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Il ticchettio leggero della lancetta vibrava sotto la mia pelle e rimbombava nella mia testa amplificato fino a risultare quasi insopportabile. Un gelido monito. Costante e ripetitivo. Più tentavo di ignorarlo più esso si insinuava tra i miei pensieri, affondava nel mio sangue e guidava il battito del mio cuore, impostandolo sulla sua stessa frequenza. Stavo impazzendo. L'ansia mi dilaniava, ingigantita e resa famelica da quel continuo battito proveniente dall'orologio a muro. Eppure i secondi scorrevano. Incerti; quasi congelati; ma inesorabili. La porta di legno, alta e massiccia, in quel momento ai miei occhi quasi insormontabile, rimaneva chiusa.

Chiusi.

Gli occhi di mia madre, il volto scarno e pallido, le labbra tremanti che ancora disperatamente tentano di curvarsi in un sorriso.

Chiusa.

La porta dell'ascensore, sottraendo il lettino su cui è distesa dalla nostra vista; facendola sparire in uno scuro vortice di nulla.

Deglutii, cercando di eliminare quell'immagine dalla mente: ma come la polvere sotto le unghie questo servì solo a farla sprofondare più in basso, sotto la pelle, sotto i pensieri, sotto i ricordi; stabile ed eterna. All'improvviso la porta si aprì, facendomi sobbalzare; a causa del movimento scomposto gli occhiali mi si inclinarono di lato.

-Eccomi! – gridò la voce immotivatamente allegra del ragazzo appena entrato nella mia visuale ora non più perfettamente dritta. Rilassai muscoli che non mi ero neanche reso conto di stare tendendo.

-Finalmente! Ci hai messo un'eternità – Emisi lentamente all'esterno l'aria che si era accartocciata lungo la gola contro la mia volontà: era la prima volta che mi sentivo così felice nel vedere mio fratello. Lui rise, con quel suo solito ghigno irritante che mi fece immediatamente pentire del mio precedente sollievo, e lasciò cadere a terra il borsone scuro che prima pendeva a tracolla dalla sua spalla destra.

-Ti sono mancato? – mi chiese, con un sorriso sornione; ma nonostante il tono di scherno della sua voce e la solita scintilla ironica che traspariva dai suoi occhi castani, sembrava stanco. Stanco e teso. Stanco e spaventato. Questo pensiero mi provocò un brivido lungo la schiena: mio fratello non era mai spaventato. Mi raddrizzai gli occhiali sul naso e gli lanciai uno sguardo irritato.

-Allora? – domandai bruscamente, apparendo forse più alterato di quanto non fossi in realtà: non sono mai stato molto bravo a gestire l'ansia. Anzi. Andrea si guardò intorno, improvvisamente serio: ma nel piccolo salotto di casa nostra, oltre alle nostre presenze, un divano, un vecchio televisore e un armadio a muro, non c'era nient'altro.

-Lui dov'è? – chiese, continuando a guardarsi intorno cautamente e lanciando un'occhiata verso il corridoio buio alle mie spalle.

-È al lavoro. Siamo soli, tranquillo – L'ultima cosa che volevamo era coinvolgere nostro padre in questa storia.

-Bene- rispose, prima di sedersi sul divano al mio fianco. Io continuavo a guardarlo, in attesa, quasi trattenendo il respiro per lo sforzo di non cedere all'impazienza e iniziare a gridare.

-Ho l'indirizzo – disse finalmente, dopo una pausa ad effetto che mi era sembrata eterna. Sorrise trionfante ed estrasse un foglio di carta piegato in due dal borsone; me lo porse. Io lo afferrai e lo aprii cautamente: sembrava una piantina di una qualche struttura, disegnata a mano con una penna.

-Quella è la cartina del posto– continuò Andrea. Sembrava stranamente professionale, tutto ad un tratto. -Nei registri comunali risulta essere una vecchia fabbrica abbandonata, di proprietà del Comune –

-Come sai che è il posto giusto? – chiesi, continuando ad osservare la piantina: al centro era disegnato un enorme spazio circolare, ma l'unico modo per accedervi sembrava essere una porta che sul foglio era cerchiata in rosso. Cosa significava?

