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3

La torre si snodava alta e silenziosa forando il velo tetro e denso del cielo: non era notte né giorno, ma un tempo indefinito, in un momento indefinito, in un luogo indefinito. Apatico ed insignificante. Immerso nel vuoto doloroso del nulla.

Nel piano più alto di quella torre, sospesa in apnea oltre l'atmosfera, oltre il tempo, oltre il raggio vitale, una ragazza. I polsi doloranti, il sangue secco sul metallo delle catene, gli occhi socchiusi. Dormiva, bloccata in un lungo sonno senza sogni.

All'improvviso un suono incrinò il silenzio statico di quel luogo. Distante, flebile; come un filo sottile emerse esitante dalla nebbia eterea e apparentemente invalicabile che avvolgeva quella cupa stanza priva di tetto e la risvegliò dal suo torpore. Era una voce.

-Vieni stasera? –

La ragazza cercò di aprire gli occhi, confusa, sollevando le palpebre atrofizzate pesanti come macigni. Riconosceva quella voce. Sapeva da dove proveniva.

Dal Mondo Esterno.

Così lontano e irraggiungibile, come un miraggio; se ne era quasi dimenticata. Come poteva tornarci? Non sapeva neanche dove si trovava, ma soltanto che era lì da molto tempo. Ore, giorni, anni, decenni? Non ricordava. Il suo corpo era ormai solo un vuoto contenitore di dolore.

Ma doveva provare. Voleva provare.

Non appena la sua mente confusa formulò quel pensiero una chiave si materializzò dal nulla a pochi centimetri da lei, sul grigio cemento crepato che faceva da pavimento a quel luogo da incubo. Allungò le gambe, dapprima in un debole tentativo che diventò via via più intenso mentre i muscoli da tempo inutilizzati iniziarono lentamente a riattivarsi. Dopo alcuni minuti di sforzo sentì le dita del piede nudo posarsi sulla superficie fredda dell'oggetto di metallo. Lo trascinò verso di sé, riuscì ad immobilizzarlo tra le due piante del piede e piegò le ginocchia, portando le gambe all'indietro e cercando di avvicinarle il più possibile alle mani legate dietro alla schiena. Le sue dita sottili riuscirono finalmente a serrarsi attorno alla chiave. Non pensava che ci sarebbe mai riuscita.

Sentì un'emozione.

La sentì, ma non riuscì a ricordare il suo nome: nell'apatia in cui si trovava avviluppata da tempo immemorabile non aveva più provato una cosa del genere. Era una sensazione strana, ma piacevole. Stupita da quell'improvvisa vertigine, la ragazza impiegò un attimo per riprendersi, poi inserì la chiave nella serratura delle manette e girò.

Un allarme tonante esplose nell'aria tutto attorno, disintegrando il silenzio e scaraventando i frammenti di quella plastica quiete apparente un po' ovunque. Era un suono terrificante, intermittente, che le perforava i timpani e le penetrava dentro la scatola cranica torcendole il cervello e annodandole le budella e facendole vibrare le ossa, talmente fragili da dare l'impressione di potersi sbriciolare da un momento all'altro all'interno della sua pelle. Terrorizzata, alzò i polsi finalmente liberi in prossimità della testa e serrò i palmi delle mani contro le orecchie, con forza. Poi si sollevò sulle gambe traballanti e iniziò a correre.

