quando era stato abolito l'uso del calendario e il tempo era stato ufficialmente fermato, ed era passata un'ora dal tramonto dei Soli Gemelli. E come ogni sera, esattamente a quell'ora, ogni essere vivente, di ogni paese, di ogni pianeta, in ogni angolo della Galassia, si trovava davanti al dispositivo di comunicazione, che si sarebbe automaticamente acceso proiettando lo spettacolo serale. Una smorfia di disgusto si dipinse su quel giovane volto, seppur già segnato da numerose rughe di preoccupazioni e scalfito da tagli e cicatrici che lo rendevano più adulto e più sofferente. Non aveva mai più guardato quegli spettacoli. Mai più, dopo quella prima sera, la sera in cui tutto era cominciato, in quel paese da cui era fuggita, straziata dal dolore e dalla paura, su quella navicella che non aveva mai più abbandonato. Camminare nuovamente per quelle strade, dopo tutto quel tempo passato a fuggire, a nascondersi, a colpire le basi militari dell'esercito intergalattico in ogni pianeta colonizzato; dopo tutte le volte in cui era stata catturata ed era evasa, dopo tutti i volti sconosciuti che aveva incontrato nei suoi viaggi disperati e i volti conosciuti che aveva visto perire sotto le forze sempre troppo potenti del Male: dopotutto ciò che aveva affrontato, le sembrava surreale. Di nuovo tra quelle strade in cui era cresciuta, in cui da bambina allegra e scapestrata si era trasformata in un'adolescente entusiasta e determinata. Sotto quel cielo, in cui per la prima volta suo padre le aveva mostrato come volare. Suo padre... Scosse la testa. Inutile lasciarsi andare ai ricordi: niente di quel posto aveva ormai più niente in comune con i luoghi che aveva imparato ad amare e che ancora brillavano di colore e gioia nei suoi ricordi. Ormai tutto era grigio, spento, vuoto. Accelerò il passo: l'enorme astronave si ergeva davanti a lei, scura e spettrale, sormontandola con la sua potente ed imminente ombra. Si allargava a destra e a sinistra, come un enorme ragno nero di metallo, e si allungava in alto, come a voler quasi sfondare i pianeti soprastanti e dominare solo con la sua presenza l'intera Galassia. Un brivido scosse il corpo avvolto nel mantello di Ava, ma non era solo causato dalla paura: sentiva pulsare dentro di sé un'altra sensazione, diversa e bruciante. Era entusiasmo, era adrenalina, era desiderio puro ed era eccitazione. Fin da quando ancora sedicenne aveva voluto spingersi oltre i propri limiti, aveva voluto staccarsi da quel terreno solido che l'aveva sempre fatta sentire prigioniera, per raggiungere lo spazio, illimitato e profondo, per esplorare l'ignoto, per provare a sé stessa che ce l'avrebbe fatta: fin da allora, aveva provato quella sensazione, una sensazione che mai l'aveva abbandonata e si era anzi intensificata. Ad ogni missione suicida, ad ogni opera di sabotaggio che aveva compiuto, ad ogni istante nel quale per un soffio non aveva perso la vita. Quella sensazione di esaltazione era una parte di lei. Ed ora più che mai pulsava nel suo petto, ora che finalmente era giunta lì, al cospetto di quell'enorme creazione di morte. Al cospetto della base centrale, la più potente, la più controllata, la più invalicabile fortezza di odio, che da sola soggiogava un'intera galassia al proprio volere. Era lì, davanti a lei, silenziosa e letale. La sentiva pulsare: sentiva la Forza, intensa come mai l'aveva sentita prima, quasi straripare da ogni fessura delle pareti, da ogni crepa del terreno, da ogni creatura vivente e non. Sentiva la Forza, ma diversa da quella che da sempre provava dentro di sé: ne sentiva ora il lato tenebroso, quello oscuro, quello ammaliante e suadente che cercava di penetrare in ogni sua voglia per spingerla ad abbracciarlo, ad abbandonare ogni ideale per seguirlo, per servirlo... Si riscosse. Respirando profondamente e guardandosi intorno, accucciata nell'oscurità di fronte alla fortezza, i muscoli tesi e i sensi all'erta. Aveva trascorso i precedenti due anni di esilio e fughe, studiando da lontano la struttura, minacciando uomini, androidi, e svariate altre creature a servizio del Comando Centrale, per ottenere planimetrie delle strutture interne e informazioni circa l'organizzazione delle difese: era pronta, per quanto potesse mai esserlo qualcuno che si stava per accingere nell'impresa di infiltrarsi in una costruzione invalicabile. Strisciò silenziosamente, abbandonando il muro dietro a cui si stava nascondendo, verso il retro dell'astronave metallica. Camminò per un po' in modo parallelo alla struttura, come se stesse seguendo una linea invisibile, poi si fermò: da quella posizione si intravedeva appena, in una delle insenature dell'astronave, una superficie rettangolare lievemente in rilievo. Spostò lo sguardo nei dintorni di quel punto: a qualche metro, alla sua destra, due guardie svettavano silenziose, quasi inchiodate al terreno come se anch'esse facessero parte della struttura. Dal contorno del loro profilo, Ava suppose si dovesse trattare di un uomo e un androide: di solito giravano sempre in coppie miste, composte da un robot e un essere vivente, in modo che i loro rispettivi e diametralmente opposti punti di forza si compensassero. La giovane donna infilò una mano sotto al suo mantello, dentro la piccola sacca che portava costantemente a tracolla, e ne estrasse un piccolo oggetto, somigliante ad una biglia metallica. Portò il braccio all'indietro, per poi trascinarlo con forza in avanti, lanciando l'oggetto sferico il più lontano possibile dal punto in cui si intravedeva la botola. La biglia iniziò a volare nell'aria, prima sfruttando l'inerzia derivante dalla forza del lancio; dopodiché apparve come acquistare una volontà propria, cominciando a saettare in qua e là di fronte alle due guardie, emettendo un ronzio basso. Quando queste si lanciarono verso l'oggetto, esso iniziò a muoversi più velocemente, per depistarli. Senza perdere tempo ad osservare quello strano inseguimento, Ava approfittò del momento di distrazione delle due figure per correre verso l'insenatura avvistata precedentemente. Sfilò dalla sacca un piccolo strumento sottile, simile ad un cacciavite, e svitò in fretta i sopporti che mantenevano sigillato un lato di quella sorta di botola. La superficie si aprì con un sibilo silenzioso, lasciando una fessura larga mezzo metro, ad interrompere la parete liscia dell'enorme nave spaziale, proprio davanti al volto di Ava. Si issò velocemente oltre quello spiraglio, richiudendosi il coperchio di quel minuscolo passaggio alle spalle. Si trovava in uno stretto corridoio, a malapena illuminato da una luce fredda e asettica. Impugnò una delle siringhe di anestetico che aveva preparato precedentemente: l'arma che pendeva dalla sua cintura era solo in caso di necessità. Aveva già ucciso in passato, ma non le piaceva: l'avrebbe fatto solo se si fosse trovata costretta. Avanzò per qualche minuto lungo l'intrico di corridoi tutti uguali, dentro ai quali si sarebbe sicuramente persa se solo non avesse trascorso mesi a studiare ogni angolo di quel labirinto. Dopo una terza svolta a sinistra, si fermò: un uomo avvolto in una pettorina nera, un grosso fucile bianco dalla forma oblunga stretto tra le braccia e un elmetto di metallo a nascondergli il volto, era fermo a metà del corridoio, davanti ad una porta. Ava trattenne il respiro, sentendo la solita sensazione di esaltata paura aumentarle la frequenza cardiaca e potenziarle i muscoli, poi strisciò silenziosamente alle spalle della guardia. Un movimento rapido del braccio. L'ago che affondava nella carne morbida del collo, in quell'unico spazio libero tra il casco e la divisa. Il corpo dell'uomo che prima si tendeva in un violento spasmo e poi si rilassava di colpo, come una bambola abbandonata dalla mano che prima la sosteneva. La ragazza afferrò la figura svenuta prima che si schiantasse al suolo: nonostante la sua corporatura fosse esile, in quegli anni di lotta per la propria sopravvivenza la sua forza fisica era aumentata e le sue braccia apparivano toniche, solcate da muscoli ben visibili che guizzavano da sotto il mantello. Appoggiò delicatamente a terra la guardia addormentata e procedette nel suo cammino.

