Capitolo 19
Rhett
A volte il cuore si illude di poter reggere battiti in grado di alleviare il dolore. E piano, senza neanche dare il minimo segnale di pericolo, diventa come un sasso che se lanciato ferisce più di una lama. Perché un cuore colpito e deluso ripetutamente, rischia di non funzionare più come prima.
È per questa ragione che ho messo i ricordi in un angolo, dove non possono ferire, dove non possono rovinarmi. Ho dovuto insegnare a me stesso a isolare il cuore da tutto quello che fa male, da quello che ha a che fare con lei.
Rinchiuso e soggetto a qualsiasi violenza, sarebbe stato facile odiarla, gettarla insieme a quel gruppo consistente di nemici, di cui a lungo ho conservato la lista. Ma lei è qualcosa di più grande. Qualcosa che con tenacia è rimasta tra quei pezzi disincastrati e in disordine. Lei è stata qualcosa di indomabile da spegnere. Persino adesso non riesco a fare a meno di avvicinarmi al suo calore come un inutile falena del cazzo che non ha imparato niente dal passato, tantomeno dalle ustioni.
Perché andare avanti non elimina ogni sensazione negativa, come la paura, e non spegne nessuna emozione. Andare avanti non significa scacciare via quei ricordi che sono fantasmi incapaci di trovare la pace.
Farmi coinvolgere da lei non rientrava nei miei piani iniziali. Ma quando l'ho vista è stato istintivo mandare tutto a puttane.
Di cosa ho paura adesso che ho agito? Di provare ancora così tanto da esserne consumato come una candela dimenticata accesa e la cui luce comincia ad affievolirsi. So che al momento devo fare attenzione. Non posso fingere e non posso offrire nient'altro che schegge affilate.
L'inquietudine rischia di prendere forma e di trascinarmi verso quell'angolo oscuro della mia mente. Non mi è mai piaciuto correre rischi inutili, ho sempre calcolato ogni dettaglio minuziosamente, ma so di non poter prevedere l'esito di questa missione.
«Faye?»
Sono state poche le volte in cui ho pronunciato il suo nome. Adesso mi sembra giusto farlo, perché non ho più nessun diritto di usare quel nomignolo che un tempo rappresentava la sua essenza.
Le sue spalle si fanno tese. Non si volta. Non mi guarda. Ancora scossa e confusa, cerca una spiegazione a ciò che vede.
Dopo un momento sembra riuscire a scrollarsi di dosso lo shock. «Sì?», mormora con voce spezzata, incredula di trovarmi a poca distanza, neanche fossi un fantasma. Forse lo sono diventato per davvero e sono rimasto sulla terra solo a causa di una questione irrisolta.
«Dovresti smettere di tremare e pormi le domande in un posto meno affollato di questo. Andiamo».
Non è quello che avrei voluto dirle ma sono già andato oltre il mio copione perché le circostanze sono cambiate. Non posso permettermi ulteriori colpi di testa.
La mia mano rimane tesa mentre lei abbassa lo sguardo sulle mie dita. Le osserva e non mi sfugge il modo in cui deglutisce a fatica di fronte alle cicatrici, alcune ormai sbiadite, seppur evidenti; altre non ancora rimarginate del tutto.
Colgo al volo la sua titubanza, ma non faccio niente per rassicurarla. Non la obbligherò a seguirmi, dato che ho ancora il dubbio che possa essere davvero impegnata con qualcuno proprio come ha detto a Ramirez. Dovrà farlo di sua spontanea volontà e se vorrà essere sincera mi offrirà parte della verità come scambio.
«Che sia chiaro, sto venendo con te perché mi devi una spiegazione. Dopodiché ognuno se ne andrà per la propria strada», ribatte, assumendo un'espressione di gelida determinazione, mentre avanza fino a posizionarsi al mio fianco, entrando a far parte del mio piano.
Ritiro la mano e le porgo un'altra rosa che ho tirato fuori dal bouquet quasi come se fosse un simbolo atto a suggellare il patto silenzioso tra noi.
Lei la prende, annusa i petali e poi guarda il padre, il quale ha assunto un colorito cinereo.
Avanzo di un passo continuando a mantenere la giusta distanza. Mi dico che lo faccio per non far saltare la mia copertura, e adesso anche la sua. Fingo di cingerle la schiena con un braccio. Non le tocco mai la pelle, nonostante le mie dita stiano continuando a formicolare per il bisogno di un contatto reale con la fonte dei miei sogni.
In breve Wild si riprende e richiama a raccolta le sue guardie. Afferra un calice e trangugia parte del liquido prima di indicarci. «Portate questi due fuori da qui. Hanno dato abbastanza spettacolo con le loro bugie. Me ne occuperò più tardi. Dove eravamo rimasti?», si rivolge al resto degli invitati, trattandoci come un semplice imprevisto da gestire tra un brindisi e una risata.
