Capitolo 20
Faye
Mi intimidisce a ogni nuova parola che dalla sua bocca fuoriesce in un tono sincero e roco. È lucido. Vigile. Attento a ogni singola mossa. Spietato. Sensuale. Una crudele immagine dell'uomo che è diventato affrontando chissà quale grosso ostacolo e pericolo.
So che non è solo la mia reazione a provocarlo a non usare mezzi termini con me. È tutta la situazione a renderlo una persona che conosco e al contempo un perfetto estraneo.
Vorrei che riuscisse a capire la confusione che mi ha generato con la sua improvvisa ricomparsa. Ha messo sottosopra il mondo che dopo di lui stavo cercando di ricostruire un mattone alla volta. Ma non è qui per rimettere in ordine. Lui è qui per sconvolgere di nuovo tutto, per aggrovigliare maggiormente quel filo che ci tiene ancora legati. Per creare un nodo scorsoio resistente e deleterio.
Mi appoggio alla vetrata perché le ginocchia stanno continuando a tremare. Non è la sostanza che inavvertitamente ho ingerito con quell'unico calice che ho toccato. È lui a farmi l'effetto di una droga. È potente, più di una singola polvere sciolta in un liquido.
«A cosa stai riflettendo?»
Inumidisco le labbra sentendo il sapore amaro della bugia. «A come sei diverso dai miei ricordi», ribadisco per non ammettere di essere turbata e arrabbiata. Mi sto mostrando forte e superiore a qualsiasi tradimento perché davanti a lui non mi sfalderò mai più. Non come quella notte. L'ho promesso a me stessa. E sto continuando a ripeterlo a quella parte di me che annega a ogni suo respiro.
Stringo il pugno in vita e lui se ne accorge. «Rifletti davvero su questo?»
Abbasso per un istante la testa e chiudo gli occhi per non fissare quel cielo in tempesta racchiuso nelle sue iridi, velate di malinconia e furia. La stessa che trattiene dentro mostrando solo scorci di un mondo apparentemente disastrato.
«Su questo, sul passato, sui ricordi. Ma vorrei non farlo».
«Credi di poter scappare da essi? Per quanto tenterai di costruirti una nuova strada, ti basterà ascoltare il cuore per renderti conto di avere ripercorso quei momenti dolorosi. Be', quando un cuore ce l'hai ancora, si intende».
«È quello che è successo a te stasera?», domando, rifiutandomi di pensare che non abbia più un cuore.
«Ho smesso di guardare il passato perché nel mio futuro ho di meglio a cui pensare», replica a bruciapelo. «Forse dovresti farlo anche tu».
«Hai una gran faccia tosta, lo sai?», sbotto avviandomi, o meglio barcollando, verso l'entrata. Decisa ad andarmene e a lasciarmi davvero questa serata disastrosa alle spalle. «Non puoi sapere chi sei senza il tuo passato».
«Ho imparato a non portarmelo dietro quando ho altri obiettivi da raggiungere. E adesso che sono qui, niente potrà farmi deragliare», ripete il concetto con convinzione tale da indurmi a provare risentimento. Una sensazione che per un breve periodo ha alimentato la mia vita.
«Non preoccuparti, adesso che sei tornato, non ho intenzione di saltarti addosso. Se è di questo che sei preoccupato. Ho smesso di pensarti da un pezzo e sono andata avanti per la mia strada», proseguo, vittima di un colpo di calore a seguito delle parole che mi hanno trafitto il cuore facendomi sentire un errore da non ripetere.
Lui sorride. Già, sorride passandosi la lingua sui denti perfetti e perlacei. «Ti ho ferita?», domanda con scherno, prima di alzare gli occhi al cielo. «Non fare la melodrammatica, Faye. Sappiamo entrambi che è una questione di affari. Tu appoggi me e io appoggio te. Vinciamo entrambi. Non ha alcun senso rivangare ciò che è stato sepolto e non ha più alcuna importanza. Siamo persone diverse, adulte».
Pensa davvero quello che dice? Non ha capito che per me invece è importante?