Era sempre più vicina al cuore della navicella, lo sentiva. Aveva già steso una decina di guardie, nonostante il processo non fosse sempre andato a buon fine come nel primo caso. Ogni tanto era stata costretta a colpire con un pugno qualche guardia particolarmente reattiva, o ad utilizzare un dispositivo laser che aveva acquistato in uno dei suoi ultimi viaggi sul pianeta Xaver, per disattivare un androide, e poi legarlo prima che si svegliasse. Avvicinò l'ago al collo dell'ennesima guardia, ma proprio in quel momento un rumore di passi metallici le gelò il sangue nelle vene. Alzò la testa di scatto, mentre un piccolo plotone composto da quattro androidi le passava davanti, bloccandosi una volta posate le fessure sottili del volto di metallo su di lei. La guardia davanti a lei, a quella sua esitazione, la notò, ed estrasse la pistola laser dalla fondina, cercando di mirare nella sua direzione. Come se i suoi muscoli agissero di volontà propria, Ava si mosse ancor prima che il suo cervello riuscisse a realizzare ciò che stava accadendo. Si chinò, evitando per pochi millimetri il lampo laser che scaturì dall'arma dell'uomo, che attraversò l'aria sibilando e le bruciò alcuni ciuffi più alti dei suoi capelli. Fletté la coscia sinistra, piegando la gamba e affondando il ginocchio nella parte morbida del ventre della guardia, appena sopra l'inguine e subito al di sotto della pettorina rigida dell'armatura. Questo si piegò in avanti con un gemito e, approfittando della suo posizione, Ava lo colpì al collo con il gomito destro, facendolo accasciare a terra, svenuto. Si lanciò poi a sua volta sul pavimento liscio, evitando un altro lampo laser proveniente da uno degli androidi davanti a lei, che nel frattempo si erano riscossi dall'attimo di stupore e avevano iniziato ad attaccarla. Contemporaneamente estrasse la pistola laser dalla cintura e quasi senza guardare premette il grilletto. Uno scoppio sibilante, un rumore stridulo di ingranaggi e un filo di fumo comparvero contemporaneamente dal robot più vicino a lei, che si bloccò nella posizione in cui si trovava, con una larga ferita fumante che si intravedeva nella sua corazza metallica. Spostò l'arma verso gli altri tre androidi, che erano ora sempre più vicini, e iniziò nuovamente a sparare, mentre vedeva il fumo, raggi laser che si diramavano in ogni direzione e sentiva un calore viscoso che iniziava a ricoprirla in più punti del suo corpo, accompagnato da una sensazione di dolore attutita e lontana, in quel momento in cui ogni suo senso era concentrato a rimanere in vita. Erano troppi, e la sua posizione, sdraiata per terra, non le consentiva molto spazio di manovra per sfuggire ai colpi. E proprio in quel momento, mentre la parte ancora lucida del suo cervello iniziava a pensare che alla fine la sua vita si sarebbe conclusa lì, in quel corridoio asettico di quell'enorme astronave impregnata di odio e morte, così vicina al luogo in cui era nata e cresciuta; proprio in quel momento, in cui contemporaneamente, non molto lontano da lì, davanti alla grande piazza che si apriva sull'ingresso principale della navicella, un'esile creatura dal manto color verde bottiglia si fermava, fissando qualcosa; proprio in quel momento, tutti gli androidi si bloccarono, come se qualcuno o qualcosa li avesse improvvisamente spenti. E quell'unico e velocissimo istante, nel quale i tre robot che stavano per porre per sempre fine alla sua esistenza si bloccarono, si rivelò provvidenziale per far sì che Ava riuscisse ad alzarsi e a riguadagnare una posizione favorevole per il contrattacco, salvandosi così la vita. Eppure, il suo primo pensiero non fu di gioia, o di sollievo, o di gratitudine. No, la frase che attraversò come un lampo il suo cervello mentre si rialzava e con un gesto fulmineo premeva ripetutamente il grilletto, con l'arma fumante puntata verso i tre androidi momentaneamente paralizzati, fu: "quell'idiota!"

Correva a perdifiato lungo i corridoi, il cuore che pulsava nel suo petto con una forza sproposita, mentre l'allarme potente e assordante le penetrava nelle orecchie, talmente forte e pressante da bruciarle quasi il cervello. Non riusciva a pensare, sentiva la testa completamente occupata dal rumore, e da un sentimento di rabbia, paura ed esaltazione, uniti insieme in una sensazione talmente intensa dal farle quasi venire le vertigini. Correva, cambiando direzione ogni qualvolta che avvistava una squadra di guardie, con le mani ancora serrate attorno al manico della pistola e le bruciature che pulsavano sulla sua cute come lame, macchiando i suoi abiti scuri di macchie scarlatte sempre più ampie. Avrebbe voluto continuare ad avanzare verso il centro dell'astronave e portare a termine il suo obiettivo, ma sapeva cosa significava quell'allarme; e nonostante si sforzasse di pensare che la missione era una priorità assoluta e che l'intera Galassia era decisamente più importante di un qualsiasi individuo singolo, non riuscì a smettere di correre verso la zona che sulla mappa aveva identificato come "sala computer". Non poteva. Nonostante quegli anni in cui si era allenata a rinchiudere ogni sentimento, ogni traccia di debolezza, ogni minima intaccatura a quell'armatura che si era costruita intorno per sopravvivere, la sua coscienza era ancora una forza troppo potente. La sua noiosa, pressante ed incontrollabile morale, guidava ogni sua mossa e non le avrebbe mai permesso di ignorare quell'allarme, ma soprattutto la persona che aveva provocato quell'allarme. Entrò come una furia nell'ampia stanza dall'enorme soffitto a volta completamente affollata da macchinari, display e dispositivi elettronici più disparati e, come aveva previsto, lo vide. Aiden Miller era raggomitolato in posizione fetale, sotto ad un tavolo, in un angolo della stanza. Nonostante indossasse un'armatura identica a quella delle guardie del Comando Centrale, era istantaneamente riconoscibile: non aveva probabilmente avuto il tempo necessario per infilarsi nuovamente in testa l'elmo di ferro, che ora giaceva incustodito sul tavolo sotto il quale si era rintanato, e le lenti specchiate dei suoi occhiali riflettevano la luce bianca e fioca che illuminava blandamente la stanza. Ava si trattenne a stento dal gridargli contro perché, come si era immaginata, nella stanza non era solo. Un moto di sconforto andò ad unirsi alla rabbia che stava provando, guardando il plotone di guardie: tre androidi, due uomini e un grosso essere marroncino, con la testa allungata dalla cui sommità spuntavano due grosse robuste corna rettangolari. Erano troppi, non poteva affrontarli direttamente, ed erano sempre più vicini al punto in cui quel ragazzo, goffo e tremante di paura, si era rintanato. Ava si morse un labbro, guardandosi freneticamente intorno in cerca di una soluzione, finché i suoi occhi non si posarono su un grosso microfono. Appariva collegato ad un impianto acustico: questo sembrava prolungarsi, andando a comprendere i numerosi altoparlanti che si intravedevano in punti disparati delle pareti e del soffitto, sia in quella grande stanza che nei corridoi che aveva appena percorso. Lo afferrò, e si allontanò il più possibile dal punto in cui si trovavano le guardie. Prese un profondo respiro, portandosi l'apparecchio alle labbra: l'allarme risuonava ancora forte in tutti i corridoi, quindi era improbabile che il plotone riuscisse a sentire la sua voce, al di là di quella che si sarebbe propagata a tutto volume lungo le stanze e le pareti dell'astronave. Fece fuoriuscire l'aria che aveva appena inspirato, dopodiché inizio a gridare dentro al microfono.

-Qui Ava Gardner, signori e signore! – Come previsto, la sua voce si diffuse squillante e gracchiante in ogni stanza ed ogni corridoio di quell'enorme fortezza, superando anche il rumore assordante dell'allarme. -Ripeto, Ava Gardner! Non siete contenti di sentirmi, vecchi amici? Non siete stanchi di rincorrermi per tutta la Galassia come dei grossi e stupidi cani da tartufo, eh? Venite a prendermi se ne avete il coraggio! Forza! Nemico numero uno del Comando Centrale! Proprio io! In carne ed ossa! – Smise di parlare, con il sudore che le colava su tutto il corpo come un sudario e il corpo che tremava, ma senza riuscire a non provare anche un moto di sfacciato divertimento per quella provocazione totalmente irresponsabile che era stata costretta a fare. D'altro canto, con quell'intelligente azione, aveva appena informato tutta l'astronave della sua presenza, potendo così dire definitivamente addio all'effetto sorpresa che aveva sperato di poter sfruttare. Il lato positivo era che il suo piano sembrava aver funzionato: vide il piccolo plotone delle sei guardie prima bloccarsi, proprio a pochi centimetri dalla posizione in cui Aiden era rintanato, per poi iniziare a correre fuori dalla stanza, in cerca probabilmente di lei. Quando il ragazzo scivolò, ancora apparentemente incredulo, al di fuori del tavolo sotto cui era nascosto, Ava sentì tutta la paura e l'agitazione che aveva provato per lui sciogliersi, lasciando il posto solo ad una rabbia cieca. Avanzò in fretta verso di lui e, prima che il ragazzo potesse metterla a fuoco o anche solo capire che cosa stesse succedendo, lo colpì al volto con uno schiaffo.