Che testa di cazzo!
Davvero non ha capito che non è un bluff? Crede di poter ottenere tutto ciò grazie a Parsival, ma da questo momento in poi vivrà l'inferno.
Pianto i piedi e sollevo il mento. «Wild, non farmelo ripetere», alzo il tono.
Colgo un barlume di paura prima che apra la bocca, ostentando un atteggiamento spavaldo. «Altrimenti che cosa fai? Uhm?», mi sfida.
Premo due dita sul dorso del naso. Sta per tornare quel fastidioso mal di testa. Di questo mi occuperò tra poco, mi dico, quando sarò lontano da qui.
«Mi costringi a farti del male», sibilo a denti stretti, seguendo la mia parte e sapendo già quello che a breve succederà.
Wild ride. «Quante volte hai ripetuto come un disco rotto questa minaccia? Credevi di farmi fuori quando eri uno stupido ragazzino viziato e invece... sono ancora vivo. Non si direbbe lo stesso di te. Sembri uno straccio, uno zombie. Il posto in cui sei stato non ti ha fatto bene», ghigna, credendo di ferirmi. «Portatelo via».
Le guardie si rianimano, finché qualcosa non li trattiene dalla loro avanzata.
Sollevo l'angolo del labbro neanche fossi una belva, e quando uno degli invitati inizia a lamentarsi seguito dal mormorio che si innalza quando anche altri si agitano, mostrando i primi sintomi di un'intossicazione, rispondo con uno sguardo gelido.
Wild corruga la fronte di fronte al mio atteggiamento. Osserva la scena senza dire niente, studiando ogni movimento o reazione dei presenti. Quando una delle gemelle barcolla in avanti, il viso sudato, contratto da una smorfia di dolore e la mano artigliata al ventre, ottengo la sua prima reazione sincera.
Andra fatica a respirare a causa dei crampi. Il suo fidanzato non riesce a sorreggerla e sconfitto da un capogiro cade in ginocchio togliendosi dalla fronte, più che confuso, una patina di sudore. «Che cosa ci sta succedendo?», gli domanda.
«Andra, figlia mia. Cos...», la voce di Wild si spegne quando anche Audie e Ersilia cominciano a barcollare. La seconda si piega in avanti vomitando schiuma dopo essersi sventolata in preda alla febbre.
Qualche invitato urla di un attentato in corso additando lo stesso Wild, generando così altro panico.
«Che cosa hai fatto?», sbotta allora Wild, con il volto arrossato, mentre si affanna a scendere i pochi gradini che lo separano dalla moglie e dalle figlie, le quali adesso sono entrambe a terra in preda agli spasmi. Ignora le varie domande da parte dei suoi soci. Le guardie, invece, accorrono cercando di aiutarli.
«Brutto bastardo! Che cosa hai fatto?», ripete quando anche lui comincia a sentirsi male.
Mi indico serafico in una domanda silenziosa, mimando un semplice "Io?".
Sento un sussulto al mio fianco. Mi volto verso Faye, la quale sta fissando con orrore evidente la scena.
Spero non abbia bevuto o mangiato niente.
«Hai una brutta cera, dovresti farti controllare. Non si sa mai ciò che potresti trovare al tuo risveglio», mi volto verso Faye. «Andiamo, qui abbiamo finito», senza attendere un altro minuto e del tutto indifferente ai lamenti, lascio il porto con la consapevolezza di avere trasmesso a Wild il mio messaggio: "Io so".
«Rhett, non possiamo lasciarli così».
Faye mi sfiora il braccio e notando il modo in cui mi sono ritratto in fretta, fa un passo indietro portandosi la mano al petto.
«Non è un mio problema».
Raggiungo il parcheggio e apro la portiera del passeggero attendendo che lei si avvicini ed entri.
I suoi tacchi scricchiolano sull'acciottolato e quando si ferma davanti a me, siamo quasi alla stessa altezza e ho modo di guardarla.
Catturato. Imprigionato. I suoi occhi sono un punto instabile, un passo di distanza da un baratro senza via d'uscita.
In modo imprevedibile ridesta la bestia che a lungo ho tenuto in gabbia privandola di quel contatto che alimenta la sua fame, che fa crescere la sua ferocia.
Faye riesce a incasinarmi dentro. Non è solo la sua bellezza, quanto il modo in cui a distanza di tempo è ancora in grado di premere su quel marchio riaprendo una ferita che non pensavo di avere. È piccola, dolorosa. Rischia di infettarsi.
