Capitolo 5
Faye
Non vengo trascinata. Nessuno osa toccarmi.
Quando Hermann si volta con quel sorrisetto viscido e gli occhi brillanti di eccitazione, per poco non gli vomito addosso.
«Hai un posto migliore di questo per divertirti con la verginella dei Wild?», gli domanda con sprezzo, stringendomi al contempo le guance con una mano e chiudendo la patta dei pantaloni con l'altra. «Avrei una certa fretta. Non so se mi spiego», ridacchia, strizzando il rigonfiamento che si intravede sul cavallo. «Me lo ha fatto rizzare non appena l'ho vista», aggiunge dopo aver mollato la presa, accostando una mano sulla bocca come se gli stesse sussurrando un segreto.
Ora che è stato interrotto, non mi guarda, ma sento che sta fremendo per portare a termine il compito o la sfida che gli è stata lanciata per poter ottenere in cambio quel qualcosa che tanto brama. Ma non è stata la mia amica, bensì uno dei suoi a spingerlo a un atto così vile. Sono noti per i loro giochetti. Le ragazze spettegolano sempre sulle gesta eroiche dei loro fidanzati.
E se invece fosse stata lei? Interviene dubbiosa la vocina nella mia testa.
Rhett non si muove. I suoi lineamenti rimangono severi e la sua espressione appare inespressiva, come se niente potesse mai scalfirlo, neanche la vista della sua futura moglie drogata, con le lacrime agli occhi, il mascara sbavato e il vestito ancora sollevato sulle cosce per il tentativo di violenza. Tutto ciò che fa è strizzare appena la palpebra. Questo basta a far agitare Hermann.
Guardare Rhett sta diventando pericoloso. Le luci poste sopra i lavandini non sono sufficienti a illuminare il suo volto, ma al contempo sono abbastanza da far mutare le sue iridi nel colore di una nebbia nel bel mezzo di una tempesta.
«Andiamo», replica abbottonando metodicamente la giacca del completo scuro, facendomi rabbrividire. Conosco il significato di quel gesto. Inoltre, è impossibile non percepire la sua minaccia.
Rhett Blackwell, al momento emana un'aura violenta, a stento tenuta a bada e nascosta dietro quell'aria da gentiluomo. Ma ai miei occhi appannati dalle lacrime, appare come uno squalo che ha appena fiutato l'odore del sangue. Una fiera pericolosa e acquattata nell'ombra più profonda, in paziente attesa.
Hermann non se lo fa ripetere, e anche se si volta, forse pensando di potermi caricare in spalla o toccare ancora con le sue luride mani, sembra ripensarci uscendo tronfio dal bagno. A quel punto, quando sta per dire qualcosa, viene afferrato bruscamente da Faron e Dante. Prima che possa capire le loro intenzioni, viene colpito alla mascella e trascinato via dal bagno in uno stato di semi-incoscienza.
Rhett si avvicina e abbassandosi sulle ginocchia mi scruta. Mi solleva sulla spalla una bretella del vestito senza toccarmi la pelle. I suoi occhi scivolano sulle mie gambe nude e tirate al petto. Nota l'impronta delle mani di Hermann sulla pelle, gli slip di seta un po' stropicciati e le sue narici si dilatano.
In qualche modo mi sento sporca.
«Puoi...», non riesco a parlare. Il mio tono fuoriesce roco e incerto. Mi blocco di fronte a lui, neanche fosse la prima volta che lo vedo. Dopo l'ultima è passato sicuramente un po' di tempo.
«Punirlo? Oh, lo farò. Eccome se lo farò, piuma».
«Non intendevo questo», dico, abbassando le gambe. Tiro giù il tubino, notando meglio i segni sulla pelle lasciati dalla pressione delle dita di quel coglione. Una parte di me spera che gliele spezzino durante gli allenamenti.
Non ottenendo risposta, sollevo la testa e Rhett sta guardando proprio quelli.
Si solleva con grazia porgendomi la mano. Esito un momento prima di adagiare la mia sul suo palmo e lasciarmi aiutare.
Rhett è molto alto e stasera la sua imponenza mi mette in soggezione.
«Vieni con me».