Scrollo la testa infilandomi i tacchi, nonostante i miei piedi stiano protestando. «Visto che non occorre rivangare il passato e le risposte alle tante domande non arriveranno, e visto che siamo adulti, io me ne vado. Non hai neanche bisogno del mio aiuto, ma se dovessi servirti come comparsa, questo è il mio numero», sbatto contro il suo petto un biglietto da visita che con mani tremanti riesco a recuperare dalla borsetta e a sfilare dal portafoglio. «Gradirei essere contattata con un po' di anticipo per potermi organizzare».
Rhett si appoggia alla porta con tutto il peso del suo corpo, impedendomi di aprirla. Rigira tra le dita il biglietto giocando con i bordi. «Dove?»
Non credo sia davvero di suo interesse sapere dove alloggio. «Magari non voglio fartelo sapere. Oltre al fatto che penso sia un mio diritto avere un po' di privacy», blatero alla fine, in parte per riempire il silenzio che si è innalzato come un muro di spine, e per convincermi di aver adottato la strategia giusta.
Rhett appallottola il bigliettino. «Dove alloggi?», chiede di nuovo con un tono diverso.
Allaccio l'altra scarpa e raddrizzo la schiena, colpita dal suo nuovo atteggiamento. «Non hai bisogno di saperlo. Adesso spostati, voglio andarmene».
Dopo avere lanciato il biglietto dentro un cestino posto a poca distanza, incrocia le braccia al petto. I suoi muscoli, meno asciutti di un tempo, tendono il tessuto della camicia. Mi è impossibile ignorare le differenze sostanziali del suo nuovo aspetto.
Che stronzo!
Iniziano a farmi male le tempie. «Vedo che non hai bisogno di contattarmi. Quindi presumo sia un addio questo», evito di parlare oltre. Un fastidioso nodo mi si è attorcigliato in gola e rischio di venire meno alla promessa.
Rhett inspira ed espira come se si stesse liberando da un peso. «Ho memorizzato il tuo numero mentre ti agitavi», si picchietta l'indice sulla tempia. «Sono ancora bravo in qualcosa», brontola, seccato di dovermi dare una spiegazione. «Quindi? Dove alloggi?»
Valuto se mentire. Con ogni probabilità mi scoprirebbe nel giro di pochi minuti, mi dico. Pertanto mi è del tutto inutile contrastarlo.
«In hotel. Starò fino a domani mattina poi ho un volo Da prendere. Ho bisogno di qualche ora di sonno, sai per smaltire anche la sostanza che ho ingerito», mento spudoratamente. Non posso volare se non sto bene, e rischio di essere licenziata se le mie prossime analisi non risulteranno pulite. È un bene che io sia intenzionata a prendermi una pausa. Recupererò le valigie e mi allontanerò da questo posto il più in fretta possibile. Mi andrò a leccare le ferite in un resort per single dove magari ci sarà un po' di sano divertimento.
Rhett inarca un sopracciglio. «Sei ancora una pessima bugiarda. Ma farò finta di crederci. Hai davvero bisogno di riposo».
«Motivo in più per lasciarmi andare».
Mi porge la mano. Inevitabilmente, i miei occhi si soffermano ancora su quelle cicatrici. Le domande mi si accumulano tutte sulla punta della lingua. Non le lascio uscire per non turbarlo. Ho notato il modo in cui si chiude a riccio quando si accorge che lo guardo.
«Andiamo».
Vedendomi impalata mi afferra per un polso, anche se per pochi istanti, prima di lasciarmi andare neanche si fosse scottato. Dopo essersi ricomposto, mi fa cenno con la testa di seguirlo e i miei piedi traditori, dopo essersi liberati di nuovo dai tacchi, lo fanno, fino a raggiungere una camera da letto ordinata e impregnata dal suo odore tenue, di pulito, con un lieve aroma di sale marino e spezie orientali.
«Puoi dormire sul letto. Io prenderò il divano», indica quello all'angolo della stanza, abbastanza capiente da consentirgli di riposare comodamente.
«Ma...»