Vide una scala, in fondo al tetto, che spariva nelle interiora dell'edificio; si gettò verso di essa, con il cuore che dava l'impressione di voler sgusciare fuori dal petto fuggendo dentro la gola e i timpani sempre più sofferenti a causa di quel continuo e stridulo rumore. L'aveva quasi raggiunta, quando sentì l'intera torre sotto di sé tremare, e forse anche la terra stessa, al di sotto. Si fermò di scatto, inorridita: un'enorme bestia nera aveva squarciato il telo cinereo e abulico che fungeva da cielo e ora la sovrastava con la sua ombra, sospesa proprio sopra la sua bramata via d'uscita. Il corpo era largo e tozzo, ricoperto da spessi e bitorzoluti aculei, e dal suo fondo si diramava una lunga coda bifida, grossa e spinosa, che si dibatteva ferocemente nell'aria. Ali come areoplani si estendevano gigantesche fendendo il cielo e vibrando nell'aria. Dal muso piatto spuntavano due enormi fessure orizzontali, che brillavano minacciose e crudeli di un'inquietante luce rossastra. Assomigliava vagamente ad un drago, ma qualcosa nella sua figura sibilante e disgustosa, di quel nero catrame, le ricordava di più un ragno: una creatura che avrebbe potuto prendere vita soltanto negli incubi più tetri e più oscuri di una mente deviata. Sul suo corpo, al centro, sedeva una figura incappucciata, avvolta in uno scuro mantello fumoso e svolazzante. Non fece in tempo a reagire che quell'enorme mostro si gettò contro di lei, spalancando la mandibola gigantesca e mostrando una fila di denti aguzzi e deformi. La ragazza si ritrovò a rotolare per terra, sul freddo pavimento, mentre udiva un fragoroso frastuono a pochi centimetri da lei: dalle fauci della bestia si era sprigionato un violento getto infuocato. Vide fiamme nere espandersi come un virus, incendiando la pietra tutto intorno e generando un enorme buco che come una ferita aperta sembrava sanguinare, impregnandole il naso di fumo e morte. Riuscì ad alzarsi, evitando per un soffio una seconda vampata che polverizzò il pavimento nel punto esatto in cui si trovava lei pochi istanti prima; poi si lanciò di corsa verso le scale. Non appena i suoi piedi scalzi si posarono sulle assi di legno sentì l'enorme coda bifida strisciare nell'aria come un serpente ed abbattersi contro le scale in uno stridente fragore; senza il tempo per pensare, si lanciò in avanti.

Vuoto.

Scaglie di legno e frammenti di intonaco.

Dolore.

Vuoto.

Ossa e articolazioni e arti ovunque.

Buio e assi scomposte.

Poi la caduta si arrestò, in un'ultima devastante pugnalata di dolore. Sentiva odore di ferro, una sensazione di viscoso calore lungo le braccia e le gambe, e ogni minima porzione di tessuto cutaneo che urlava; cercò di non pensarci. Era atterrata su quello che doveva essere il penultimo piano della torre e ora si trovava circondata e parzialmente ricoperta di polvere e macerie. Sentiva il boato del drago ragno sempre più vicino e anche un altro rumore in sottofondo, a una frequenza più bassa: un rumore che sembrava quasi vibrarle nelle ossa più che dentro alle orecchie: una risata? Doveva provenire dalla figura incappucciata. Si costrinse a rialzarsi, accantonando i pensieri scomposti, e riprese a correre, scavalcando cumuli di detriti e roccia.

Ma la sua fiacca corsa, resa lenta e tortuosa da tutti gli ostacoli naturali sparsi sul pavimento di quella torre che stava lentamente crollando a pezzi, durò poco.

Sentì l'ossigeno venirle privato all'improvviso, mentre un qualcosa di spesso e resistente le si serrava intorno alla gola come un cappio, costringendola a fermarsi di scatto. Agitò le braccia in modo scomposto, mentre un panico cieco le invadeva i pensieri, non lasciando altro spazio se non per un disperato e confuso arrancare in cerca dell'aria che non c'era e in cerca di un modo per fuggire che non c'era. Sentì qualcosa di caldo e salato bagnarle le guance; dovevano essere lacrime, ma ormai non riusciva a concentrarsi su nient'altro che non fosse un assoluto, urgente e allarmante bisogno di aria. Le sue braccia continuavano ad agitarsi in modo confuso, a graffiare quell'enorme e dura pelle d'inchiostro e morte che le avvolgeva la gola, tirando, colpendo, stringendo; ma ad ogni suo tentativo le sembrava che la coda della bestia aumentasse un po' di più la stretta sulla sua gola. I suoni strozzati che le sue corde vocali stritolate e sempre più fragili riuscivano ad emettere apparivano alle sue orecchie come i guaiti soffocati di un animale in punto di morte, ed erano quasi completamente sovrastati da quel suono fastidioso e sempre più assordante, quella risata di scherno, che ora sembrava le stesse risuonando direttamente dentro la testa, amplificata da milioni di altoparlanti invisibili applicati nel suo cervello.