Ci fissiamo in silenzio. Lei con quell'espressione indecisa a renderla imprevedibile, io consapevole di non potermi avvicinare più del necessario a quelle labbra che in altre circostanze, e se fossi ancora quello di un tempo, avrei persino preso a morsi. La sensazione è dominante. So già che non mi abbandonerà perché è come avere una fame vorace, incontenibile, senza poterla saziare.
Sono nella merda fino al collo.
Devo smetterla.
Subito.
«Non possiamo lasciarli!»
«È fastidioso. Entra».
Incrocia le braccia al petto. «Cosa?»
«Smetti di avere pietà per loro e di torturarti».
«Perché?»
«Perché sai bene che a loro non importa un cazzo di te e che si riprenderanno. Ho solo dato una lezione al tuo affettuosissimo "paparino". Non gli è piaciuto sentirsi impotente e a breve si pentirà delle parole che mi ha rivolto e forse la prossima volta che mi vedrà striscerà ai miei piedi chiedendo perdono».
Lei esita, ignara della ragione che mi ha spinto ad agire usando un mezzo tanto subdolo.
«Puoi sempre tornare da lui tra un'ora e constatare con i tuoi occhi se dico il vero. Se proprio ci tieni».
Entra in auto allacciandosi la cintura di sicurezza. «Dove andiamo?»
«In un posto dove puoi avere una reazione vera».
Sbuffa aria dal naso. «Io sono sempre me stessa. Scusa tanto se sono sconvolta di vedere dopo anni il mio ex, dichiarato morto, ancora vivo e impegnato in una guerra contro mio padre. Era veleno quello che hai usato?»
«Spostiamoci da qui», glisso la domanda.
Pochi minuti dopo aver digitato il messaggio e averlo inviato a Dante, ci passa davanti un furgone dal quale escono molteplici agenti armati, i quali spediti si dirigono verso il porto, generando ulteriore caos. Una vera e propria retata quella che permetterà a mio fratello di eliminare altra feccia dalle nostre strade. O quantomeno di controllarla.
«Che cosa hai fatto?», indaga facendosi attenta, collegando tutti i puntini.
«Chiamiamolo patto. Neanche a me piace Ramirez e con questa occasione gli sto facendo passare un po' di tempo in cella. Magari rifletterà attentamente la prossima volta prima di pretendere qualcosa che non gli appartiene o di prendere qualcosa senza consenso», non mento e non le nascondo le mie intenzioni. In ogni caso non potrebbe fermare la catena di eventi che si è innescata stasera.
Non ho solo mosso la prima pedina. Sto giocando e attirando nella mia trappola ogni pezzo di merda che ha avuto a che fare con il mio rapimento; e sospetto con la morte di mia madre. Quest'ultima è un'ipotesi azzardata, me ne rendo conto. Ma l'istinto mi dice di indagare e di non arrendermi. Se c'è una cosa di cui sono certo è che la verità in un modo o nell'altro esce sempre allo scoperto.
«Adesso collabori con la polizia? Ma dove sei stato? Quindi anche mio padre rischia di essere catturato?»
Come descriverle il posto dal quale sono stato salvato prima di perdere del tutto il senno? Se immagina una base militare o qualsiasi altro luogo pieno di comfort, si sbaglia di grosso.
«Sono tante le cose che non sai. Presto ti racconterò tutto e capirai».
«Ma...»
«Staranno bene», stavolta la rassicuro, seppur indispettito da questa sua paura. Sono certo che tutti loro non si sarebbero preoccupati per lei. Suo padre lo ha dimostrato in più di un'occasione.
Inoltre, scaltro com'è sempre stato, dubito si farà catturare. Ma questo non è di certo un problema mio.
Come se le si fosse accesa una lampadina si volta di scatto nella mia direzione, smettendo per un istante di evitare il mio sguardo e di giudicarmi.
«C'erano i tuoi fratelli lì dentro. Lui l'ha detto prima del tuo arrivo. Non dovremmo...»
«Sono al sicuro. Faron e Blue, mia cognata, saranno impegnati a salvare le vittime della sostanza che del tutto ignari hanno ingerito. Prima che lo chiedi erano polveri innocue e Blue se ne occuperà in ospedale, un luogo sicuro, insieme a Ace. Provocavano, come hai notato, vomito, innalzamento di temperatura e in altri casi perdita di coscienza. Faron si assicurerà che vada tutto liscio e che nessuno disturbi il reparto con strane vendette. Dante invece si occuperà dell'ultima parte del piano di stasera».
«Era tutto programmato».
«Per quel che ne sa Wild adesso, non siamo stati noi». Non replico alle sue congetture. Meno sa, meno possibilità che venga usata dal padre ci saranno.
«Gli stiamo salvando la vita. Saranno in debito».
«Un continuo dare e avere».
"Chi ho davanti? Che ne è stato del ragazzo che ho conosciuto?", dicono chiaramente i suoi occhi.