«Faron e mia cognata non torneranno prima dell'alba. Mia nipote si trova insieme al suo nonno acquisito. La riporterà a casa all'incirca dopo pranzo. Mettiti pure comoda e se hai bisogno di qualcosa trovi tutto nei cassetti».
«Rhett, non posso stare qui».
«E chi lo dice?»
Mi lascia sola.
Scalcio per la frustrazione non sentendomi un'adulta ma un'adolescente che è appena stata rimessa in riga e obbligata a restare in un posto estraneo con una persona che lo è diventata altrettanto.
Mi guardo ancora intorno, sentendomi un'intrusa in questo spazio dove l'impronta di Rhett sembra minima e data solo dai libri disposti in pile ordinate dove è riuscito a trovare un angolo libero. Non c'è nient'altro di suo.
Almeno su questo non è cambiato, rifletto sfiorando il dorso di un romanzo classico.
Mi sposto nel bagno adiacente e di fronte al mio riflesso un po' stanco sciacquo i polsi, cercando un modo per andarmene. Poi mi tolgo il trucco dalla faccia e senza rendermene conto mi ritrovo nuda, nella doccia, a inalare l'odore dell'uomo che non ho dimenticato neanche dopo svariati tentativi maldestri e appuntamenti disastrosi con persone che non facevano altro che aumentare il mio dolore, quel senso lacerante di mancanza. Li ho sempre messi a paragone con quello che avevo sentito a diretto contatto con la pelle e il cuore, e le storie non sono mai andate avanti. Neanche il pensiero della vendetta ha spento quel fuoco che ha continuato a covare sotto strati di cenere.
Sospiro, sciogliendo i muscoli sotto il getto caldo. Una volta essermi tolta di dosso parte delle sensazioni iniziali, delle paranoie, avvolta in un asciugamano morbido grigio, entro in camera tenendo in mano il lungo abito.
Rhett torna proprio nel momento in cui mi dirigo verso il cassettone, intenzionata a prendere in prestito qualcosa di comodo, e i suoi occhi scandagliano il mio corpo facendomi formicolare dalla testa ai piedi.
Perché non sono riuscita ad andarmene? In che grosso guaio mi sto cacciando?
Mi supera, prende una felpa nera e un paio di boxer grigio fumo e me li passa. «Con questi starai comoda. Non posso rubare qualcosa a mia cognata senza il suo consenso», sbadiglia stropicciandosi gli occhi, «vado a fare anch'io una doccia», sparisce nel bagno dal quale sono appena uscita e mi ritrovo a dovermi cambiare in fretta, con l'ansia che possa tornare per prendere qualcosa e vedermi.
La felpa è abbastanza lunga da nascondermi le ginocchia, mentre i boxer mi fanno sentire come se indossassi dei pantaloncini da ginnastica così stretti da lasciarmi abbracciare ogni curva.
Cerco di non pensarci troppo quando Rhett esce dal bagno a torso nudo e con un solo un asciugamano avvolto intorno alla vita. Si muove dapprima verso il cassettone dove tira fuori un paio di boxer. Dall'armadio prende dei pantaloni di una tuta, apparentemente nuova, e una t-shirt bianca. Indossa tutto in fretta, poi va verso il letto, afferra un cuscino, di passaggio recupera anche un plaid dall'armadio e infine si sposta sul divano.
Per tutto il tempo me ne sto impalata come uno stoccafisso a osservarlo. È metodico e preciso. Segue un suo ritmo mantenendosi concentrato sul suo obiettivo.
«Domani andrà meglio».
Non capisco chi dei due stia cercando di calmare. In ogni caso le sue parole mi lasciano scorrere con prepotenza un brivido lungo la schiena.
Attorciglio i polsini della felpa tra le dita. «Non sono poi così ottimista. Ma sicuro di volermi qui? Posso sempre chiamare un autista e farmi accompagnare in hotel».
Torna sui suoi passi, spegne le luci e accende la lampada al sale posta sul comodino. Infine si siede sulla zona a L all'angolo del divano dopo aver preparato il suo letto per la notte. «Non puoi», replica sdraiandosi.