«Dove?»
«Devo portarti in braccio o puoi camminare?»
Non otterrò nessuna risposta, lo comprendo dal modo in cui sta deliberatamente evitando di fissare ancora i lividi.
Ultimamente il mio corpo sembra un sacco da boxe dove chiunque sfoga la propria rabbia.
Rhett si avvicina, pronto a prendermi in braccio. Lo fermo premendo il palmo sul suo petto. È sodo e la sua pelle è calda come magma incandescente per le mie gelide dita intorpidite dalla paura.
«Posso camminare».
Intreccia saldamente le nostre dita e mi porta fuori dal bagno, assicurandosi che io non barcolli.
È difficile non farlo. Ho ancora in circolo qualsiasi cosa mi abbiano somministrato tramite alcol. Una cosa è certa dopo stanotte, non riuscirò più a bere niente in un locale.
Superiamo la fila di ragazzi in attesa lungo un corridoio stretto e pieno di pannelli coperti da polaroid e saliamo le scale a chiocciola che conducono al piano superiore, in un soppalco diviso in stanze private.
Rhett non bussa e non si cura di poter disturbare, si limita a entrare nella stanza neanche fosse il padrone. Il che probabilmente è così. I Blackwell possiedono molti dei locali in questa zona.
Non mi lascia andare, piuttosto mi avvicina un po' di più a sé. Non come se dovesse tenermi d'occhio e non si fidasse dei miei riflessi, quanto piuttosto come se sentisse il bisogno di farlo, di avere tutto sotto controllo.
Il posto non è che uno spazio con dei pouf di camoscio in alternanza blu e grigio disposti a mezzaluna e un tavolo basso pieno di bottiglie e bicchieri da riempire al centro. C'è un secchiello contenente il ghiaccio e una bottiglia di champagne ancora da stappare, un tappeto morbido al di sotto.
Siamo in una delle stanze private che la gente usa per allontanarsi dalla folla o da sguardi indiscreti; deduco soffermandomi sulla confezione di preservativi posti sull'unico mobiletto all'angolo.
Al centro della stanza, in ginocchio e con i polsi legati dietro la schiena, Hermann fissa sbigottito il nostro arrivo.
Dante e Faron lo hanno denudato concedendogli soltanto la possibilità di poter tenere i boxer.
La loro non è una vera e propria concessione, non se hanno legato i suoi polsi con la sua stessa camicia.
«Amico io non lo sapevo», piagnucola, non del tutto sobrio.
Rhett ci conduce fino a una poltrona e dopo averla trascinata davanti a Hermann, si siede e mi prende in grembo.
Dal modo in cui il suo corpo non si rilassa, comprendo di non dovermi lamentare o opporre resistenza facendo una scenata. Cosa che il mio istinto, al momento, vorrebbe fare.
Quando il suo braccio mi circonda la vita, sussulto e dalla bocca mi sfugge un verso smorzato dalla sua domanda, rivolta ai fratelli, che rimbomba nella stanza come un tuono. «Cosa sappiamo?»
Non sbatte nemmeno le palpebre.
«Ha bevuto un paio di bicchieri prima di tirare un po' di roba e accettare una scommessa. Afferma di essere stato coinvolto dalla sua amica, Joleen, la quale al momento si trova in una di queste stanze, a spassarsela con uno della squadra», riassume Faron.
Le dita di Rhett prendono a battere sul bordo della poltrona. Un ritmo cadenzato, ma sospetto che possa nascondere ben più della sua calma apparente.
«La ragazza che abbiamo trovato dietro la porta?»
«Era coinvolta. Non ha negato o tentato di scappare quando l'abbiamo fermata. Doveva fare da palo. Aspettava che questo pezzo di merda finisse. Con quel telefono che hai in mano stavano filmando tutto. Adesso lei è di sotto, il nostro uomo la sta tenendo d'occhio, in attesa di un tuo comando».
A ogni nuova rivelazione, rabbrividisco, mi sento sul punto di svenire.
Se è vero, se Joleen mi ha giocato questo brutto tiro, non riuscirò a perdonarla per niente al mondo. E quando la verità verrà a galla, farò in modo che lei paghi.