–Amici di amici. Mi è arrivata voce di un tale che ha lavorato per loro. Niente di serio, doveva solo trasportare del materiale: una specie di fattorino–

-Sapeva cosa stava trasportando? – chiesi, senza sapere bene neanch'io il perché della mia domanda. Questa situazione mi sembrava sempre più surreale: una parte di me era ancora convinta che ci fosse una spiegazione razionale a tutto questo. Probabilmente il fattorino doveva trasportare qualche farmaco sperimentale o qualche nuovo macchinario, e quell'edificio era semplicemente ciò che ci era stato detto essere: una clinica medica sperimentale.

Allora perché la loro sede non era registrata? E perché quella regola assurda che vietava qualsiasi tipo di contatto tra familiari e pazienti?

-No, non lo sapeva, ma ha visto il posto ed è riuscito a disegnare questa cartina approssimativa – rispose Andrea, distraendomi dai miei pensieri confusi. Ritornai a guardare il foglio e indicai la porta cerchiata in rosso.

-Questa cos'è? – domandai. Il volto di mio fratello si illuminò improvvisamente: era la stessa espressione che assumeva ogni volta che doveva fare qualcosa di straordinariamente pericoloso o che qualche suo amico gli lanciava una sfida particolarmente difficile. Non mi piaceva affatto quell'espressione. Non mi era mai piaciuta.

-Qui viene il bello! – esclamò, come se mi stesse raccontando la trama di una qualche serie televisiva a tema giallo e non dettagli che avrebbero probabilmente inciso in modo irrimediabilmente negativo sulle nostre vite. –Il fattorino non sapeva cosa ci fosse in questa stanza, è l'unica parte inaccessibile dell'edificio, quindi dev'essere importante-

-E come facciamo ad entrarci? – Il sorriso di Andrea si ampliò se possibile ancora di più.

-Qui entri in gioco tu, mio bel cervellone – Ecco. Lo sapevo. Lo sapevo. Quello sguardo non prometteva mai nulla di buono. –Per entrare serve una combinazione. Sei cifre. – Lo guardai confuso.

-Sei cifre? E allora? Io cosa c'entro? –

-Tu hai una memoria fotografica, giusto? Se riuscissi a vedere da lontano qualcuno inserire la sequenza, forse potresti replicarla imitando i movimenti della mano- 

Rimasi un attimo in silenzio, riflettendo su quel piano: mi sembrava un'assurdità, ma forse non una totale assurdità. Inoltre, era la prima volta che vedevo mio fratello così serio e determinato, perciò decisi di accontentarlo. Annuii, poco convinto. Lui mi sorrise, poi fece per alzarsi e si fermò all'improvviso.

-Quasi dimenticavo! – esclamò, afferrando il borsone da terra e posandomelo sulle ginocchia –Ho comprato qualche giocattolino, guarda dentro-
Infilai la mano senza soffermarmi troppo a riflettere. Le mie dita si serrarono attorno ad una superficie fredda e irregolare, di un materiale che sembrava metallo. Un'agghiacciante consapevolezza si arrotolò attorno al mio intestino come un'enorme morsa di ferro. Un grido strozzato (e, devo ammettere, non troppo virile) uscì dalla mia gola.

-Sei impazzito! – urlai, facendo ricadere l'oggetto all'interno della borsa e alzandomi in piedi di scatto.

-Una pistola! Una cazzo di pistola! – Mio fratello si era rannicchiato su un angolo del divano e rideva così forte da doversi tenere lo stomaco con le mani. Provai all'improvviso l'impulso primordiale quasi irresistibile di serrargli le dita intorno alla gola e stringere fino a che quei rantoli di risa assolutamente fuori luogo si fossero placati. Cercai di calmarmi, ma faticavo a respirare e sentivo il cuore nel mio petto quasi esplodere da quanto era aumentata la frequenza del suo battito. Una pistola. In casa nostra. E io l'avevo toccata. Sentivo che stavo per avere un attacco di panico; mi aggrappai disperatamente alla poca razionalità che mi era rimasta.