Il bagliore giallognolo della lampada al sale avvolge la stanza in una tonalità pallida.
«Non posso o non vuoi tu?»
Il suo volto si adombra. Prende a massaggiarsi le tempie. Ha i capelli ancora umidi e gli ricadono morbidi sulla fronte facendomi venire voglia di avvicinarmi e scostarglieli.
«Per un tratto di strada siamo stati seguiti. Se da uomini di tuo padre o da qualcun altro, non so ancora dirlo. Ho inviato il numero di targa del veicolo per un controllo e presto avrò una risposta. Forse dovresti dormire qui per non correre alcun rischio. Domani sarai libera di andartene».
La sua spiegazione non ha niente di costruito e mi stupisce che io non sia stata in grado di notare un'auto intenta a seguirci, presa com'ero a fissare la strada pur di non doverlo guardare negli occhi. Solitamente sono più accorta di così.
«Adesso hai una squadra alle tue dipendenze?»
Non posso fare a meno di indagare su di lui, sulla sua nuova vita. Ma non sembra disposto a chiarire niente. Anzi, è come se avesse chiuso parte del suo passato in un posto inaccessibile e pericoloso per chiunque provi ad avvicinarsi.
«Non ho niente. Ho solo chiesto l'aiuto di una persona di cui si fida Dante».
«Fammi indovinare. Bravo con i computer? Un nerd che ha sprecato il suo potenziale mascherandosi di notte per fare giustizia?»
«Il migliore. Troverà chi ci stava seguendo. E non si è mascherato. Ha solo avuto una vita difficile e ha dovuto adattarsi. Un po' come tutti del resto».
«E cosa pensi di fare quando l'avrai trovato?», mi siedo sul bordo del letto.
«Farci due chiacchiere», non batte ciglio. All'inizio è mortalmente serio. Poi le sue labbra si piegano con malizia in un sorriso, increspandogli gli angoli degli occhi.
Vederlo con quest'espressione da diavolo mi suscita batticuore e tremore su per il corpo.
Non gli sfugge la mia reazione. «Che c'è, hai paura?»
La sua domanda mi strappa via dal luogo in cui mi stava facendo precipitare mentre lo fissavo chiedendomi quanto ci fosse di vero in quel sorriso.
Le mie guance prendono fuoco insieme ad altre parti di me che sento rianimarsi dopo anni di torpore. «Di te?», mi ritrovo a chiedere un po' troppo in fretta per non permettergli di prendermi in giro. «Non credo saresti in grado di...»
«Io non completerei quella frase con una menzogna», mi interrompe con un'occhiata gelida e ancora quel lampo ferale ad attraversargli le iridi color tempesta.
Sono in mare aperto e lui sta per scagliarmi addosso un'onda impetuosa.
Rabbrividisco e provo a salvare il salvabile cambiando argomento, seppur in maniera patetica. «Sai che se dormo qui non cambierà niente tra noi?»
«Non ho nessun doppio fine. Ho messo le carte in tavola, proprio come hai fatto tu prima quando hai tentato la fuga. E ribadisco che io aiuto te e tu aiuti me in modo tale da vincere facile».
«Lo vedremo», replico gattonando fino ai cuscini prima di infilarmi sotto le coperte, mugolare di piacere e chiudere gli occhi.
Mi mordo il labbro non appena il suono sfugge dalla mia bocca. Sbircio, ma Rhett sembra assorto nei propri pensieri. Tiene lo sguardo puntato sul tetto, una mano sull'addome. Con l'indice si picchietta il polso seguendo i secondi di un orologio silenzioso.
«Dove sei stato e dove ti stai perdendo?», mimo a bassa voce la domanda, scuotendo la testa prima di rigirarmi sotto le lenzuola.
«Dormi bene».
La sua voce è un balsamo, passato dopo tanto tempo, su una ferita ancora aperta.
Assaporo ogni singola lettera e mi rannicchio maggiormente cercando di non pensare troppo, di non agitarmi e di non piangere. Perché le lacrime sono lì lì per uscire. In agguato e pronte ad annegarmi. A banchettare come mostri sulla mia anima.
«'Notte», replico.