Chi era quella figura incappucciata che la derideva?

Perché ce l'aveva con lei?

Ma soprattutto, chi era lei?

Non lo sapeva. Non ricordava. Non ci riusciva. Ma solo una consapevolezza, più splendente di ogni altro pensiero, in quel momento pulsava e vibrava come un fuoco vivo nella sua mente sempre più confusa a causa della privazione di ossigeno: non voleva morire.

E fu allora che la vide: nella penombra di quella stanza in rovina, attraverso gli occhi sempre più lucidi e lattiginosi, mentre si sforzava con tutta sé stessa di non perdere i sensi, di continuare a lottare; la vide. Una lama lucente, sottile e affusolata ma allo stesso tempo fiera e potente: brillava di una luce propria, dorata e splendente, ipnotica e quasi magica. Ora che le sue pupille stanche si ritrovarono all'improvviso invase da quella luce che sembrava l'incarnazione stessa della speranza, si chiese come avesse fatto a non notarla prima. Strinse gli occhi, cercando di guardarla meglio: era a mezzo metro da lei, conficcata per metà in una grossa roccia. Restò per un secondo a fissare l'elsa intarsiata, quel serpente dorato arrotolato su stesso che ne ornava il bordo,

(le sembrava di averlo già visto, ma dove? E soprattutto, quando?)

incapace di prendere una decisione: per provare ad afferrarla avrebbe dovuto distaccare le braccia dal suo collo, abbandonare ogni tentativo di allentare la presa della coda: e se non fosse riuscita ad estrarre la spada da quella roccia?

(La spada nella roccia: un altro deja-. Dove l'aveva già sentito?)

E se quell'attimo di disattenzione le fosse costato la vita? Ma era la sua unica speranza.

Allungò il braccio.

Si era aspettata una sensazione di freddo metallo, eppure quando il suo palmo si strinse attorno a quell'elsa ricamata sentì un calore travolgente e confortante, come l'abbraccio di una madre

(ma quale madre?)

o una coperta pesante in un giorno piovoso d'inverno, penetrarle sotto la pelle, riscaldandole le ossa, il sangue e anche i pensieri. Si sentì invincibile. Tirò. La lama scivolò all'esterno dolcemente, come fosse stata inserita nel burro e non nella dura pietra; l'elsa sembrava fosse stata scolpita per la sua mano. La spada risplendeva ora di una luce ancora più potente, illuminando l'oscurità di quella stanza distrutta, mostrando i detriti, le assi scomposte e l'enorme creatura che aveva perforato il pavimento sovrastante e ora si agitava ruggendo. Vide le ali che sbattevano enormi ed irrequiete proseguendo nella loro opera di demolizione della torre; lo spettro che da sopra il suo dorso continuava ad emettere quel verso gutturale e paralizzante; la doppia coda avvolta come un cobra attorno al suo collo, talmente immerso nel dolore da non sembrare ormai neanche più una parte del suo corpo. Senza pensare oltre, portò il braccio che stringeva l'arma in avanti, con forza, ed affondò un colpo contro quella grossa protuberanza gommosa che la stava stritolando.