-Un porto... un porto d'armi – riuscii a farneticare, tra un respiro scomposto e l'altro –non puoi avere una pistola, ci vuole un porto d'armi! Come hai fatto ad averla? –

-Ho degli agganci – rispose Andrea, che aveva fortunatamente smesso di ridere. Scossi la testa.

-No... questo è illegale- Indietreggiai, continuando a scuotere la testa: non avrei mai dovuto fidarmi di mio fratello; la situazione ci stava decisamente sfuggendo di mano –Non posso farlo Andre, stiamo facendo una cazzata- Feci per girarmi e dirigermi verso il corridoio, ma la sua mano si serrò sul mio braccio, stringendo. Feci una smorfia di dolore e cercai di divincolarmi, ma la sua presa era troppo forte.

-Davide- sussurrò. La sua voce era stranamente calma. Lo guardai negli occhi: era serio –è per mamma –

Mamma.

Il volto scarno e pallido. Le labbra tremanti. La porta dell'ascensore.

All'improvviso non ebbi più dubbi.

-D'accordo, ci sto – annunciai, mentre il primo sorriso di quella lunga giornata affiorava sulle mie labbra. Era un sorriso freddo, che trovò il suo gemello sul volto deciso di mio fratello. –Andiamo a distruggere quella dannata clinica-

Il mattino dopo mi trovò più stanco e molto meno determinato, ma comunque in piedi: capelli scompigliati, occhi ancora densi di sonno dietro alle lenti degli occhiali, palmi delle mani sudate nonostante il freddo, il coltellino tascabile probabilmente inutile che premeva contro la mia coscia destra: ero pronto, per quanto possibile. Mio fratello, apparentemente molto più calmo di me (come sempre, d'altronde) scese dalla macchina e io lo imitai. Di fronte a noi si ergeva un edifico rettangolare, largo e non molto alto; le pareti grigie brillavano al sole contornando un'elegante porta a vetri posta al centro.

-Non sembra una fabbrica abbandonata – commentò Andrea, osservando perplesso la struttura apparentemente nuova che ammiccava sprezzante e silenziosa davanti a noi.

-Il miglior modo per nascondersi è non nascondersi affatto- risposi.

-Già, andiamo- Senza dire altro, mio fratello si incamminò con passo tranquillo verso la porta a vetri. Dopo un secondo di indecisione, lo seguii. Le due ante scorsero dolcemente di lato al nostro passaggio, ponendoci davanti un atrio ampio ed illuminato, simile alla sala d'ingresso di un ospedale. In fondo alla stanza, esattamente di fronte a noi, si trovava il bancone della segreteria; alla nostra destra c'era un piccolo bar e a sinistra si affacciava un ampio corridoio dal quale entravano ed uscivano molte persone; alcune con il camice, altre vestite normalmente. Uomini, donne: persone normali.

Che ci stessimo sbagliando? Che questo fosse tutto un gigantesco e terribile errore?

Mi morsi il labbro e continuai a camminare, seguendo Andrea che con passo sicuro si dirigeva verso il corridoio, unendosi al via vai di persone che entravano ed uscivano. Camminammo in silenzio per qualche minuto; salimmo lungo una rampa di scale, girammo a destra ad una svolta, poi ci fermammo: davanti a noi c'era una porta chiusa. Secondo la cartina, oltre quella porta c'era un altro corridoio, che si sarebbe concluso con la porta del codice. Mio fratello pose la mano sulla maniglia e girò: niente da fare. Nel punto in cui solitamente ci sarebbe stata la serratura c'era una fessura sottile, orizzontale, lunga circa dieci centimetri.