«Il video per chi era?», domanda gelido Rhett, osservando il telefono che ha adagiato sul tavolo basso.
«Io... non lo sapevo. Dico sul serio», latra spaventato Hermann.
Le dita di Rhett si fermano a mezz'aria, quelle adagiate al mio fianco premono appena. Con il pollice mi lascia qualche carezza che allevia un po' questo senso di impotenza.
«Il video per chi era? A chi dovevi mandarlo?»
Dante spinge Hermann a terra. «Rispondi», lo minaccia sollevando il pugno.
«Dovevo mandarlo alla sua amica, Joleen».
«Sai perché o cosa voleva farci?»
Scuote la testa. «Non lo so!», mente, lanciando un'occhiata alla porta.
«Procedi!», ordina Rhett a Dante.
Hermann urla quando viene colpito all'addome. «Ti conviene cantare, stupratore del cazzo», gli ringhia il fratello minore dei Blackwell, ancora una volta coinvolto a causa mia.
Hermann si piega in due dal dolore, ma ha il coraggio di guardarlo storto. «Chi cazzo sei per farmi questo, eh?»
Dante ghigna e lo colpisce al volto mettendolo a tacere. «Rispondi alla domanda se non vuoi apparire di fronte alle telecamere con il viso color melanzana e un tatuaggio permanente sulla fronte».
Hermann sgrana gli occhi. «Quali telecamere?»
«Quelle che ti riprenderanno quando sarai accusato di tentato stupro ai danni di una minorenne, cazzone. E non solo, avrai anche l'aggravante di essere sotto effetto di alcol e sostanze».
«Un bel modo di fottersi la carriera», fischia sorridendo Faron. «Be', che dire, i tuoi compagni più ambiziosi prenderanno bene questa notizia. In quanti hai scavalcato per il ruolo di capitano grazie agli agganci di paparino?»
«Non potete farlo! Andiamo, non sono andato oltre», mi fissa adesso come se volesse chiedere il mio aiuto.
Distolgo lo sguardo, mi ritraggo, disgustata e colpita da un brivido simile a minuscole zampe di un ragno sulla pelle.
«Diglielo! Digli che ti stavi divertendo...»
«Fallo stare zitto, cazzo!», brontola Faron, il quale ha preso il telefono e sta guardando proprio il video. «O lo faccio fuori».
Dante lo colpisce alla mascella. Nella stanza rimbomba il rumore di qualcosa che viene spezzato e subito dopo vediamo Hermann sputare un fiotto di sangue.
«Non prenderci per il culo. Abbiamo sentito tutto. E adesso sto anche vedendo con i miei occhi», Faron indica lo schermo.
«Non è così! Lei si stava divertendo. È come tutte le altre. Andiamo, voleva provare qualcosa di nuovo. Voleva liberarsi della verginità con un atleta. Faceva solo la timida».
Rhett mi sposta per alzarsi. Provo a trattenerlo, ma mi basta un suo cenno per capire che ha raggiunto un limite.
Si piega davanti a Hermann. Proprio come ha fatto poco prima con me. Solo che stavolta fa scattare davanti a lui un coltellino con l'impugnatura in rilievo che teneva nella tasca interna della giacca del completo che indossa. La lama luccica sotto il raggio delle luci rosa che circondano la parete.
«Cosa ne avrebbe fatto di quel video?»
Hermann deglutisce. Quando la lama gli si avvicina al collo strizza gli occhi. «Joleen lo avrebbe inoltrato ad alcune persone, per riempire le chat del liceo e forse anche del college. Era un modo per controllarla o che ne so, per sfilarle dei soldi o umiliarla. Voleva solo quel video e ha pagato con un po' di roba per farmi accettare. Io non volevo all'inizio, lo giuro».
Rhett attende. Ha capito che Hermann non ha ancora finito.
«Voleva ricattarla, non so il reale motivo. Adesso lasciatemi andare!»
Rhett schiocca la lingua tra i denti e fa scivolare la lama su di lui fino al cavallo dei boxer, dove preme la punta incidendo il tessuto e raggiungendo la carne. Un minuscola goccia presto si trasforma in una chiazza rossa.