Contro ogni mia previsione, le palpebre mi si fanno pesanti e mi addormento come un sasso.
L'unica cosa che mi culla, come una piacevole brezza, è il pensiero che lui sia vivo.
* * *
«Non prevedeva questo il piano che abbiamo ideato. Adesso ci toccherà cambiare ogni cosa perché hai deciso di intervenire in una faida che non ha niente a che vedere con la tua! Non avevamo già abbastanza problemi da risolvere?»
La voce aspra, piena di apprensione, proviene dal soggiorno, ma riesco comunque a sentirla dalla stanza in cui mi sono addormentata e svegliata all'alba quando l'uomo che credevo morto, e che ha fatto deragliare ogni mio piano, si è alzato per andare a sciacquarsi i polsi, prima di cambiarsi e uscire dalla stanza facendo il minor rumore possibile.
Non pensavo sarebbe accaduto, ma dev'essere stato un mix tra la discussione con mio padre, la sostanza ingerita e poi Rhett a farmi crollare sul morbido letto, tra le lenzuola impregnate dal suo odore. Cullata e appagata, non ho neanche avuto uno di quei brutti incubi che di tanto in tanto torna facendomi urlare.
Le voci sommesse e la discussione sono arrivate poco dopo.
Ho dormito abbastanza da non riuscire a uscire sgattaiolando come una ladra da questo appartamento.
I suoi fratelli stanno cercando una soluzione perché pensano che io sia un peso in più sulle spalle di Rhett. E non solo...
Non li biasimo. Si vogliono bene e si sono sempre protetti andando contro chiunque tentasse di dividerli o fargli del male.
La verità è che Dante non si fida di me e Faron tenta di smorzare i toni trovando e proponendo delle soluzioni per trarne al contempo vantaggio.
Consapevole di starmene appoggiata allo stipite della porta come una spia, nonostante la voglia di intervenire e porre fine alla loro discussione, mi mordo forte il labbro continuando ad ascoltare i loro discorsi.
«Smettila di fare lo stronzo, l'avresti aiutata anche tu se fossi stato nei miei panni», ribatte Rhett con una ferocia nuova nella voce. «Forse avresti escogitato anche qualcos'altro pur di eliminare dalla faccia di quel bastardo ogni soddisfazione», prosegue animato dall'impeto e in parte dal senso di protezione che ha sempre avuto.
La sua generosità non si è di certo congelata nel corso degli anni. La dimostra in modo meno evidente, ma ha comunque valore.
«Devo forse ricordarti quello che mi hanno raccontato circa le tue folli reazioni quando si trattava di Eden?»
«Rhett ha ragione, Di», soggiunge Faron, prima che il fratello possa ribattere. «E io non sono di certo uno stinco di santo. Ho fatto cose peggiori. Ma qui parliamo di una relazione finta basata su una fiducia che con il tempo si è sfaldata. Non puoi illuderti che lei non possa pugnalarti alle spalle alla prima occasione. Penso sia cambiata e non la conosciamo più come un tempo. Proprio come lei non conosce te».
«Secondo me dovreste darle una possibilità. Se il fine ultimo è lo stesso e le due parti siete d'accordo, perché non provare a far funzionare questa menzogna? Magari alla fine ne trarrete dei benefici», interviene la voce di una donna. Presumo sia Blue. Già mi piace dal suo ragionamento. Non sembra giudicare o mettersi dalla parte del cognato solo per affetto.
«Kelebek, qui parliamo di un rapporto che è stato interrotto bruscamente. Una donna tradita o ferita è pericolosa. Ne abbiamo avuto un assaggio in passato con quella maledetta stronza di Joleen. Faye ha accettato troppo in fretta aiuto senza dare a Rhett alcuna spiegazione. Non mi torna».
Scuoto la testa abbassando lo sguardo a terra.
È vero che sono stata tradita e mi sono sentita ferita, umiliata, abbandonata e sola. Ma non ho mai pensato di vendicarmi perché dopo aver affrontato il dolore, mi immaginavo con una vita in cui non avrei rimpianto niente e avrei guardato tutto dall'alto in basso. Sarei andata oltre e questa sarebbe stata la mia vittoria.