-Andre, penso serva una specie di badge per entrare- sussurrai, anche se non c'era davvero bisogno di sussurrare: il corridoio era piuttosto affollato e nessuno stava facendo particolarmente caso a noi due -Dev'essere il cartellino identificativo che danno al personale, come facciamo a... -

-Ti ho trovata, finalmente! – esclamò mio fratello ad alta voce, interrompendo bruscamente il mio discorso. Rimasi con le labbra dischiuse per un attimo, il volto fermo in un'espressione che non doveva apparire particolarmente intelligente; poi mi resi conto che Andrea non stava più parlando con me: si era girato a guardare qualcuno alle mie spalle, con un sorriso affascinante (e anche piuttosto ipocrita) stampato sul viso. Mi voltai lentamente: dietro di me, una ragazza alta e sottile, ferma in mezzo al corridoio, ci stava guardando perplessa. Il volto pallido ma grazioso era contornato dai pochi ciuffi di capelli castani evasi dal fermaglio che tentava di tenerli raccolti, e i grandi occhi azzurri erano spalancati e confusi. Quando il suo sguardo, che si muoveva disorientato a destra e sinistra, si posò per un secondo su di me, sentii un'improvvisa ed irritante sensazione di calore avvolgermi le guance e un masso particolarmente pesante bloccarmi per un attimo la bocca dello stomaco.

-Scusa, stai parlando con me? Credo tu abbia sbagliato persona... - rispose la ragazza, esitante.

-Non eri tu, ieri sera? – ribatté mio fratello, con voce apparentemente allarmata, scostandomi con uno spintone e ponendosi tra me e lei. Lei sembrò riflettere per un momento, improvvisamente curiosa.

-Oh, ieri sera, intendi alla festa di pensionamento di Mario? –

-Esatto! – replicò lui, entusiasta. Peccato avesse già trovato lavoro in un'officina: in un'altra vita avrebbe dovuto fare l'attore. –Ho cercato tutta la sera il coraggio di parlarti, ma proprio quando stavo per trovarlo sei sparita- Mio fratello che cercava il coraggio di parlare con una ragazza? Sentii un moto di risa incontrollato scaturire dalla mia gola e quasi nello stesso momento la scarpa di Andrea affondare con forza sul mio piede, troncandolo sul nascere. Mi morsi le labbra, per sopprimere un gemito di dolore. La ragazza, intanto, era visibilmente arrossita.

-Oh, e cosa volevi dirmi? –

Mio fratello rise, imbarazzato. Imbarazzato? Dannazione, era davvero bravo a recitare.

-Ti andrebbe di uscire con me? – Un secondo di silenzio. –Ora, intendo- aggiunse lui.

-Ora? – Il volto della ragazza sembrava sempre più rosso. Inutile dire che probabilmente non si era neanche accorta della mia presenza: possibile che mio fratello facesse sempre questo effetto sulle donne?

-Sì. Stai staccando, no? – chiese Andrea, lanciando un'occhiata ai vestiti della ragazza: non stava indossando una divisa.

-In effetti sì... Non mi sembra di averti mai visto qui in giro, però. Sei nuovo? –

-Che ne dici se rispondo a questa domanda davanti ad un caffè? – replicò lui, prontamente. Lei scoppiò a ridere.

-D'accordo, mi hai convinta –

-Perfetto, andiamo! – Mio fratello avanzò allegramente verso di lei. Io rimasi a guardarlo sbigottito: cosa stava facendo? Aveva davvero intenzione di uscire con quella ragazza? In quel momento? Mi sembrava troppo persino per lui. Dopo pochi passi, infatti, si fermò.

-Oh, accidenti, aspetta – mormorò, come se si fosse appena ricordato una cosa –devo assolutamente andare a recuperare una provetta, ci metto un secondo – Tornò indietro, si avvicinò alla porta chiusa e iniziò a frugare inutilmente dentro le tasche dei jeans.

-Cazzo! – sbottò –Devo aver dimenticato il badge a casa – Si voltò verso la ragazza, che lo stava guardando preoccupata. –Mi dispiace, ma se non recupero questa provetta è la volta buona che mi licenziano – continuò Andrea, imperterrito, del tutto immerso nella sua parte. Non sapevo se provare disgusto o ammirazione: ma, riflettendoci a fondo (forse non così tanto a fondo), propendevo più per il disgusto.