«Pensi di potertene andare così? Hai toccato la mia ragazza, cazzo. Nessuno tocca ciò che è mio!»
Non so perché lo faccio. Mi alzo, tenendomi salda allo schienale della poltrona. «Rhett».
Solleva la mano, l'indice alzato per chiedermi un minuto. Preme con l'altra la lama. «Dovrei mozzarti l'uccello e fartelo ingoiare. Ma dato che la mia ragazza ti sta graziando, ti darò solo un avvertimento», smette di parlare di proposito per far innalzare la tensione. «La prossima volta che ti avvicini a Faye o pensi anche solo di aiutare chiunque a farle del male, verrò a cercarti e la tua nuova casa sarà una fossa larga una scatola da scarpe».
L'avvertimento deve aver sortito l'effetto sperato perché Hermann annuisce piagnucolando dal dolore per la ferita e le percosse.
«E se solo scopro che esiste un altro video o che c'è dell'altro...»
«No, lo giuro. È tutto!»
Rhett si rialza pulendo la punta del coltello sulla pelle di Hermann scrivendogli sulla schiena: "Stupratore", facendolo sussultare e piagnucolare a ogni lettera.
«Lasciatemi andare adesso», singhiozza.
Dante lo butta a terra e Faron gli molla un calcio sull'addome.
«Nessuno tocca i Blackwell. Inizia a dirlo anche ai tuoi amici e avvisa quella stronza che la prossima a pagare sarà lei».
Rhett mi porge la mano e ancora una volta obbedisco, nonostante sia un po' scossa.
«Prima di andare, devi chiedere scusa alla signorina».
Hermann avvampa.
«Non è necessario. Voglio solo...», comincio a dire.
Rhett mi ferma e stavolta lo fa con un'occhiata gelida. Con un movimento mi spinge in avanti e mi si preme sulla schiena, con un braccio ad avvolgermi l'addome. Il suo fiato caldo mi accarezza la spalla.
«Allora?»
Hermann trema. «Mi dispiace», balbetta.
Rhett non fa neanche un cenno. I suoi fratelli trascinano fuori Hermann.
Mi volto. «Non lo ammazzeranno, vero?»
Deve leggere il terrore nei miei occhi perché nega. «Gli daranno una bella lezione».
«Rhett», pronuncio il suo nome pronta a fermarlo, ma la vista mi si sdoppia, le gambe mi cedono e rischio di cadere.
Rhett mi solleva. «Usciamo da qui, piuma».
«Devo...»
«Mi occuperò io di tutto».
«Non puoi farlo. Non è a te che volevano violentare per soldi o altro. Joleen mi deve delle spiegazioni».
Soffia aria dal naso e non per lo sforzo quanto per la rabbia crescente. «Faye, fidati di me».
«Non posso».
Usciamo dalla porta secondaria. In fondo alla strada ci attende già un SUV con la portiera spalancata.
Rhett mi sistema sul sedile allacciandomi la cintura e prende posto accanto a me.
«Dove mi stai portando?», domando con voce tremula, incapace di scaldarmi.
Rhett si toglie la giacca e me la sistema sulle spalle.
Il suo profumo raggiunge le mie narici e insieme al gesto carico di premura mi riscaldo.
Faron si mette al volante e Dante prende posto sul sedile anteriore fissando assorto fuori dal finestrino. Non hanno un solo graffio, eccetto le nocche arrossate.
«Dobbiamo farti visitare da un medico».
Accorgendosi che sono sul punto di riaprire la portiera, lanciarmi fuori e scappare, mi afferra la mano. «Non puoi tornare a casa in questo stato. Sarò più tranquillo quando non rischierai di cadere o svenire. Troveremo una scusa da dare ai tuoi nel caso in cui dovessero vederci insieme».
Il cuore mi sta rombando nella gabbia toracica. Un ritmo martellante che mi arriva fino alle tempie. Prendo subito a massaggiarne una. «Perché lo fai?»
«Perché io mi prendo cura della famiglia».