Sentì un grido strozzato e stridente provenire dal muso da ragno del mostro, mentre all'improvviso un oceano d'aria le riempì la gola violentemente, come se un'invisibile diga si fosse appena aperta di scatto. L'ossigeno iniziò lentamente a riattivare i suoi sensi, il suo corpo, la sua mente. E questa volta riconobbe il sentimento elettrizzante che le riempiva la testa e il petto: gioia. Gioia pura, sfavillante ed inebriante. Nello stesso istante, vide la pelle dura e spessa della coda squarciarsi nel punto in cui la lama dorata l'aveva colpita e un getto intenso di un liquido simile all'inchiostro spillare a fiotti, ricoprendo la spada, la sua mano, le sue braccia. Emanava un odore disgustoso, di pus e putrefazione. Cercò di riprendersi in fretta e scappare, ma non ne ebbe il tempo: la creatura ferita si dimenava in modo scomposto, distruggendo pareti, soffitto, pavimento. Sentiva il terreno sotto di sé vibrare con sempre più insistenza. Vide le grosse ali nere spostarsi con velocità sorprendente verso la sua direzione; sentì la pietra sotto di sé iniziare a cedere. Agitò nuovamente la spada davanti a sé, disperatamente, senza sapere cos'altro fare.

La sensazione di qualcosa di duro che veniva squarciato. Un urlo ancora più intenso e agghiacciante. Il pavimento che si apriva sotto di lei.

Poi tutto crollò. E fu solo buio.

L'edificio scuro e apparentemente indistruttibile che un tempo svettava lugubre ed imponente sfidando le leggi della fisica e del tempo, squarciando il cielo asettico e nebuloso, gemeva ora in un cumulo di frammenti brucianti e avvizzite e scure macerie, ormai privo di quell'antico potere e di quell'aurea di terrore che avevano impregnato le sue nere pareti. Ridotto a vuoti massi, piangenti e mal ridotti, accatastati gli uni sugli altri come tanti anziani su letti di ospedale, che si espandevano impotenti su quell'enorme prato brullo. Il fumo che si arrampicava silenzioso tra i detriti diffondendosi nell'aria sembrava ergersi come una bandiera bianca, implorando la resa. E distesa, immobile e silenziosa, al centro di quel campo di battaglia morente, come un enorme aereo precipitato e consumato, giaceva l'immane bestia color del catrame; l'essere immondo una volta così terrorizzante, disgustoso e terribile, suscitava ora quasi una cauta pena, così indifeso tra quelle pietre distrutte, ormai privo di vita. Della figura incappucciata che lo aveva guidato, nessuna traccia.

A una ventina di metri da quella devastazione, stesa al centro di una radura, circondata da alti e nodosi alberi, una ragazza. Il corpo ricoperto di lividi e bruciature ma apparentemente intatto, i vestiti stracciati e sanguinanti, gli occhi socchiusi. Dormiva, sospesa in un sonno leggero e tormentato.

Riaprì gli occhi dopo pochi secondi, sorpresa di essere ancora viva. Tetre chiome di scheletri legnosi dalle nere foglie le escludevano la visione del cielo. Sollevò con estrema lentezza il corpo dolorante, guardandosi intorno confusa. Si ritrovava in un profondo bosco, immersa tra tronchi rugosi e imponenti e rigogliosa vegetazione. Davanti a lei, in fondo alla piccola radura nella quale si era risvegliata, si apriva un sentiero. Senza sapere come, era dentro di lei sicura che quella fosse la strada giusta. La strada che l'avrebbe riportata nel Mondo Esterno, dovunque esso fosse. Senza riflettere oltre, si incamminò.

Il silenzio denso di quella foresta apparentemente immobile era infranto solo dallo scricchiolio delle foglie e di qualche ramo spezzato sotto i suoi piedi nudi. Non un soffio di vento, non un frullare di ali, non il cicalio di qualche insetto. Sembrava che l'unica forma di vita presente in quel luogo fosse lei. Camminò per un tempo che non seppe quantificare. Camminò senza pensare a niente; non aveva niente a cui pensare: la sua mente era ancora vuota, o apparentemente vuota. Le sembrava ogni tanto di percepire al suo interno un suono, un'immagine, un odore; ma questo lampeggiava per un istante e poi si rituffava nel grigio ammasso melmoso dei ricordi dimenticati, nuovamente inaccessibile. Così camminò in quel modo, un'anima persa e svuotata, ombra tra le ombre di quel fitto bosco inerte.