–Forse è meglio rimandare l'uscita- concluse. Fece una pausa. La ragazza sembrava sforzarsi di celare la delusione, ma senza troppi risultati.

-A meno che tu... - riprese mio fratello –Insomma... se potessi prestarmi il tuo badge... - Lei rimase immobile per un attimo, indecisa. Io e Andrea la guardavamo in silenzio: lui sembrava tranquillo, ma sapevo che era teso almeno quanto me.

-D'accordo – rispose lei, alla fine. Incredibile. Era davvero riuscito a convincerla. -Torno subito, l'ho lasciato dentro al camice, nello spogliatoio-

-Grazie mille! – esclamò Andrea, mentre la ragazza si voltava e spariva correndo lungo il corridoio. Io mi girai indignato verso di lui.

-Te ne ho visti fare di scherzi alle donne, ma questo è il più lurido, il più schifoso, il più... - Non potei continuare il mio bellissimo discorso a causa di quell'idiota di mio fratello e della sua mano che stringeva il mio esile e delicato collo.

-Okay, mi rimangio quanto detto! –

-Sarà meglio per te chiudere quella boccaccia! – Mi intimò lui accogliendo con un dolce sorriso quella povera ragazza, già di ritorno.

Perché non sono figlio unico?

-Ecco a te- disse lei, porgendogli sorridendo il suo badge –Ma non metterci troppo-

-Vado e torno – affermò lui, con un sorriso malizioso. Fece scorrere il badge nella serratura e non appena la porta si aprì mi afferrò per un polso e mi trascinò dentro, insieme a lui.

Una luce soffusa proveniente dal corridoio, appena sufficiente attraverso la fessura della porta a farmi distinguere vagamente la forma dei miei piedi. Il mio respiro pesante, unito a quello di mio fratello in un confuso rantolo irregolare, che mi riempiva le orecchie e sembrava la colonna sonora dei miei pensieri agitati. Da quanto tempo eravamo nascosti in quel ripostiglio affacciato sul corridoio, ormai? Forse solo pochi minuti. Forse ore. Intravedevo la porta, in fondo al corridoio, alla mia destra: piuttosto grande, di metallo; accanto c'era una tastiera. La tastiera che molto probabilmente avrebbe segnato la fine della nostra piccola avventura: più aspettavo, in silenzio, al buio, più la follia di quel piano che all'inizio mi era parso solo parzialmente assurdo assumeva proporzioni sempre più gigantesche. All'improvviso un movimento alla mia sinistra. Il cigolio di una porta che si apriva, una luce più intensa, rumore di passi. La mano di mio fratello si serrò con forza attorno al mio polso; nella penombra lo vidi voltarsi verso di me e rivolgermi uno sguardo che doveva significare: "tocca a te". Come se avessi avuto bisogno di un'altra dose di ansia. Mi divincolai dalla sua presa e gli feci cenno di tacere. La persona appena entrata avanzò lungo il corridoio, sempre più vicina al punto in cui eravamo nascosti. Mi ritrassi spaventato, vedendo le sue scarpe colpire il pavimento e il camice svolazzare a pochi centimetri da me. Superò in silenzio lo sgabuzzino dentro al quale eravamo nascosti e si diresse verso la porta. Irrigidii i muscoli: era il momento. Strinsi le aste degli occhiali nell'irrazionale tentativo di vedere meglio: fu un istante. La mano dell'uomo si portò verso la tastiera, digitò in fretta qualcosa, la porta si aprì e lui scomparve all'interno. Troppo. Decisamente troppo veloce. Rimasi in apnea per un attimo: mio fratello continuava a non parlare, mentre io cercavo disperatamente di ripetere l'immagine dentro la mia testa, di assorbirla, di congelarla. Aspettammo qualche minuto per assicurarci che l'uomo entrato fosse ormai discretamente lontano, poi Andrea mi afferrò per un braccio e mi trascino verso la porta.