-Ava... - mormorò flebilmente Aiden, con voce confusa, massaggiandosi in fretta la guancia che stava già iniziando ad arrossarsi.

-Zitto! – replicò lei, in un urlo sussurrato. –Non scordartelo questo! Perché poi devo espormi così per te non riuscirò mai capirlo! – Gli occhi castani del ragazzo sembrarono quasi brillare a quelle parole.

-Perché tu sei fatta così, non puoi abbandonare... - Ava lo spinse violentemente all'indietro, irritata.

-Non iniziare con questa storia! Devi smetterla di seguirmi, quante volte devo dirtelo? – Aiden si sistemò le lenti degli occhiali sul naso, che si erano piegati di lato, e si spostò appena in tempo per evitare un altro colpo da parte della ragazza irosa.

-Pensavo potessi avere bisogno di aiuto... - le lanciò uno sguardo significativo, accompagnato da un sorrisetto laterale. –E infatti avevo ragione. – Indicò alcuni schermi collegati a vari macchinari, posati su un bancone della stanza. –Sono riuscito ad entrare nelle telecamere di sorveglianza dell'astronave e a visualizzare le immagini. Ti ho trovata appena in tempo per riuscire a salvarti. Disattivare gli androidi è stato un colpo di genio, non è vero? – Ava scosse la testa, ignorando l'ammirazione che le straordinarie capacità tecnologiche di quel ragazzo irritante le suscitavano ogni qualvolta lo vedeva all'opera o lo sentiva descrivere ciò che aveva appena fatto.

-Sì, complimenti- commentò burbera, oltrepassandolo per dirigersi verso l'uscita della stanza dei computer –Ottimo salvataggio. Peccato tu abbia anche fatto scattare l'allarme in ogni singola struttura di questo maledetto posto, e che ora tutti sappiano che mi trovo qui- Aiden la raggiunse, accovacciandosi di fianco a lei, davanti alla porta che si affacciava sul corridoio trafficato, ricolmo di voci, passi e di quel continuo rumore assordante.

-Mi ritieni un hacker così scarso? – le sussurrò all'orecchio, con tono offeso. –Non sono stato io a far scattare l'allarme. Ho disattivato la risposta automatica non appena mi sono inserito nei loro sistemi di sorveglianza. È stato qualcos'altro a provocarlo – Ava si girò a guardarlo, aggrottando la fronte perplessa.

-E che cosa diavolo è stato, allora? –

-Non lo so, ma qualunque cosa sia, si sta dirigendo verso il cuore dell'astronave. – Il volto allungato e spigoloso del ragazzo si aprì in un sorriso divertito. –Andiamo a controllare? –

I lineamenti di Ava, fino a quel momento contratti in un'espressione irata, si distesero in un ghigno deciso. –Con molto piacere-

A quelle parole, entrambi scattarono in avanti, immergendosi nel caos del corridoio.

Alcuni corridoi più a sud rispetto alla posizione dei due ragazzi, poco prima che tutti quegli eventi si verificassero uno dopo l'altro come un'incontrollabile propagazione di un'onda d'urto, una figura silenziosa, avvolta in lungo mantello nero simile a una densa nuvola di inconsistente fumo, aprì con un ampio movimento di entrambe le braccia l'imponente porta della Sala Centrale. Camminò con passo sicuro, penetrando in quell'enorme spazio tetro. Era una stanza enorme: il soffitto sembrava quasi sparire da quanto appariva alto, terminando in un curvo tetto a volta. Numerose colonne si arrotolavano verso l'alto, inerpicandosi come sottili e tetri alberi ai lati di quell'imponente struttura. Tutto intorno, il muro era coperto da numerose panche di legno scuro, dove un'infinità di figure sedeva in modo serio e composto. Ma la strana ombra appena entrata sembrò quasi non vederle: la sua attenzione era concentrata su ciò che lo attendeva al centro della stanza, là dove un gruppo di creature disperate tremava e si contorceva dal dolore e dalla paura, legate da spesse catene che avvolgevano loro polsi e caviglie. A pochi metri da quel gruppo eterogeneo e spaventato, Jess Thompson si fermò, sentendo già il consueto formicolio attraversargli la pelle scavata, facendolo quasi tremare per quella controversa e misteriosa sensazione che prendeva il possesso del suo corpo ogni qualvolta si apprestava a compiere quella sorta di rito serale. Lasciò che il suo sguardo scuro e stralunato scorresse con lentezza esasperante lungo quei volti, così diversi tra loro, che eppure a lui apparivano così simili. Una minuscola creatura gialla, con il dorso coperto di spine e felini occhi arancioni; un'enorme massa verde militare, dalla schiena curvata in un lungo arco e dal volto rettangolare, quasi scolpito nella pietra; un uomo sulla trentina d'anni, che lo guardava sdegnato con un'espressione dura dipinta negli occhi scuri; una donna alta dal volto scontroso di un blu acceso, costellato da squame che sembravano brillare di lucenti sfumature acqua marina; e tanti altri volti, così diversi per caratteristiche, colori, eterogeneità, eppure quasi dentici per emozioni che trasparivano. Tutte emozioni che l'uomo incappucciato aveva imparato a conoscere, di cui aveva imparato a nutrirsi, dalle quali prendeva forza e allo stesso tempo con le quali si indeboliva, mentre un caleidoscopio di emozioni contrapposte gli erodeva l'anima e scorreva lungo le sue radici nervose facendolo guizzare di piacere, rimorso, odio per sé stesso ed esaltazione, tutto contemporaneamente, come una sorta di esplosiva estasi dei sensi. Guardò quei volti, quei volti che gli sembravano uguali ai volti che aveva guardato la sera prima, e la sera prima, e quella ancora prima. Leggeva la paura, la rabbia, la rassegnazione, la volontà di ribellarsi, l'odio perfino, e tante altre sfumature di emozioni diverse. Ma ciò di cui più di tutto si nutriva, ciò che più di ogni altra cosa lui sapeva suscitare, ciò che aveva da sempre costellato la sua vita, dalla sua nascita, alla sua infanzia, alla sua adolescenza, ad ogni avvenimento importante della sua esistenza, era un altro sentimento. Il suo unico talento, l'unica motivazione che lo induceva a continuare a respirare, il suo unico scopo nel mondo, uno scopo che non poteva ignorare, un destino che era stato scritto quasi a caratteri cubitali, inciso sulla sua pelle sotto forma di ogni cicatrice, ogni bruciatura, ogni pezzo mancante di sé stesso, ogni incisione, ogni marchio fatto col fuoco, che gli avevano inferto o che lui stesso si era somministrato. Era solo uno, un unico sentimento, il più potente di tutti: il dolore. Ed il dolore era ciò per cui era nato, il dolore era ciò che gli era stato provocato, il dolore era ciò che gli era stato insegnato, il dolore era ciò che sapeva evocare negli altri e contemporaneamente in lui stesso. E l'unico modo per placare quella voragine che sentiva ampliarsi dentro di sé ogni volta che una vita si lacerava sotto le sue mani era procurarsi, paradossalmente, altro dolore. Dolore fisico, dolore che attraverso la frusta che faceva serpeggiare nell'aria della sua stanza privata subito dopo lo spettacolo serale e che planava sulla sua pelle già segnata, aggiungendo nuove tracce su quel telo intriso di sofferenza, un'altra tacca di insano e interminabile dolore, riusciva a placare quello dell'anima. Come se quella punizione fisica che si infliggeva potesse in qualche modo rimettere ordine nel caos, far ricombaciare i lembi stiracchiati della giustizia e ripristinare l'equilibrio. E quel circolo di dolore che sembrava autoalimentarsi non poteva interrompersi. Non poteva smettere. Perché questo era ciò che da sempre conosceva e questo era ciò che sapeva fare. Perché nonostante sentisse dentro di sé quella sensazione di profondo orrore, nonostante gli sembrasse sbagliato, gli sembrasse atroce e gli sembrasse un'infinita agonia, che si propagava rimbalzando dai volti lacerati di fronte a lui a sé stesso come un'eterna partita di tennis, questo era ciò che doveva fare. Questo era il volere del destino, il volere della Forza. Ogni cosa era subordinata ad un bene superiore, ogni atto di dolore era dovuto, necessario per poter stabilire l'ordine, il rigore, l'armonia. La subordinazione era necessaria. Il dolore era necessario. La morte era necessaria. Il totale annullamento di ogni cellula del suo essere era necessario.