Ad un tratto la scorse, tra i rami aggrovigliati e contorti, parzialmente sepolta dalle foglie, a circa cento metri da lei: una porta.

Piccola e sottile, risplendeva debolmente in lontananza, rischiarando appena quella foresta scura. Sembrava di legno, lucida e dorata, proprio come la spada che aveva trovato tra le rocce e che era ora svanita nel nulla. Fece per mettersi a correre, quando una voce metallica e spettrale e dolorosamente familiare emerse dietro di lei, paralizzandole le viscere e frantumando il silenzio.

-Povera anima sperduta. Credevi di fuggire da me? -

Si girò di scatto. La figura incappucciata, quella che sperava di essersi lasciata alle spalle, era sospesa nell'aria, almeno a quattro metri d'altezza, apparentemente sostenuta soltanto da una vaporosa nebbia nera che l'avvolgeva e si espandeva tutto intorno come una specie di terrificante nube stregata.

-Non puoi fuggire da me, dovresti saperlo –

-No! – Il suo urlo frenetico e disperato risuonò stridulo e distorto nell'ambiente attutito della foresta. La ragazza si voltò in fretta verso la porta e iniziò a correre. Più veloce di quanto le fosse consentito, più veloce di quanto i suoi muscoli potessero contrarsi, più veloce del vento, della luce, dei pensieri. Vedeva la porta. Vedeva quella porta dorata e risplendente, vedeva quella via d'uscita,

(ma uscita per dove?)

vedeva la sua unica speranza. Così vicina. Così concreta. Così reale. Sentiva solo vagamente i rami e le foglie che le frustavano la pelle, il legno che le si conficcava nelle piante scoperte dei piedi, la milza che strideva ed esplodeva di dolore e i polmoni che sembravano quasi andare a fuoco per lo sforzo di respirare. Vedeva solo la porta. E sentiva dietro di lei quella presenza, sempre più vicina; quella risata, sempre più insistente.

C'era quasi.

Poteva farcela.

Allungò la mano verso la maniglia, ormai vicinissima. Quasi ridendo, mentre sentiva un calore euforico invaderle il petto e la consapevolezza di essersi salvata. Strinse il palmo attorno al pomello rotondeggiante di quella minuscola porta, alta appena quanto lei. Ruotò.

Niente.

La porta rimase immobile, apparentemente incastonata tra la vegetazione, chiusa e silenziosa.

-No ti prego, ti prego, apriti – L'ansia le strisciava sulla pelle e le si arrotolava attorno alla voce quasi come un essere concreto. Si guardò indietro disperata: l'essere incappucciato scivolava sospeso nell'aria con calma, lento e implacabile, ormai sempre più vicino.

Cosa sarebbe successo se l'avesse raggiunta?

Non voleva pensarci. Si concentrò sulla serratura: sotto al pomello c'era una tastiera di legno. Su ogni tasto era incisa una lettera dell'alfabeto. Posò in fretta i polpastrelli sopra quei quadratini.

-Ti prego ti prego ti prego- mormorò di nuovo, mentre provava a digitare su quella rudimentale tastiera la scritta "apriti".

Niente.

-Andiamo! –Sentiva la presenza di quella nube nauseante sempre più vicina. Digitò "porta"; poi "codice"; poi "torre"; poi "prigioniera".

Niente.

Fece per muovere un'altra volta le dita sulla tastiera, ma all'improvviso sentì i muscoli del suo braccio paralizzarsi, come se una corda invisibile si fosse improvvisamente serrata attorno ai suoi arti, immobilizzandoli.