-È il momento- sussurrò, spingendomi gentilmente verso la tastiera. Io la guardai, esitante, ma la mia mente continuava a distrarsi: mia madre, il codice, gli occhi azzurri di quella ragazza... Il codice. Cercai di concentrarmi. Una gocciolina di sudore mi scese sul lato del viso, quella combinazione era più difficile del previsto. Sei numeri e tantissimi modi diversi di combinarli.

-Ce la puoi fare- mi sussurrò mio fratello che nel frattempo mi stava dando le spalle, non potevamo sapere se fosse arrivato qualcuno ed era meglio essere certi che non ci fossero testimoni.

-Quella ragazza che hai ingannato, sei stato un'idiota-

-Però ha funzionato, ora sta' zitto e muoviti a trovare la sequenza esatta- Feci un respiro profondo, cercando di mantenere la calma: per quanto mio fratello fosse stato un insensibile, aveva ragione. Il suo piano aveva funzionato: eravamo davvero lì. Tra noi e i possibili segreti di quella clinica solo una porta. Non c'era più tempo per pensare ad altro. Chiusi gli occhi, cercando di rivivere la scena di pochi minuti prima.

Sono raggomitolato in quello sgabuzzino. Il mio respiro pesante spezza il silenzio. Davanti a me, nel corridoio, un uomo. Allunga la mano verso la tastiera.

La mia mano fece lo stesso.

Le sue dita si muovono sui tasti, velocemente.

Le mie dita iniziarono a muoversi in contemporanea.

Destra. Sinistra. In basso a destra. Centro. In basso a sinistra. In alto a destra.

Destra. Sinistra. In basso a destra. Centro. In basso a sinistra. In alto a destra.

Clic.

Clic.

Aprii gli occhi di scatto, per assicurarmi di non aver udito il suono solo dentro la mia testa: la porta era aperta.

-Sì! – sussurrò mio fratello, in un grido silenzioso, afferrandomi le spalle da dietro e scuotendo il mio corpo momentaneamente paralizzato –Ce l'hai fatta! Lo sapevo, ce l'hai fatta! Sei un grande! – Mi stampò un bacio sui capelli, continuando a scuotermi. Iniziai lentamente a realizzare: ce l'avevo fatta. Ce l'avevo davvero fatta. Scoppiai a ridere e abbracciai Andrea.

-Forza, entriamo – sussurrai, dopo un altro secondo di silenziosa manifestazione di gioia. Oltrepassammo la porta, lentamente.

Un'enorme stanza circolare, asettica e fredda. Lunghi banconi disposti parallelamente, a pochi metri di distanza l'uno dall'atro. Ovunque erano posizionati microscopi, provette, ampolle, becker e altro materiale da laboratorio. La mia attenzione fu attratta da degli enormi contenitori di vetro posti lungo le pareti: all'interno, in un liquido trasparente, navigavano strane forme indefinite; si stavano muovendo o era solo una mia impressione?

-Questo posto è inquietante – sussurrò mio fratello, la voce improvvisamente spezzata. In un altro momento avrei colto l'occasione per prenderlo in giro, ma mi sentivo esattamente come lui, perciò mi limitai ad annuire. Nella stanza non sembrava esserci nessuno. Mi avvicinai cautamente al bancone più vicino: c'erano molti fogli sparsi tra i vari macchinari, probabilmente appunti degli scienziati. Iniziai a leggere distrattamente; ma più leggevo più sentivo una sensazione di vuoto piombo avvolgermi le articolazioni, invadermi gli organi, congelarmi le ossa. Frammenti di frasi sparse si inerpicarono nel mio cervello; frasi che iniziavano ad assumere un significato ben preciso.

Cavia numero 35. Sperimentazione 3B. Effettuato intervento di amputazione. Riscontrati effetti collaterali. Cavia numero 36. Esperimento fallito. Cavia numero 37...

Tremai.

-Oh mio dio... - Il sibilo ovattato uscito a fatica dalla mia gola non sembrava neanche un vero suono.