La voce del vecchio Senatore si riverberò in tutta l'ampia stanza, amplificata dal grosso apparecchio di risonanza; e, tramite i dispositivi di comunicazione che circondavano tutta la sala, si diffuse, attraverso la proiezione fosforescente, nella grande piazza davanti all'astronave, così come dentro le case di ogni abitante di Bergen, nelle locande, nei locali, e in ogni angolo di ogni pianeta di quella sterminata Galassia. Davanti agli occhi stanchi di creature disparate che arrancavano, seguendo le istruzioni delle guardie, compiendo faticosi lavori, o di piccole e sperdute famiglie che si stringevano, sui loro vecchi divani nelle loro case fatiscenti, facendosi forza l'uno con l'altro; o ancora davanti agli occhi di guerrieri che cercavano di combattere, in qualche luogo lontano, perdendo la vita contro le forze del Male che sembravano moltiplicarsi ad ogni instante, e di tante altre creature ancora. Creature perse. Sole. Rassegnate. Lo sguardo di tutti era fisso sulla Sala Centrale, fisso sui volti ingessati di quei ministri, di quei governatori, di quei senatori, che seduti sulle loro lucide panche e avvolti in quei pomposi abiti eleganti, si convincevano di essere nel giusto, di stare facendo ciò che stavano facendo per il bene comune, per un'unità superiore, e non per soddisfare le loro avide ed ingorde anime. Il loro desiderio di soldi, di potere, ma soprattutto di controllo. Quell'ebrezza subdola e tentatrice, che ogni essere vivente ha bramato almeno una volta: quella voglia di poter gestire tutto, di poter gestire addirittura un'altra vita, o milioni, miliardi di vite; quella purissima sensazione, quell'eccitazione di sapere di essere oltre, di essere immune, di essere al di là delle tende del sipario, di poter decidere degli altri e non di dover sottostare alla volontà altrui. Quella sensazione, che seppur inconscia e nascosta, segreta, serpeggiava in ogni mente di ogni anziano signore seduto su quelle panche, ma che mai e poi mai avrebbe ammesso di poter provare. Quella sensazione che tuttavia era un'illusione, poiché nessuna vita ha mai pienamente il controllo. Ed anzi quei signori, più di tutti gli altri, più di tutte le creature ridotte in schiavitù, più di tutte le popolazioni che ogni giorno lottavano per poter mangiare, per poter sopravvivere, per poter riottenere la propria libertà, non possedevano il controllo: poiché i loro corpi, i loro pensieri, le loro anime, tutto era soggiogato a quell'oscurità, a quel lato malvagio e tenebroso della Forza. Che li aveva invasi, era penetrato nelle loro menti, aveva intriso giorno dopo giorno i loro ideali di sfumature sempre più tetre, finché anche loro stessi non erano più stati in grado di discernere tra il giusto e lo sbagliato, tra il Bene e il Male, autoconvincendosi di stare agendo correttamente, secondo le loro volontà. Eppure, non erano altro che semplici drogati, irrimediabilmente dipendenti da quel lato oscuro della Forza, che li aveva ormai segnati come un marchio indelebile senza possibilità di scampo né di redenzione.

-Signori e signore! – annunciò la voce pomposa del vecchio Senatore, il più anziano e il più potente, in piedi davanti al proiettore principale. Dava le spalle all'ampia tribuna circolare che ospitava gli altri politici, e anche al centro della sala stessa, dove il gruppo di prigionieri attendeva tremando e dove Jess Thompson, fermo immobile con lo sguardo sui loro volti, sembrava totalmente assente. –Come sempre, siamo qui per ricordare ad ognuno di voi quanto il rispetto delle regole per noi sia importante, e come ogni trasgressione alla Legge deve purtroppo essere punita. Vi invitiamo comunque a non spaventarvi, poiché chiunque si comporti da bravo cittadino non correrà alcun pericolo. Tuttavia, è per noi doveroso ricordare che ad ogni azione corrisponde una precisa conseguenza, e che nessuno di voi è immune. Non importa in quale pianeta vi nascondiate, il nostro Esercito Intergalattico vi troverà-

Mormorii di approvazione serpeggiarono tra le file dei senatori, così come tra i gruppi di guardie poste lungo tutto il perimetro della sala e ai lati del gruppo di prigionieri.

-Detto questo, direi di dare il via al nostro spettacolo serale. Il nostro più fedele servitore, mostrerà ora a tutti voi a cosa si può andare incontro quando ci si dichiara nemici del Comando Centrale. –

Un applauso composto si diffuse tra i membri del Senato.

Fu solo a quel punto che Jess Thompson si riscosse dalla sorta di trance che si impadroniva di lui ogni sera, gli istanti prima di entrare in azione. Avanzò lentamente verso il gruppo di creature, coprendo i pochi metri che lo separavano da lui. Strinse il manico intarsiato della sua fedele frusta e, senza attendere oltre, affondò il primo colpo. Un dolore straziante lacerò l'aria, penetrando nella sua pelle come catrame bollente e facendo tremare quasi ogni muro, in ogni paese, di ogni pianeta, di quella Galassia.

Era passato ormai al terzo prigioniero. Ogni urla penetrava più a fondo nella sua carne, riaprendo le sue ferite. E ogni urla sembrava più lacerante, più dolorosa della precedente. La sua frusta era ormai intrisa di sangue, così come le sue vesti e il pavimento tutto intorno, mentre le creature cui ancora quel destino infausto non era stato compiuto strepitavano e cercavano di liberarsi. Stava per affondare il primo colpo sul prigioniero successivo, una piccola creatura dal manto verde scuro e le lunghe orecchie penzolanti. Lo stomaco di quell'essere era illuminato da un luce giallastra, che pulsava sempre più freneticamente e i suoi occhi gelatinosi (che dalla curvatura più dolce e delicata indicavano la sua appartenenza al sesso femminile della sua specie) lo guardavano, invocando una supplica. Ma prima che Thomson riuscisse a completare il suo gesto, un assordante allarme si diffuse dappertutto, lacerandogli i timpani e facendogli bloccare il braccio a mezz'aria.

-E questo che cosa significa? – gridò il primo Senatore, con voce irritata, per cercare di farsi udire oltre quel fastidioso clangore. E la risposta alla sua domanda non si fece attendere: quasi nello stesso istante, le ampie porte della Sala Centrale si spalancarono di nuovo, con un tonfo sordo. E la visione che si presentò a quel punto davanti a tutti fece rimanere a bocca aperta ogni essere presente in quella stanza, così come ogni lontano spettatore di quella vicenda.

Una creatura dal manto color verde bottiglia, del tutto simile per aspetto a quella che Jess Thompson stava per colpire, se non per la corporatura più robusta, il taglio diverso degli occhi e la sfumatura leggermente più scura della sua pelle squamosa, entrò di corsa nell'ampia Sala Centrale, ignorando le guardie che lo stavano inutilmente rincorrendo e anche quelle poste proprio davanti all'ingresso della stanza. Emetteva un verso gutturale, che poteva essere interpretato come un urlo di purissima e cieca rabbia, mentre a spallate si liberava dai suoi inseguitori e si dirigeva verso il centro della stanza. Oltrepassò l'uomo incappucciato, che sembrò rimanere inerte ed immobile, con la frusta a mezz'aria, del tutto pietrificato. E a quel punto anche l'altra creatura, quella dalla corporatura più esile e delicata, lo riconobbe: e dalla sue labbra si diffuse lo stesso verso di dolore e di rabbia. Con un gesto che mostrò una forza fino a quel momento inconcepibile, spezzò le catene che la tenevano legata agli altri e si buttò verso la sua altra metà. E fu proprio al centro di quella stanza, di quella Sala Centrale che da anni era ormai stata solo teatro di sofferenze inaudite e crudeltà, che quelle due creature dalla pelle verde si riunirono. Gridarono e si abbracciarono, in un gesto talmente frenetico e irrimediabile da esplodere come un terremoto: due calamite impossibili da separare, che combaciarono finalmente tra loro. E mentre le loro labbra gommose si ricongiungevano, in un gesto così naturale e così semplicemente necessario, impossibile da impedire, la luce del loro sistema nervoso centrale, che fino a quel momento aveva pulsato di un fioco ed intermittente bagliore giallastro dai loro stomachi, improvvisamente esplose. Una luce rossa, potente, un'onda improvvisa e calda e coinvolgente avvolse tutto, penetrò nella stanza, attraversando i volti dei presenti, permeando nei muri, e facendo quasi tremare l'intera enorme astronave, la cui ombra nera che aveva sempre sormontato ogni cosa dall'alto si illuminò improvvisamente, coprendo tutto e tutti con quel nuovo, coinvolgente ed irrefrenabile calore scarlatto.