Traggo un lungo respiro, placando me stessa. Ma non posso starmene qui in silenzio. Non posso farmi descrivere come una donna rancorosa che ha accettato aiuto solo per vendetta. Io non pugnalo alle spalle nessuno. Non sono mio padre. In più voglio sapere cosa c'entra Joleen, cosa ha fatto. Per ottenere le risposte, mi dovrò muovere opportunamente.
Prima che possa fermarmi, ho già preso la mia decisione e spalancato la porta della stanza.
Il silenzio improvviso è il segno che mi hanno sentita e sanno che sto andando da loro.
Mi fermo sulla soglia e non do il tempo a nessuno di giustificarsi o scusarsi. «Capisco le vostre rimostranze e non posso farvi cambiare idea su questo. Ma posso assicurarvi che non voglio niente dalla vostra famiglia. Ho già quello che mi serve. Me lo sono guadagnata con il duro lavoro. Se ho accettato l'aiuto di vostro fratello è perché lui ha mandato il mio piano in fumo e non potevo fare una scenata perché non avevo più qualcosa a cui appigliarmi. Sono stata fortunata che nessuno abbia notato quando mi sono riferita a Rhett come morto e poi non ho battuto ciglio, nonostante lo shock, appena mi si è parato davanti porgendomi la mano. Chiunque avrebbe avuto un sospetto e forse lo avranno quando si saranno scrollati di dosso i sintomi di quella sostanza. Adesso che abbiamo chiarito il fatto, me ne vado. Ho dei bagagli da fare. Vi auguro buona fortuna per tutto. E grazie per avermi ospitata per la notte», giro sui tacchi e mi avvio all'entrata. Qui recupero il cappotto, la borsa e i tacchi. Senza offrire un altro minuto del mio tempo a questa famiglia, esco dall'appartamento e raggiungo l'atrio. Non sto neanche a riflettere su un possibile pedinamento e quando fermo un taxi, mi lascio portare in hotel con la mente piena di pensieri e la voglia di trovarmi sollevata da terra il prima possibile.
* * *
Distratta, un po' fiacca e arrabbiata, dopo circa mezz'ora imbottigliata nel traffico ad ascoltare musica a basso volume scelta dall'autista senza il mio benestare, entro nella mia stanza d'hotel, più che pronta a chiudere la porta e a tenere lontano quanto ho appena vissuto e in parte per fuggire da una situazione che mi stava facendo ripiombare in uno strano vortice.
Il tramonto è arrivato con la pioggia. Le gocce picchiettano contro le vetrate chiuse.
Non accendo le luci. Muovo pochi passi superando appena il corridoio prima di percepire qualcosa di diverso. Il primo indizio si trova nell'aria. Se inizialmente mi sembra di avere le narici impregnate di quell'odore che mi ha concesso un po' di sonno, quando volto la testa mi ricredo. Sussulto alla vista di Rhett seduto comodo su una delle due poltrone poste nella zona giorno.
La mia mano va a tentoni per trovare il pannello, accendo la luce strizzando appena gli occhi senza distogliere lo sguardo da lui con un misto di stupore, timore e curiosità.
«Come facevi a sapere il quale hotel trovarmi? Come sei arrivato così in fretta e cosa ci fai qui?»
Non si scompone. Adagia la tazza di caffè sul tavolo basso con una classe che non si potrebbe mai apprendere o replicare alla stessa maniera. Il suo sguardo mi raggiunge come la lama affilata di un rasoio quando me lo punta addosso. «Forse ti è sfuggito un dettaglio quando hai prenotato questo posto».
Non rispondo. Resto in attesa che mi dia ulteriori spiegazioni.
Lui si alza e con nonchalance si abbottona la giacca che ha indossato su una camicia e un paio di jeans neri. Ai piedi porta degli anfibi a rendere il suo look inusuale e al contempo accattivante.
Un tempo usava gli indumenti per inviare un messaggio. Adesso, cosa vuole trasmettere?
«Appartiene a mio fratello, Faron».