Chiudo gli occhi al suono roco della sua voce. Mi domando cosa pensino i suoi fratelli di questa risposta, poi però ricordo con chi ho a che fare. Anche se non lo dimostrano apertamente, questi ragazzi tengono gli uni agli altri. Hanno un senso radicato della parola famiglia inciso nelle loro esistenze. Mi sento avvolta e coccolata da questa sensazione di appartenenza. Proprio io che non mi sono mai sentita a casa o accettata, adesso, anche solo per un attimo, lo sono. Ed è bello. Al contempo è triste perché questi attimi sono rari come quei fiori che crescono nelle zone più impervie e spesso sono impossibili da vedere.
«Non voglio essere toccata».
«Allora gli dirai quello che senti, i sintomi che hai avuto e lui proverà ad aiutarti. Ti va bene come compromesso?»
I suoi occhi mi coinvolgono emotivamente e vuoi per il fatto che sono sfinita, vuoi perché la paura mi serpeggia ancora sottopelle, accetto.
Noto le sue spalle abbassarsi e il suo braccio circondare le mie. Mi avvicina al suo fianco e preme il mento sulla mia testa. «Non succederà più», promette.
«Non è stata colpa tua».
«Non succederà più», ripete usando un tono più duro.
«Non puoi prenderti carico di ogni cosa che mi succede, Rhett. Questa volta sei arrivato in tempo, ma la prossima?»
La sua mano sale e scende in una carezza lenta e calcolata dalla spalla all'avambraccio. «Non voglio pensare a una prossima volta. A stento riesco a reggere questa. Avrei voglia di trovare quel coglione e tagliargli davvero l'uccello in modo tale che non faccia del male a nessuno o abbia una stirpe. Non oso immaginare come ti sia sentita o come ti senti adesso. Ma sei al sicuro».
Sollevo la testa e lui abbassa la sua. Il suo fiato caldo al gusto di menta e di qualcosa di cremoso, come un liquore alla vaniglia, mi raggiunge e lo inalo sentendomi ancora un po' persa e aggrappandomici per non sentirmi inerme. Perché debole lo sono stata. Non sono riuscita a cogliere i segnali in tempo per salvarmi da sola. Non sono stata in grado di respingere Hermann.
Ancora una volta ho un grosso debito nei confronti del ragazzo che mi sta tenendo tra le sue braccia con molta premura e degli altri due che mi hanno protetta come se fossi davvero parte della loro famiglia.
«Lo sono?»
La sua mascella si contrae e gli si disegna un solco mentre i suoi occhi tempestosi si abbattono su di me con la forza di saette e tuoni che generano scosse di terremoto alle quali non sono abituata.
«Non dirò nulla in merito, ma solo a una condizione».
Alzo gli occhi al cielo. Di nascosto sono grata della conversazione. Mi distrae dai pensieri e dalle immagini dei momenti vissuti dentro quel bagno.
«Ce n'è sempre una con te. Sentiamo».
Riesco a vedere il modo in cui si sta trattenendo. Non è salutare, ma il fatto che lo stia facendo per me, mi fa quasi sciogliere e accettare qualsiasi patto lui mi stia per proporre.
«In realtà sono due. Per prima cosa dovrai smettere di evitarmi o di incaponirti sul nostro fidanzamento. Sappiamo entrambi che non possiamo tirarci indietro, quindi tanto vale giocare per raggiungere lo stesso obiettivo: la nostra felicità».
«Ci credi davvero? Non la otterremo con i nostri genitori sempre pronti a usarci».
«Seconda cosa, siamo amici. Accetta il mio aiuto e io farò in modo che ne valga la pena».
Sospiro. «E tu cosa ci guadagni? Dalle tue condizioni saremo amici, poi fidanzati e infine sposati. Io dovrò costringere quella parte di me che ti odia a sopportarti, forse per il resto dei miei giorni, e tu continuerai a fare il maschio Alfa quando qualcuno mi si avvicinerà anche solo per un saluto? Non potrai neanche fare lo sdolcinato con me, quindi cosa vuoi ottenere da questo accordo?»
Dai sedili anteriori sento le risate dei suoi fratelli, i quali hanno la decenza di non interromperci con le loro battute sarcastiche, che sospetto abbiano in abbondanza.
«Stai dubitando della mia parola?»