-Che cos'aspetti, Thompson! Fermali! Questo è un ordine: FERMALI! – La voce stridula ed isterica del primo Senatore riuscì a malapena a sormontare il rumore dell'allarme e le grida disperate delle due anime che si erano appena ricongiunte.

Ma Jess Thompson non si mosse. Rimase fermo dov'era, il braccio con la frusta che era ormai ricaduto lungo il fianco e le labbra leggermente aperte. Per la prima volta in vita sua, vide qualcosa di completamente diverso, che lo sconvolse. Qualcosa che a prima vista non seppe riconoscere, ma che non apparteneva alla gamma di sentimenti che da anni si era abituato a leggere sui volti di ognuno e di cui da anni si nutriva: non era rabbia, non era paura, non era odio. Non era neanche ciò su cui da sempre si era basata la sua vita, il dolore. E per la prima volta si ritrovò a pensare che forse potesse esistere qualcosa di diverso, qualcosa di perfino più potente. Qualcosa di impensabile, ma di inarrestabile, quasi qualcosa di magico, che come un turbine si era riversato in quella stanza, e che eppure non pretendeva niente, non voleva niente da loro, non chiedeva niente. Ma scaturiva da un'unione. Da un fatto così semplice, da un gesto così antico. Un bacio tra due anime che si appartenevano e che sempre si erano appartenute, e che nessuno, mai, nonostante la forza, nonostante la superiorità numerica, mai avrebbe potuto separare, o spezzare. E l'uomo incappucciato che da sempre aveva dispensato a sé stesso e agli altri solo sofferenze, ma che eppure mai aveva mostrato esternamente qualsiasi reazione che avrebbe potuto indicare un sentimento, si ritrovò improvvisamente le guance bagnate da copiose e calde lacrime. Perché per la prima volta in vita sua, Jess Thompson vide l'Amore.

Gli eventi che si verificarono successivamente furono molto rapidi. Il primo Senatore avanzò furioso verso il suo più fedele adepto, che continuava a rimanere impalato davanti a quella coppia di creature che si baciava indisturbata. Di fatti, nel frattempo, a causa del caos che era venuto a crearsi, i prigionieri ammassati al centro della stanza erano riusciti ad ottenere un margine di manovra e tutte le guardie erano quindi impegnate a cercare di contenere quel caotico tentativo di evasione.

-Jess Thompson! Io ti ordino immediatamente di fermare i due ribelli! JESS THOMPSON! –

In risposta a quell'ultimo grido, l'uomo incappucciato alzò il viso, quasi irriconoscibile da quanto era stravolto, sulla figura austera dell'anziano, il quale imperava su di lui con un'espressione rigida che non ammetteva disobbedienze.

-No- La sua voce uscì flebile dalle sue labbra, quasi appena accennata, come se anche lui stesso fosse stupito e non comprendesse il significato della parola che aveva appena pronunciato.

-Come scusa? – Il vecchio senatore appariva sempre più furioso, e dai suoi occhi grigi, incatenati tra le rughe di quel volto increspato e duro, sembrava sempre più accendersi un odio potente rimasto per molto tempo sopito. Eppure Thompson non parve impressionato, ma anzi sembrò guadagnare forza da quello sguardo, come se l'avesse finalmente aiutato a capire il perché stava continuando ad esitare. Il perché voleva proteggere quel sentimento che mai nella sua vita aveva visto. Così diverso da quello sguardo che ora stava fissando, da cui traspariva un odio che lui invece ben conosceva. Lasciò cadere la frusta e spalancò le braccia in orizzontale, ponendo tutto il suo intero corpo come ostacolo tra il senatore e la coppia di creature.

-Ho detto di no! Non metterò fine a questa unione. – Il suo sguardo scuro e scavato diventò più profondo e più deciso. La sua voce bassa e strascicata era animata da una vitalità che mai l'aveva contraddistinta –E nemmeno lei. Nessuno li toccherà. – E, a complicare quella situazione delicata, interferendo con quel duello di sguardi tra quelle due figure poste al centro della sala, la voce di Ava Gardner si diffuse proprio in quel momento a tutto volume dagli altoparlanti posizionati in ogni punto di quell'enorme astronave.

- Qui Ava Gardner, signori e signore! ...- La voce continuò con il suo monologo, ma, non appena il vecchio senatore udì il nome del nemico numero uno del Governo comparire all'improvviso in quella che doveva essere la fortezza più invalicabile che fosse mai stata costruita, e farsi beffe di lui e di tutti loro, la rabbia che già lo aveva invaso e che stava a stento trattenendo prese totalmente il controllo della sua volontà. Con uno scatto irato sfilò il cilindro che pendeva inutilizzato ormai da molto tempo dalla sua cintola, tese il braccio in avanti e istantaneamente una lunga luce laser, dalla forma acuminata simile ad una spada, comparve dalla sommità dell'oggetto. Si fermarono tutti ad osservare quel fenomeno che da anni ormai nessuno aveva più visto: il primo Senatore stava impugnando una spada laser.

-Te lo ripeterò una sola volta: obbedisci all'ordine. – sibilò, puntando la lama rossa fosforescente in prossimità della gola di Thompson. Ma lui non si mosse. Strinse i pugni, con le braccia ancora tese lateralmente e le labbra serrate. Vedeva l'arma a pochi centimetri dalla sua pelle, ma non provava niente. Non provava più niente. Non aveva mai provato niente. Se non quel dolore, quell'assordante e subdolo dolore; e gli era bastato, perché pensava non ci fosse altro. Ma ora lo sapeva. Sapeva che poteva esserci molto di più. E non si sarebbe mai più piegato.

-No.- ripeté, con voce calma ma ben udibile. Ormai tutti erano fermi ad osservare la scena. Tutte le figure all'interno della stanza e anche tutti gli esseri viventi della Galassia, fermi a bocca aperta davanti a quella proiezione assolutamente inedita. L'allarme si era finalmente spento. E nel silenzio invalidante che era appena calato su tutti loro, il suo "no" risuonò assordante, come una pugnalata, come un sigillo, come la sua stessa condanna a morte. Con un grido ricolmo di rabbia e odio, il primo senatore calò la lama sul collo di quella figura straziata. E la sua testa, dopo un secondo di apparente indecisione, rotolò per terra. Quegli occhi sbarrati e privi di vita rimasero ad osservare il vuoto, come se ancora vedessero qualcosa; il suo volto ancora ricoperto di lacrime che andavano lentamente evaporando restò immobile, fermo in quell'ultimo istante in cui per la prima volta, nella sua vita, Jess Thompson aveva scelto il Bene. Aveva scelto l'Amore.

E mentre il suo corpo privato della testa si accasciava a terra con un tonfo, il primo Senatore lo scavalcò avanzando come una furia verso le due creature color verde bottiglia che avevano smesso di baciarsi e che ora si stringevano tremanti l'uno all'altra, come per infondersi forza a vicenda, ancora circondati da quella pulsante e calda luce avvolgente. Ma il suo tentativo di porre per sempre fine a quella ribellione intrisa d'amore non giunse mai a termine. Proprio in quel momento, come apparsa dal nulla, una figura esile sembrò quasi volare nell'aria, oltrepassando con due capriole le creature abbracciate e atterrando proprio davanti al senatore. La figura si sollevo in fretta, con un sorriso quasi esaltato sul giovane volto, e guardò prima l'anziano davanti a sé, poi tutti i senatori che si erano alzati spaventati dalle panche, tutte le guardie pietrificate dallo stupore, tutti i prigionieri, per spostare in fine lo sguardo sui dispositivi di comunicazione collocati tutto intorno alla grande sala. E fu così che, dopo ormai quasi tre anni di esilio, di fughe e di giorni passati a nascondersi, tutti gli abitanti della Galassia poterono finalmente rivedere quegli occhi verdi, che comparvero come un faro di speranza illuminando ogni luogo, anche il più lontano, e rinvigorendo gli spiriti ormai del tutto spezzati a causa delle continue sofferenze e della scena macabra che si era loro appena presentata.