-Perché scappi da me? – Di nuovo quella voce raggelante, meccanica e robotica e allo stesso tempo profonda e vibrante. Le scavava dentro le viscere ripercuotendosi su tutto il suo corpo dolente e svuotato.

-Lasciami andare! – gridò, ma era un urlo appassito, privato di ogni forza. Sentiva il suo corpo non più sotto il suo controllo. Vide le sue gambe ruotare, girandosi verso l'essere incappucciato. I suoi piedi avanzare meccanicamente verso di lui, le sue braccia abbandonarsi impotenti lunghi i fianchi; ma nessuno di quei movimenti era stato guidato da lei. Si accorse con orrore che la figura la stava controllando come una marionetta, trainandola attraverso quei fili invisibili che le si erano arrotolati attorno alle braccia, le gambe e la vita.

-Stai mentendo a te stessa- continuò lo spettro –Tu non vuoi andare via-

-Sì invece! – gridò lei, mentre vedeva le sue ginocchia piegarsi e affondare nel terreno. Cercò con tutte le forze di opporsi, di sbloccare i suoi muscoli, di muoversi e scappare da quella morsa invisibile; invano. Il suo corpo non le rispondeva più.

-Pensi di voler scappare, ma non ci credi davvero-

-Ho rischiato la vita per fuggire! –

La risata di scherno si diffuse tutto intorno, gracchiante e vibrante. Il corpo avvolto dal mantello spettrale tremava leggermente, come se le risate lo stessero attraversando, scuotendolo dall'interno. La ragazza sentì un moto di ira percorrerle il sangue, ma di nuovo ogni suo sforzo di contrarre i muscoli si perse nel vuoto.

-Hai rischiato la vita? – le chiese la figura. Ora una vena sarcastica percorreva la sua voce raggelante –Ma quale vita? –

Un leggero tremito percorse la ragazza. Qualcosa l'aveva colpita nel vivo. Si sforzò di ignorare quelle parole.

-Dimmi, fuggiasca – continuò la creatura, in tono canzonatorio –Che vale aver rischiato la vita, quando ancora della vita non conosci il sapore? –

A quelle parole, uno strano sentimento le si strinse attorno al petto; ma inizialmente non seppe riconoscerlo. Sapeva che l'essere aveva ragione. Avrebbe dovuto disperarsi, implorarlo di lasciarla andare, opporsi; ma continuava a distrarsi.

(Che vale aver rischiato la vita, quando ancora della vita non conosci il sapore?)

Perché le sembrava una frase familiare? Dolorosa, veritiera, ma anche sorprendentemente familiare. Alzò lo sguardo verso le chiome degli alberi e all'improvvisò immaginò un accampamento allestito sopra quei rami. Un ragazzo che saltava da un appiglio all'altro, coraggioso, spensierato, libero. Un ragazzo che viveva, al contrario di lei. Ma perché stava pensando a quella scena? Dove l'aveva già vista?

Fogli.

Fogli ricoperti di inchiostro.

Pagine. Pagine che scorrevano, una dopo l'altra. Immagini che si formavano nella sua mente. Un dolore che prendeva corpo nel suo petto. Rimpianto? Invidia? Impotenza?

Un libro.

E di colpo ricordò. Non aveva mai visto quella scena, aveva letto quella scena. In un libro. Il Barone Rampante. E in quel libro era contenuta quella frase. La ricordava, la ricordava come se fosse stata marchiata a fuoco sotto la sua pelle. Perché era vera. Perché rispecchiava sé stessa.

(Che vale aver rischiato la vita, quando ancora della vita non conosci il sapore?)

Perché la vita le scorreva davanti ma lei non riusciva ad agguantarla.