«Che vuoi farci, ho avuto una serataccia. Scusami se non mi fido di un ragazzo che mi ha comprata».
C'è un fondo di verità nelle mie parole e lui lo sa. Stringe di nuovo i denti, seccato dalla mia insolenza.
La discussione viene interrotta quando arriviamo in una sorta di Villa dispersa in mezzo ad ampi campi verdi e sotto un cielo pieno di stelle mi ritrovo all'interno di un posto sfarzoso dove probabilmente un tempo vi vivevano dei baroni o se dovessi puntare più in alto dei principi.
Rhett mi prende in braccio, nonostante le mie proteste. Non sembra fare il minimo sforzo, mi costringe solo, sospetto di proposito, ad avvolgerli le braccia intorno al collo per mantenere salda e sicura la presa verso una camera piccola ma accogliente in cui aleggia odore di ambra e fiori.
Rhett mi adagia sul letto. «Il dottore sta arrivando. Ricordi cosa ti ho detto?»
Annuisco.
Lui si avvia verso la porta.
«Rhett?»
Si volta e si appoggia quasi fiacco allo stipite. Adesso dimostra davvero la sua giovane età.
«Posso chiederti un favore?», m'interrompe.
Lo invito a farlo, nonostante l'ansia del dovergli promettere o spiegare qualcosa che al momento non potrei o non saprei come gestire.
«Puoi non guardarmi così?»
Non c'è rimprovero nel suo tono. Piuttosto sembra a disagio. Ma nonostante ciò non riesco a distogliere lo sguardo dal suo. «Così come?»
«Non sono un eroe con il mantello e i poteri magici. Non guardarmi più come stai facendo adesso. Non ti ho salvata».
Come fa a non accettare un ringraziamento o gesti di gratitudine quando a tutti gli effetti si è comportato da eroe?
«Dici di non essere un eroe, ma ti sbagli. Mi hai protetta. Certo, non condivido i tuoi metodi da vendicatore mascherato, ma mi hai tirata fuori dai guai e ti sei preso la briga di punire al posto mio le persone che mi hanno o hanno solo tentato di farmi male».
«Forse sono solo possessivo o egoista».
Le sue parole sono sincere. Non mi va più al momento di contraddirlo.
«Va bene», mi limito a dire.
«Non girarci intorno. Pensi che sia colpa mia. Ti chiedi se sarò la tua rovina», afferma con un cipiglio che gli oscura i lineamenti già abbastanza tesi.
Non riesco a rispondere. Non per la sostanza in circolo, bensì per il modo in cui le sue parole stanno attecchendo dentro di me.
I suoi occhi sono una tempesta che rischia di raggiungermi e sommergermi fino a togliermi l'ultimo respiro.
«Forse non ti sbagli. Forse sarà anche vero e un giorno me ne renderò conto anch'io», prosegue avvicinandosi, facendo scivolare la mano lungo il mio braccio, sfiorandolo a malapena.
Dovrei sussultare dopo quello che mi è successo. Provare disgusto e allontanarmi. Al contrario, il mio corpo sembra rifulgere nelle sue attenzioni. Quei piccoli e in apparenza insignificanti gesti che riportano la mia anima in custodia nel mio cuore.
«Perché?», oso chiedere, con voce spezzata dalle lacrime a stento trattenute.
Rhett non esita a darmi una spiegazione chiara di ogni suo pensiero. È diretto e non tenta di addolcire niente.
«Perché con ogni probabilità diventerò un mostro. E mi spaventa quello che potrei fare se dovessi ferirti o trovarti ancora una volta in pericolo. Tu riusciresti ad abbattermi con la tua sofferenza».
«Non capisco». Sto tremando e sta succedendo non per il freddo ma per le sensazioni che mi stanno sbocciando dentro crescendo come piante carnivore sul punto di divorare tutto.
«Il tuo dolore mi disarma, piuma».
Ancora una volta si avvia alla porta e io lo fermo.
«Rhett?»
«Sì, piuma?»
«Forse un giorno saremo amici».
Solleva appena l'angolo del labbro. «Forse un giorno saremo qualcosa di più», sussurra mentre si allontana.
💛🪽
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