-Salve a tutti, scusate il ritardo! Vi sono mancata? – chiese Ava Gardner, e la sua voce risuonò forte e chiara in ogni angolo della Galassia.

Mentre guardava dentro quello sguardo grigio deformato dall'odio e dall'ira di quel volto a lei così familiare, Ava sentì ribollire dentro di lei una rabbia che da molto tempo era rimasta rinchiusa in un angolo segreto della sua anima. Era la prima volta che rivedeva il volto pieno di rughe del più caro amico di suo padre. Proprio quel volto, che quella sera di tre anni fa si era finalmente rivelato per ciò che era. Ed era la prima volta che posava gli occhi nuovamente su quella spada laser. Proprio quella lama, che a tradimento era affondata nel ventre dell'unico uomo che per Ava avesse mai contato qualcosa, quella sera in cui tutta quell'interminabile sofferenza era iniziata. E allora sentì la rabbia di nuovo strepitare potente dentro ogni fibra del suo essere, invocando a gran voce di uscire. Si impose la calma: sapeva che i suoi sentimenti in quel momento non potevano interferire con lo scopo che si era prefissata; c'era una posta molto più alta, in gioco, qualcosa di molto più importante ed urgente dei suoi rancori personali. C'era un equilibrio che doveva essere ripristinato, c'era un'ideale che doveva essere gridato, diffuso a più orecchie possibile. C'era una forza che doveva essere difesa, alimentata, riportata a nuova vita: quella del Bene. Perciò continuò a sorridere, con quel ghigno divertito che con molta fatica riuscì a far rimanere stampato sui suoi lineamenti tirati.

-Tu! – sibilò il vecchio Senatore, quasi sputando quella singola parola. –È ora di finire questa storia! – terminata quella frase, portò il braccio con la spada laser nuovamente in avanti, per sferrare un colpo che puntava dritto verso il petto di Ada. Quest'ultima, però, fu più veloce: in quella stanza, al cospetto di una spada laser, sentiva la Forza scorrere dentro di lei con un'intensità dirompente. Ogni suo senso era amplificato, ogni suo movimento più veloce ed armonioso, ogni suo gesto più potente e calibrato. Con un balzo si levò nell'aria, scavalcando con tutto il corpo la lama che fendette il vuoto, e oltrepassando con tutto il suo corpo lo stesso Senatore. Atterrò oltre l'uomo, affrettandosi a rigirarsi, con un movimento fulmineo delle braccia e delle gambe.

-Scusa, buon vecchio Senatore, so che è da un po' che non ci si vede, ma non sono qui per te-

-Come sarebbe a dire? – gridò il vecchio, tentando un altro colpo che questa volta Ava schivò con un'abile giravolta. La ragazza lanciò uno sguardo tutto intorno alla stanza, guardando negli occhi ad uno ad uno i prigionieri, e poi nuovamente verso i dispositivi di comunicazione.

-Sono qui per voi! – gridò senza riferirsi a nessuno in particolare eppure riferendosi a tutti. A tutte quelle creature ferme ad ascoltarla, stanche, doloranti e rassegnate. –Sì! Voi tutti. So che ormai non ci credevate più, so che mi odiate, che pensavate che io non esistessi, o che non mi importasse di voi-

Evitò un altro colpo, poi un altro ancora.

-Ma non è così! Io sono qui per voi! Sono sempre stata qui per voi! Tutto quello che ho fatto, in questi anni, l'ho fatto per voi! Anzi, per noi! – Scivolò per terra, spinse di lato il Senatore, si rialzò.

-Sapete qual è la cosa peggiore esistente in questa Galassia? –

-Il Governo! – gridò qualcuno, tra i prigionieri nella Sala Centrale.

-Il Male! – gridò qualcun altro, in un pianeta molto lontano.

–Il potere! -

-Il dolore! –

Molte voci si sommarono, sia all'interno di quella stanza sia da tutti i punti più disparati della Galassia.

-No, niente di tutto questo – continuò Ava, con voce affaticata ma ancora potente, mentre continuava ad evitare i colpi del Senatore di fronte ad una stanza di spettatori immobili. – È l'abitudine. Sì, l'abitudine che vi ha fatto smettere di sognare, di resistere, di provare a ribellarvi. L'abitudine che un giorno vi ha convinto che questa dovesse essere la vostra vita. Che rispondere agli ordini di una forza superiore dovesse essere il vostro destino, orribile certo, ma irrimediabile. L'abitudine che vi ha indotti a smettere di porvi domande, a smettere persino di provare empatia verso gli altri, di provare qualsiasi tipo di sentimento che non fosse uno stanco dolore. Solo per soffrire di meno, per non rischiare di perdere anche quel poco che vi rimaneva; perché sognare fa paura. Credere in qualcosa, esporsi, lottare. E l'abitudine vi ha indotti a credere che in fondo andasse bene così, che vi sarebbe potuta andare peggio. Ma soprattutto, l'abitudine vi ha portati alla rassegnazione. –

La spada laser le ferì una spalla, lacerandole la casacca scura, ma Ava non fece una piega. Sferrò anzi un pugno in avanti, che colpì il Senatore in pieno volto, il quale emise un grugnito di dolore.

-E questo, non dovrebbe mai succedere. Possiamo disperarci per qualcosa, possiamo piangere, urlare, possiamo arrabbiarci per qualcosa, fuggire, uccidere, arrivare ad un passo dall'esasperazione più totale. Ma mai, mai in questa vita e in qualunque altra vita, mai nessuna creatura, di qualunque specie, in qualunque Paese, in qualunque Pianeta di questa dannata ed enorme Galassia, mai e poi mai deve rassegnarsi a smettere di lottare per la propria libertà. – Girò su sé stessa, colpendo con un calcio il braccio del Senatore che stringeva la spada laser. Questa scivolò dalla presa non più solida del vecchio e atterrò nel palmo della mano di Ava che la puntò verso l'uomo, riportando poi gli occhi sui volti sempre più animati dei prigionieri, che avevano iniziato a scalpitare e a prendere a spallate le guardie.

-Avete sentito? Che cosa volete fare? Rimanere impalati, mentre le vostre vite sfuggono dal vostro controllo? Oppure finalmente ribellarvi? Finalmente lottare per quello che è giusto? Per la vostra libertà, ma soprattutto per il destino di questa intera Galassia. Un destino che non deve per forza essere dolore, tenebra, morte. Un destino che può significare luce... - spostò il suo sguardo verso la coppia di creature verdi, che la stava guardando con le labbra gommose piegato in un sorriso, ancora stretta in un abbraccio affettuoso –che può significare amore. Io sono qui. Pronta a morire per questo. Pronta a morire per il Bene-

A quel punto, la risata del vecchio Senatore, che si era appena ripreso dai colpi subiti, interruppe il suo discorso ispirato.

-Stronzate- sibilò, portando il suo sguardo grigio da serpente su di lei, e poi sulla lama fosforescente che ora stringeva in mano –Tu non sei diversa da me. Ora hai la spada dalla parte del manico, hai il controllo su di me. Hai il controllo su tutto. Perché a questo tutti noi aneliamo, al potere. – Sorrise, aprendo il suo volto segnato dalle rughe in un ghigno vittorioso, poi aprì le braccia in segno di resa –Forza, uccidimi. Tanto non cambierà niente. Tu diventerai come me –

Un moto incontrollato di ira attraversò il volto di Ava, a quelle parole. Respirò a fondo, per calmarsi, poi sorrise di nuovo. Si concentrò sulla Forza: la lasciò scorrere in lei, in tutto il corpo, per poi concentrarsi sul suo braccio, visualizzandola come una sorta di fuoco che fece scendere dal gomito, all'avambraccio, alla mano, fino alla spada laser, cui lanciò mentalmente il comando di spegnersi. Quasi istantaneamente, la luce fosforescente svanì, lasciandole in mano solo il cilindro nero di metallo.