Eppure niente di tutta quella situazione aveva senso. Dove si trovava ora? Cos'era quel posto in cui si era risvegliata? Chi era quella figura incappucciata che la stava tenendo intrappolata? Come poteva citare la frase di un libro proveniente da un altro mondo, dal Mondo Esterno? Un libro che lei leggeva. In un'altra vita. Come poteva conoscerlo quell'essere?

A meno che...

Ripensò alle chiavi delle manette apparse all'improvviso davanti a lei non appena la sua mente confusa aveva espresso il desiderio di fuggire. Ripensò a quella spada dorata, che aveva visto proprio nel momento del bisogno. E soprattutto a quell'immagine, la spada nella roccia. Dove l'aveva già vista? Sempre in un libro?

(Re Artù)

Ripensò anche alla decorazione dell'elsa, quel serpente arrotolato attorno a un bastone. Perché le sembrava familiare?

(Il bastone di Asclepio)

Ripensò a tutta quella situazione: una ragazza intrappolata in una torre, con un drago come guardia.

(Una favola? Una versione distorta di essa?)

Perché tutto le sembrava un deja-vù? 

E all'improvviso capì.

Si rialzò.

-Ferma! - esalò la figura spettrale, con la voce improvvisamente esitante. –Come puoi muoverti? –

Lei continuò ad avanzare, improvvisamente immune dal controllo della creatura. Camminava fiera, in avanti, un nuovo sguardo determinato sul volto.

-Tu non puoi fermarmi – decretò, la voce all'improvviso sicura, decisa e ricolma di ira –Tu non hai più alcun potere su di me- Allungò le braccia in avanti, con i palmi rivolti verso l'essere incappucciato e si concentrò. Una sfera di energia argentea e brillante si sprigionò dalle sue mani e avvolse la creatura sospesa ad una velocità impetuosa. La figura gridò, mentre quelle fiamme grigiastre e splendenti la corrodevano, demolendo a poco a poco il suo corpo spettrale fino a che non si liquefece in un nero e viscoso liquido, che si infranse a terra, oltrepassando la nube spettrale anch'essa sempre più inconsistente, fino a sparire del tutto, insieme a colui che l'aveva generata. La ragazza osservò la scena, impassibile. Poi si voltò di nuovo e ripercorse con passo calmo ma deciso i pochi metri che la separavano dalla porta: ora sapeva cosa doveva fare. Allungò le dita sui tasti di legno e digitò il codice.

"Noemi"

La porta si aprì di scatto. Lei fece un passo avanti.

E precipitò.

Nel Mondo Esterno, Noemi aprì gli occhi.

Il pub era affollato quella sera. I volti sconosciuti dei suoi amici ridevano, arrossati e a malapena illuminati dalle luci soffuse del locale. Noemi sedeva in silenzio, la nuova pelle intatta che rivestiva il suo corpo ancora dolente. Sentiva ogni bruciatura, ogni livido, ogni ferita che si era procurata, nonostante nessuno potesse vederle.

-Noe! Allora come stai? È da un po' che non ti si vede –

-Tutto bene, sono stata impegnata – L'allegria plastica che le colorava la voce era solo parzialmente fasulla. Strinse le dita ancora deboli attorno al flacone di Prozac nascosto all'interno della borsa: aveva finalmente trovato il coraggio di riutilizzarlo, dopo mesi in cui l'aveva lasciato ad ammuffire sul mobiletto del bagno.

Sentì in lontananza, da qualche parte dentro di lei, catene che tintinnavano e il gemito terrificante di una bestia. Sapeva che la torre nera sarebbe sempre rimasta dentro di lei, ad attenderla, ma non la spaventava più. Si sarebbe liberata di nuovo, come aveva fatto quella volta.

E tutte le volte precedenti.

La Depressione era una parte di lei, non l'avrebbe mai sconfitta del tutto; ma adesso era decisa a godersi quel momento di libertà.

Che vale aver rischiato la vita, quando ancora della vita non conosci il sapore?

E lei voleva conoscerlo, quel sapore.

Sorrise.

[Parole: 3994]

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