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Capitolo 10

.10.

GEMMA

Smettila di incasinarmi la vita!

Tristan Lee era - e sarebbe stato - un enigma oscuro: insidiatosi nelle pieghe della mente, sibilando parole velenose, e ipnotizzando con le pupille animalesche, da rettile, dietro le lenti scure. La volontà di resistergli si dissolveva come neve al sole, e le svariate difese innalzate per protezione, cadevano inevitabilmente a terra. Attorno a lui c'era sempre un alone di tenebre ad avvolgerlo, la luce sembrava ripudiarlo. E come darle torto? I mostri sono notturni, dopotutto.

Eppure, il suo viso, così vicino al mio, mi provocava uno strano desiderio. Il desiderio d'essere sull'orlo della morte per poter assaporare ancora una volta il sangue viscoso. Avevo fame, e sete, del cobra reale. E questo mi terrorizzava: «Cosa mi stai facendo?», esalai senza fiato, tuffandomi nel suo sguardo profondo. La paura mi mozzava il respiro, affievolendo ogni raziocinio.

Lui scostò la mano dalla gola per carezzarmi i ricci ribelli. A differenza mia, parve apprezzare la natura ribelle della chioma. «Non lo so, ma voglio ssscoprirlo, Cosina», mormorò, sfiorandomi le labbra con le sue. Percepivo il timbro della sua voce vibrare dentro la mia testa, incitandomi a baciarlo. Tutto il contorno divenne sfocato, come se la mia vista subisse un veloce degrado. Non distinguevo più la ragione dall'istinto, in lotta fra loro, e persino la mia coscienza si ammutolì di colpo.

Fu allora che un maschio, uno della Congrega, spalancò la porta di soprassalto: «Tristan, Silene è scap... Ma che cazz...?!». Al suono del singulto, sussultammo all'unisono, riprendendoci dallo shock momentaneo solo in un secondo momento, e prendendo le dovute distanze.

Cosa diavolo stavamo facendo?!

«Gavriel, che tu sia dannato... tu e i tuoi maledetti arrivi improvvisi!», fulminò il compagno di guerra con un'occhiataccia.

Come avevamo fatto a non udirlo?

«Silene è fuggita. Si è recata dagli erbivori per farsi catturare e condurre da Seth per liberarlo da sola, e visto che lui stesso ti ha affidato la cerva, non sarò io a subire le pene dell'inferno, brutto stronzo! Perciò smettila di folleggiare col tuo piatto preferito e muovi il culo», gli urlò senza attenderlo.

Non ebbi modo di notare la confidenza con cui battibeccavano, il mio cervello si era fermato a Silene: «Cosa?! Così la giustizieranno!», avvertii nel panico. Percepivo le guance scottare dall'urgenza di riportarla indietro.

«Non se interveniamo noi», mi suggerì Tristan, imboccando l'uscita.

Affrettai il passo, correndogli dietro: «Io vengo con te».

Lo vidi scuotere il capo mentre si legava i capelli corvini: «No, è fuori questione». Camminavamo svelti, a malapena sfioravo il vecchio parquet con la pianta dei piedi, e nonostante questo, lui era costantemente fuori portata.

«Perché?!», sbottai. Non volevo certo morire, ma Lene era la mia più cara amica - e l'unico dei due appigli d'affetto che mi fosse rimasto.

«Mi servi viva, ancora», si limitò a dirmi senza voltarsi per guardarmi in faccia.

Mi bloccai di colpo: «Non decidi della mia vita», precisai con rabbia. I pugni chiusi e le braccia rigide lungo i fianchi.

Anche Tristan si stoppò di colpo, e un brivido mi solcò le perle dorsali. Inclinò il volto di trequarti, svelando il profilo: «Oh sì, invece. Da adessso, tu mi appartieni, Gemma», rivelò maligno. Ci fu un luccichio sinistro nelle pupille, ma non mi lasciai intimidire.

Presi il coraggio a due mani e mi opposi: «Io non sono un tuo sottoposto. Puoi meditare tutte le vendette che vuoi contro di me, ma non mi comanderai a bacchetta!». Buttai fuori l'aria, svuotando i polmoni. Lo sforzo di parlargli era stato immane.

Mi sorrise giocondo, e con apparente innocenza: «Scommettiamo?».

Prima che potessi scorgere un qualsiasi altro movimento, spense la luce del corridoio, piombando nel buio assoluto. Io non vedevo niente, lui invece, guardava prodigiosamente bene. Percepii le sue braccia arpionarmi il bacino e caricarmi in spalla come se pensassi niente. «Cos... No, fermo! Non potrai tenermi chiusa qui, per sempre! Ti serviva il mio aiuto ricordi?!», provai a ribellarmi, ma gli sforzi si rivelarono tutti vani.

«Non è ancora il tuo momento. Lo deciderò io quando potrai partire all'avventura e farti uccidere», si beffeggiò di me prima di scaricarmi malamente sul materasso.

Una scossa di dolore mi attraversò il corpo, indebolendo i sensi e la reattività. Chiuse la porta e ne bloccò il pomello, serrandomi dentro prima che potessi anche solo pensare di poterlo fermare.

Mi precipitai contro al legno massiccio, battendo i palmi per essere scagionata: «Fammi uscire, fammi uscire subito!», protestai, ma sapevo che sarebbe stato tutto inutile. E nonostante questo, continuai a dibattermi, e gridare il diniego fino a sgolarmi. Perché essere una prenda non equivaleva all'arrendevolezza. Le urla squassarono il mio busto: «TRISTAN!», chiamai ancora con le lacrime agli occhi: «Non rinchiudermi di nuovo», singhiozzai senza più voce.  Ti prego, non l'avrei mai aggiunto, perché, dopotutto, avevo ancora la mia dignità.

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