-Ti sbagli, io non sono come te- sussurrò, a denti stretti, prima di colpire con quello stesso cilindro il volto del Senatore, che questa volta crollò a terra, privo di conoscenza. Guardò l'oggetto che stringeva ancora in mano, e che sembrava reclamarla, prometterle il potere: una forza che sentiva esplodere da esso ed espandersi verso di lei, chiamandola, attraendola...

Suo padre. Suo padre che le aveva sempre insegnato a non cedere al potere, a credere in sé stessa, a non farsi mai corrompere da ciò che sembra luccicante e si rivela poi come una prigione di ferro da cui non si potrà mai più uscire. Suo padre che era morto per quell'ideale. Che aveva sacrificato la sua vita per farle capire quanto fosse importante non cedere al Male.

Con un gesto violento del braccio, scaraventò l'oggetto lontano da lei, ed esso andò a schiantarsi contro il muro con un tonfo sordo.

-Io non voglio il potere! – gridò, con tutta la forza che i suoi polmoni stanchi e la sua gola che stava iniziando a diventare roca potevano concederle. –Io voglio solo la libertà! La vostra libertà! La nostra libertà! –

E a quelle parole, finalmente, un urlo composto da molte voci che risuonarono all'unisono esplose dentro la Sala Centrale, mentre quegli stanchi prigionieri si gettavano agguerriti contro le guardie, in un'unica grande onda di lotta e di speranza.

E all'improvviso, qualcosa cambiò. Non dappertutto, e non in maniera sufficiente, ma cambiò. In qualche pianeta lontano, qualche gruppo stanco di persone che avevano ormai perso ogni speranza si animò; qualcuno si gettò contro i soldati dell'esercito intergalattico; qualcun altro tentò di scappare dalle mani dei suoi carcerieri; qualche abitante di qualche piccolo paese sperduto si rifiutò di servire un governante che non aveva scelto; qualche donna, di qualche specie, in qualche luogo, iniziò a protestare contro quel Governo che impediva ai suoi figli di ricevere l'istruzione; qualche guardia del Comando Centrale, in qualche base militare in qualche punto della Galassia, esitò qualche minuto di troppo, davanti a un prigioniero che cercava di scappare. E molti morirono. Molte insurrezioni vennero soppresse. Molte donne vennero picchiate. Molti esseri videro amici perire. Molti soffrirono, soffrirono come da anni, rinchiusi nella loro rassegnata apatia, non avevano più sofferto. Ma si sentirono vivi. Per la prima volta. E qualcosa improvvisamente era cambiato. Qualcosa era cominciato.

Ava e gli ex prigionieri, all'interno della Sala Centrale, combattevano ormai da un tempo che lei non sapeva definire. Il loro numero si era ridotto, erano stanchi, coperti di ferite e bruciature e sangue, la loro pelle di diversi colori madida di sudore, il loro sguardo appannato e sempre più confuso. Si erano radunati in un angolo della grande stanza, ognuno con in mano un'arma che erano riusciti a sfilare dalle braccia di qualche guardia morta, ma erano sempre più in minoranza. Tutto il resto delle guardie, sparse lungo i vari corridoi della grande astronave, stava accorrendo, in numero sempre maggiore. E mentre il loro gruppetto di ribelli si assottigliava, le forze nemiche sembravano moltiplicarsi, instancabili ed infinite. Ava combatteva con tutte le poche forze che le erano rimaste, sapendo che con ogni probabilità sarebbe morta lì; ma non le importava. Aveva portato a termine il suo obiettivo, ciò che per cui lottava da anni, ciò che suo padre le aveva insegnato, ciò che nel suo cuore aveva sempre saputo. Sperava solo che le sue parole fossero servite a qualcosa, che avessero acceso anche solo una piccola fiamma, magari debole, in qualche punto lontano di quella Galassia; ma anche solo una. Una avrebbe fatto la differenza. Una piccola fiamma avrebbe potuto anche trasformarsi in un incendio. E mentre combatteva, sapendo di aver fatto tutto ciò che fisicamente era in suo potere per cambiare le cose, sentì di non avere rimpianti. Tranne, forse, uno. Senza quasi rendersene conto, lanciò un'occhiata alla coppia di creature verde bottiglia che, ancora fianco a fianco, combattevano facendo esplodere le guardie con scosse di scarica elettrica provenienti dal loro stomaco: sembravano più potenti, ora che erano insieme. E senza capire il collegamento, mentre li guardava pensò che un po' le dispiaceva aver costretto Aiden a rimanere fuori. Con una punta di rabbia che non comprese, si ritrovò a chiedersi perché proprio quella volta, quella che probabilmente sarebbe stata la sua ultima volta in cui poteva respirare, quel ragazzo che era sempre pronto a seguirla ovunque andasse anche se lei non voleva, non si fosse fatto vivo. Scosse la testa, rendendosi conto dell'assurdità e del totale ed ingiustificato egoismo di quel pensiero: dire al ragazzo di rimanere fuori era stata la scelta più giusta; Aiden non sapeva combattere, e almeno uno di loro due avrebbe dovuto rimanere in vita. Per continuare a lottare. Per continuare a diffondere la luce. Perciò accantonò quei pensieri infantili e si concentrò, probabilmente per l'ultima volta, sui nemici davanti a sé.

Aiden Miller premeva furiosamente le dita sui tasti della tastiera elettronica, che aveva preso dalla sua fedele sacca sempre piena di aggeggi e strumenti utili e che era riuscito a collegare ad uno dei software dell'astronave. Quando Ava l'aveva praticamente obbligato a non seguirlo era rimasto per almeno cinque minuti buoni a girare in tondo torcendosi le mani, sconfortato ed impotente: ogni fibra del suo corpo gli suggeriva di ignorare gli ordini della ragazza (che in fondo non lo avevano mai fermato in passato) ed entrare comunque nella Sala Centrale; ma la parte razionale del suo cervello sapeva che ciò non avrebbe portato ad alcun risultato, se non a quello di farsi uccidere. Sicuramente la sua morte non sarebbe stata di alcun aiuto per Ava. Se era ancora vivo, dopo tutti i pericoli a cui di volta in volta si sottoponeva, non era di certo per le sue doti di abile combattente. Anzi. Tutto ciò che aveva erano un buon cervello e un piano sempre pronto. Un piano che anche quella volta, dopo molto giravolte frustrate e molti pugni sbattuti contro il muro, era comparso brillando dentro la sua mente. Perciò era corso di nuovo nella sala computer e aveva iniziato a fare ciò che sapeva fare meglio: penetrare in sistemi protetti in cui non sarebbe dovuto penetrare, e modificarli. Inizialmente aveva pensato di inviare una proiezione di sé stesso, ma sapeva che non sarebbe servito: non si può convincere qualcuno a rischiare la propria vita rimanendo al sicuro dentro una stanza, senza rischiarla a propria volta. No. Quella volta avrebbe dovuto esporsi; lui che era sempre rimasto all'ombra dei suoi libri, dei suoi computer, dei suoi piani astuti. Lui che aveva sempre seguito Ava nelle sue missioni suicide senza mai entrare in azione, ma limitandosi ad osservarla nell'ombra, ad intervenire dall'esterno, ad agire come un'invisibile ombra. Quella volta no. Non sarebbe stato sufficiente. A lui stesso non sarebbe sembrato sufficiente. Finì di digitare in fretta il codice che già una volta l'aveva fatto accedere ai meccanismi che comandavano gli androidi: ma questa volta un secondo non gli sarebbe bastato. Continuò a digitare, finché finalmente non ottenne ciò che voleva: cinque minuti. Cinque minuti sarebbero stati abbastanza. O almeno così sperava. Iniziò a correre con tutte le forze che aveva in corpo verso l'ingresso principale della fortezza. Ormai la confusione creata da Ava era tale che nessuno faceva più caso a lui: tutte le guardie correvano alla rinfusa; gli allarmi suonavano; qualche comandante gridava ordini inascoltati. Vide passare anche alcuni membri del Senato, i volti pallidi e sconvolti dal terrore, che erano probabilmente scappati spaventati dalla Sala Centrale. Dopo poco riuscì ad arrivare all'ingresso principale e senza attendere oltre uscì. Davanti a lui, l'enorme piazza si apriva, costellata da una miriade di volti stanchi e stupefatti, appartenenti alle specie più disparate. E davanti, dietro e tra loro, l'infinità di androidi posti al loro controllo si erano bloccati di colpo. Come aveva previsto, i prigionieri, dopo un primo momento di shock, avevano iniziato a muoversi con cautela, e poi sempre più velocemente, allontanandosi dalla piazza. Aiden corse con il cuore in gola nel bel mezzo di quella folla quasi impazzita, cercando di ignorare i palmi delle mani ricoperte di sudore e il grosso grumo che sembrava essersi piantato nella sua gola: odiava parlare in pubblico, ma non c'era altra scelta. Prese un profondo respiro, poi portò alle labbra l'amplificatore sonoro che aveva sempre con sé e gridò.