Indietreggio sbattendo la schiena contro il muro. «Io... non lo sapevo».
«Perché il suo nome non compare da nessuna parte. Ed è stato facile trovarti. O eri qui o in casa del nemico dall'altra parte della città».
Incrocio le braccia al petto. «Questo non ti dà nessun diritto di entrare nella stanza in cui alloggio», mi faccio da parte e indico la porta. «Vattene!»
«No».
«Che ci fai qui?», domando ancora, cercando di ricompormi mentre il mio corpo sta continuando a tremare.
«Dobbiamo discutere».
«Su cosa?»
«Le prossime mosse».
«Non abbiamo niente di cui discutere. Ho già messo in chiaro che non voglio avere a che fare con te».
Una chiave elettronica gli penzola dalle dita affusolate e un tempo prive di segni. «Qui ti sbagli, Faye», avanza come un leone a cui è stata appena aperta la gabbia, fino a fermarsi a meno di qualche passo. Si sporge ancora verso il mio orecchio e un nuovo brivido mi colpisce un punto del cuore scoperto. «Siamo soci e agli occhi degli altri abbiamo un legame. Lo abbiamo annunciato. Hai accettato e io non posso permetterti di infangare il mio nome».
«Credo di essere stata chiara quando me ne sono andata».
«Ti avevo detto di non allontanarti perché qualcuno ti sta seguendo», mi interrompe con voce aspra.
«E allora? Posso cavarmela benissimo da sola. Non sono niente per te».
Il suo fiato mi solletica il lobo quando sospira. «No, non puoi cavartela da sola dopo aver aperto il vaso di Pandora. E ti sbagli a pensare che non sei niente. Tu sei roba mia. Anche se non lo ammetti perché il risentimento che provi supera di gran lunga la riconoscenza».
Spietate. Le sue parole mi si abbattono dentro e creano crepe minuscole. Spiragli dai quali gli sarà possibile entrare intrufolandosi fino ad arrivare in fondo, dove la mia anima è fragile.
«Di cosa dovrei esserti grata? Avevo tutto sotto controllo prima della tua plateale entrata in scena. Quindi se qui c'è qualcuno che deve ringraziare, quello sei tu. Hai approfittato del momento per sferrare un colpo a mio padre. Ci sei riuscito grazie al mio appoggio». Non è vero, ci sarebbe riuscito a prescindere, ma sono disposta a controbattere pur di non accettare questo suo atteggiamento passivo-aggressivo.
Un sorriso freddo affiora sulle sue labbra. «Continui a combattere la battaglia sbagliata, Faye».
Ogni volta che pronuncia il mio nome con quel tono di voce basso e roco, mi trafigge il petto e la mente viene sommersa dai ricordi. Vorrei prenderlo a schiaffi e al contempo correre ad abbracciarlo. Stringere forte la persona che mi è mancata anche se l'ho odiata per il modo in cui mi ha trafitto il cuore.
«Io non combatto nessuna battaglia. Sto per gettare bandiera bianca e trovarmi un posto sicuro dove liberarmi anche dai bei ricordi», replico scongelandomi e dirigendomi verso la valigia. «Magari avrò fortuna e comincerò davvero da capo».
«È questo quello di cui hai bisogno?», domanda appoggiandosi allo stipite della porta del piccolo bagno.
«Forse. O forse voglio solo allontanarmi. Tu l'hai fatto, anche se non capisco perché sei tornato».
L'unico movimento a rivelare il suo disagio è dato dal guizzo sulla mascella. Quel solco profondo, quella smorfia appena appena accennata.
«Io non l'ho fatto. So che non mi credi perché sei aggrappata alla verità che ti è entrata in testa e non si è più staccata, ma non sono andato in villeggiatura. Adesso che sono qui, che sono tornato, voglio riprendere in mano la mia vita».
Lo scorcio di sincerità che mi ha appena mostrato, mi disarma.
Davvero è tornato solo per quello?
💛🪽
Buon anno, nuvole!
Che sia pieno di serenità e cose belle.
Perché ce le meritiamo. ♥️
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