-Cosa? Cosa c'è? – La voce tesa di mio fratello alle mie spalle mi arrivò come da un luogo lontanissimo.

-Esperimenti... Fanno esperimenti per testare nuove cure o trovare i geni responsabili delle malattie-

-E allora? Non è quello che la scienza fa da sempre? – Mio fratello continuava a non capire. Scossi la testa, sempre più sconvolto, cercando di formulare a parole il terribile presentimento che aveva preso corpo come un morbo nel mio cervello.

-Sì, ma loro non li fanno sugli animali... - Vidi il disgusto profondo prendere il posto della confusione sul volto di mio fratello; aprì la bocca per dire qualcosa, poi...

Un suono.

Secco. Potente. Assordante. Una macchia scura sulla felpa di mio fratello. Viscosa. Densa. Sempre più larga. Gli enormi pozzi di nero catrame che mi fissavano immobili e spalancati da quel volto di cera non erano gli occhi di mio fratello, ma di uno sconosciuto. Quel fantoccio di carne incredibilmente pesante che mi crollava addosso rischiando di farmi cadere all'indietro non sembrava un corpo umano. Quel liquido caldo e grumoso che dal suo stomaco ora impregnava la mia camicia, penetrando oltre la stoffa, bagnandomi la pelle sudata, non era sangue. Non poteva esserlo. Dalla mia visuale confusa vidi una figura (forse un uomo? Forse una guardia? Forse la morte?) ferma davanti alla porta dalla quale eravamo entrati noi. Forse gridava. Stringeva in mano qualcosa. Una pistola.

-Davide scappa- Il gemito soffocato uscito dalle labbra esangui di mio fratello mi restituii la lucidità –Devi andare a cercare mamma- Ma fu la rabbia ciò che sentii. Una rabbia cieca, così distante dal mio abituale carattere da non sembrare neanche un sentimento proveniente da me, bensì qualcosa di esterno, che penetrava in ogni mia cellula e mi infettava.

Mio fratello.

Mio fratello che si metteva sempre in pericolo.

Mio fratello che anche con un proiettile nello stomaco non pensava a sé stesso.

Mio fratello che stava morendo.

Vidi la mia mano allungarsi come dotata di vita propria verso il fianco di Andrea e afferrare l'oggetto nascosto sotto la sua felpa insanguinata. Vidi il mio braccio tendersi in avanti, le dita stringersi convulsamente attorno alla pistola.

Mi vidi premere il grilletto.

Un colpo.

Sibilante e spaventoso. Qualcosa che fendeva l'aria ad una velocità allarmante. Grida. La figura davanti a noi che si accasciava in un'altra pozza di liquido scuro. Il calore della pistola contro il palmo della mano mi parve all'improvviso insopportabile. La lasciai cadere a terra. L'uomo non si muoveva. L'avevo fatto? L'avevo fatto davvero?

L'avevo ucciso?

Ma non c'era tempo per pensare. Sentivo delle voci provenire dalla porta aperta. Misi una mano sotto l'ascella di mio fratello, che si stava aggrappando disperatamente al mio collo per non cadere, mi girai ed in fretta mi diressi verso il fondo della stanza circolare. Raggiunsi la porta e l'oltrepassai, riuscendo a trascinare il peso di mio fratello solo grazie all'adrenalina e alla pura forza della disperazione. Mi fermai pochi metri dopo, stremato: eravamo in un corridoio bianco, simile a quello di un ospedale; su ogni lato una fila di letti.

-Davide- La voce esile e quasi effimera che si era materializzata nell'aria sembrava provenire da uno dei letti, in una zona del corridoio in penombra poco più avanti. Sentii i muscoli di Andrea irrigidirsi contro i miei e i peli delle mie braccia rizzarsi. Guardai esitante verso quell'angolo buio, incapace di avanzare, pietrificato dalla paura di ciò che avrei potuto vedere.

Conoscevo quella voce.

O la versione integra di quella voce. 

-Mamma? –

[Parole: 3999]

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