-Fermi! Fermi tutti, ascoltatemi! – Mormorii confusi e spaventati si diffusero tra la folla; qualcuno continuò a correre, ma la maggior parte si bloccò sul posto, impietrita. Aiden avanzò ancora in mezzo a loro, finché le prime file non iniziarono a spostare l'attenzione su di lui e avvisarono gli altri.

-Dove state andando? Che senso ha fuggire ora? Pensate che sarete liberi, se fuggirete ora? – Una grossa creatura nera dal manto lucido e le gambe molto più esili rispetto al proprio corpo gli rispose in una lingua gutturale che Aiden, avendo studiato per anni alla Facoltà di "Lingue e cultura delle specie intergalattiche" riuscì a comprendere.

-Sicuramente non saremo morti! – Qualcuno annuì, altri gridarono il loro assenso. Aiden scosse la testa: le gambe continuavano a tremargli, ma ora che aveva iniziato a parlare si sentiva più determinato.

-Ne sei sicuro? – La sua voce uscì fragile e balbettante. Niente a che vedere con la voce forte e sicura di Ava. Si schiarì la gola. –Ne siete sicuri? Se fuggite ora, vi troveranno! Non si può scappare per sempre. Se fuggite ora, non sarete mai liberi. Sarete costretti a nascondervi, a scappare. Non potrete più fare altro. -

-Almeno saremmo ancora in vita! – gridò qualcun altro, ma questa volta i mormorii di consenso furono più flebili. Aiden spostò in fretta gli occhi castani sulla creatura pelosa che aveva parlato e questa volta la sua risposta risuonò più decisa.

-Sì, ma quale vita? – Una generale espressione di indecisione percorse le iridi stanche dei volti davanti a lui. Un'indecisione che rese Aiden più sicuro. Alzò il volume della voce. –Quale vita? Una vita trascorsa a nascondersi, trascorsa ad annientare ogni parte di noi stessi, trascorsa ad essere sottomessi a qualcun altro, trascorsa senza poter più sognare? Vi sembra una vita degna di essere vissuta? Non avete sentito il discorso di Ava? –

Qualcuno annuì, ancora esitante. Mormorii incomprensibili agitavano le fila di quello strampalato e rocambolesco gruppo.

-E allora cosa ci fate ancora qui? – Indicò con il braccio l'enorme astronave. -I vostri amici, i vostri compagni, o semplicemente altri sconosciuti che condividono con voi lo stesso destino, sono là dentro, a combattere per le loro vite, ma non solo, a combattere per questa Galassia, a combattere per il Bene! Allora perché siete ancora qui, perché? – E la risposta a quella domanda che Aiden considerava retorica, non si fece attendere.

-Perché per lei è facile! – sbraitò nuovamente la creatura nera lucida con le gambe magre. Il ragazzo si voltò di scatto verso di lui, improvvisamente confuso. Quella era una replica che non si aspettava.

-Per lei? –

-Sì, per quella ragazza! Ava! Per lei è sempre stato facile! –

Aiden si passò una mano tra i capelli, scosse la testa, sempre più confuso.

-Cosa intendi dire? –

-Ma non hai visto come si muoveva? Lei è una predestinata! – gridò questa volta una piccola creatura dalla corazza gialla e le braccia esili, che lo guardava con due grandi occhi neri colmi di paura. –La Forza scorre in lei potente, inarrestabile. Lei è una combattente, una guerriera. Noi non siamo niente! Non siamo niente di speciale, niente di fuori dal comune! Solo esseri stanchi che vorrebbero rimanere in vita! –

Quelle parole colpirono Aiden dritto al petto, lui che aveva sempre una risposta per tutto e che considerava sempre ogni aspetto di qualsiasi situazione: eppure in quel momento rimase di stucco. Non aveva mai ragionato in quel modo. Ma, riflettendoci ora, capiva che la creatura aveva ragione. In fondo anche lui, anche se in maniera inconsapevole, aveva sempre considerato Ava una persona speciale. Aveva sempre pensato che alla fine sarebbe stata lei a cambiare le sorti della Galassia; lei, figlia di uno dei più grandi combattenti e fautori del Bene mai esistiti; lei, che a soli sedici anni era riuscita a volare nello spazio; lei, che aveva avuto il coraggio di disertare l'esercito e di lottare con la vita per i suoi ideali. Non certo lui, un semplice ragazzo che amava studiare. Eppure, nonostante avesse sempre avuto questa consapevolezza, ciò non lo aveva mai fermato. E fu proprio quest'ultimo pensiero a suggerirgli la soluzione. Alzò le braccia, mostrando le mani vuote.

-Lei forse è speciale. Ma io? – Altri mormorii confusi. –Guardatemi! – Indicò il suo corpo scheletrico e un po' goffo, il suo viso spigoloso su cui erano posati un paio di grossi occhiali crepati. –Io non sono un combattente! Sono disarmato! Sono solo un normalissimo secchione che suo malgrado si è ritrovato coinvolto in una situazione più grande di lui! – Qualche risata sommessa, qualche cenno di assenso. –Eppure sono qui, no? Sono qui pronto a rischiare la vita, anche sapendo di avere poche speranze di sopravvivere. Perché fuggire ora non avrebbe alcun senso. Perché se fuggissi ora non riuscirei più a guardarmi allo specchio. – Indicò i robot ancora bloccati di fianco a lui. –Vedete questi androidi? Tra meno di un minuto ricominceranno a muoversi. Voi potete andarvene se volete, ma io rimarrò qui. Non ho alcuna intenzione di muovermi. E quando gli androidi si riattiveranno, mi uccideranno. Ma forse, se rimarrete, se combatteremo insieme, questo non succederà-

Aiden lanciò un'occhiata all'orologio, la bocca sempre più secca e il cuore che pompava sempre con maggior frequenza. Aveva paura. Un'enorme e paralizzante paura, ma era anche deciso.

-Ad ogni modo, lascio a voi la scelta. Ora la decisione spetta a voi. – Lanciò un'ultima occhiata a quegli sguardi, alcuni dubbiosi, alcuni spaventati, altri semplicemente indecifrabili. Dopodiché, chiuse gli occhi, pensando un'ultima volta ad Ava, e rimase al buio, immobile, attendendo il suo destino.

Ava aveva ormai la vista sempre più oscurata dal sangue e sentiva i muscoli sempre più intorpiditi. Erano rimasti in dieci. Sempre più stremati, sempre meno stabili. Sapeva che era ormai la fine. Dopo tutte le volte in cui si era salvata per un soffio, sapeva che quella sarebbe stata irrimediabilmente la sua morte. E proprio in quel momento, mentre le sue palpebre stanche iniziavano a calare sui suoi occhi contro la sua volontà, un rumore assordante e caotico la costrinse a riacquistare lucidità. Sbatté le palpebre e li vide: saranno stati almeno un centinaio. Un enorme esercito di creature strane, totalmente diverse le uno dalle altre eppure animate dallo stesso feroce grido di battaglia. Quasi schiantarono la porta d'ingresso della Sala Centrale e si riversarono come un uragano impazzito sulle guardie del Governo. E tra quell'ammasso di esseri, lo avvistò. Un sorriso comparve improvvisamente sul suo volto sporco, mentre per la seconda volta in quel giorno assurdo e strano si ritrovò a pensare: "quell'idiota!" E Aiden Miller avanzò spostando a spallate chiunque si trovasse tra loro, con lo stesso sorriso stampato in volto e gli occhi castani scintillanti dietro le lenti ormai rotte.

-Mi sembrava di averti detto di non seguirmi! – gli gridò, per farsi sentire in mezzo al caos, una volta che si fu avvicinato a lei. Lui rise e scrollò le spalle.

-Pensavo avessi bisogno di aiuto... - replicò. Ava si unì alla sua risata. E mentre sentiva la mano calda e rassicurante del ragazzo stringersi alla sua e guardava quell'ammasso di creature disparate e bizzarre, così diverse tra loro per aspetto, lingua e mentalità, lottare una a fianco all'altra per un ideale comune, pensò che sì, forse sarebbe comunque morta quel giorno.

Ma non sarebbe mai più stata sola.

Mai più.

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