«Anch'io avevo un piano. Ma tu hai mandato in fumo ogni cosa», mi rimprovera.
Dal parcheggio ci spostiamo verso il quartiere in cui abito attualmente.
Sarei dovuto ritornare prima, da solo, e attendere. In un certo senso avere Faye accanto mi incentiva a portare a compimento ogni altra sfida.
Non so quale sarà la reazione dei miei fratelli quando la vedranno. Con ogni probabilità penseranno che io sia impazzito. Ho notato il modo in cui Faron si è trattenuto quando ha intuito le mie intenzioni.
«Tuo padre non ti avrebbe mai creduta se non fossi intervenuto. Sostanza ingerita o meno, a fine serata ti avrebbe costretto ad accettare ogni suo capriccio. E tu lo avresti accontentato. Cosa che a quanto pare hai continuato a fare».
«Non sono più quella di una volta. Proprio come te, Rhett», replica con un tono di voce aspro. «Non hai idea di quanto io abbia dovuto lottare per tenermi a debita distanza da lui».
«E stasera è stata un'eccezione?»
«Ovvio! Mi ha costretta a essere presente alla festa usando le mie sorelle, allora io ho cercato di sferrargli un colpo basso solo per il gusto di vederlo in ginocchio ai miei piedi. Cosa che non è successa», preme subito la mano sulla bocca come se avesse riferito troppo. Come se potessi pugnalarla alle spalle.
Corrugo la fronte premendo le dita sul manubrio. "Non si fida di me".
«Succederà. Se non ricordo male, non sei una che si arrende facilmente».
Il mio commento attutisce un po' del disagio che si stava creando rendendo l'aria pesante in questo abitacolo.
«Era la mia occasione. La serata perfetta. Adesso non so come andranno le cose. Forse dovrò ricominciare tutto da capo. Non posso più usare il testamento, dato che sei vivo», scuote la testa inspirando ed espirando un paio di volte per calmarsi.
«Adesso sa che stiamo insieme e gli basta per tremare».
«Perché dovrebbe? Sono quasi certa che non farà le valigie. È abbastanza sicuro di se stesso da non temerti. Non si nasconderà neanche da quegli agenti. E stiamo insieme per finta».
Un sorrisetto affiora sulle mie labbra. «Tuo padre, nel corso degli anni, ha accumulato così tanti debiti da poter vivere sotto una pietra. È stato fortunato ad aver trovato qualcuno a fargli da garante. Adesso però mi ha visto. Sa che posso sottrargli ogni cosa e inoltre, ancora una volta, sa che starai dalla mia parte. In poche parole: gli hai tolto il cuscinetto dal culo. Non potrà più usarti mettendoti in palio per i suoi affari».
«Perché è così importante questo?»
Un'altra domanda che devo sviare per non rivelare troppo.
«Giustizia», replico parcheggiando l'auto.
Faye mi segue al piano superiore senza lamentarsi del fatto che io abbia evitato l'ascensore. Non toglie nemmeno i tacchi, continuando a salire gradino dopo gradino senza affanno.
Entriamo in casa dove non c'è nessuno, aleggia il silenzio e un piacevole odore di pulito.
Tolgo le scarpe, sfilo la giacca del completo lasciandola appesa nell'armadio all'entrata, ficco i pugni nelle tasche e aspetto che dica qualcos'altro. Lei, dopo essersi slacciata i tacchi e averli lasciati in un angolo accanto alle mie scarpe, si limita a osservare il posto in cui sono stato accolto e tenuto al sicuro finora.
Solleva una foto con la cornice in legno che ritrae Blue, Isobel e Faron. «Hai una nipote?», scandaglia le altre foto appese all'entrata.
Dalla sua domanda comprendo che non ha voluto più avere a che fare con la mia famiglia e non ha saputo dei cambiamenti avvenuti nel tempo. Come biasimarla? Ma quando saprà che era tutta una bugia come reagirà?
Allargo la cravatta. «La mia principessa», abbozzo un sorriso sincero. «Si chiama Isobel».
Abbassa la foto e si sposta verso la vetrata. «Deduco non sia casa tua questa».
«Deduci bene».
Si volta, il sopracciglio inarcato. «E come pensi di convincere mio padre o chiunque altro se vivi con tuo fratello? Non penserai mica che io sia disposta ad accettare una cosa simile solo perché mi hai lanciato una corda. Ho un certo stile di vita adesso».
Quindi non è fidanzata e quell'anello è solo oggetto di scena?
Dal mio petto viene tolto un grosso macigno.
«I lavori di ristrutturazione devono ancora iniziare in uno degli appartamenti di questo palazzo e ho il mio yacht. Per essere precisi ne ho anche uno nuovo di zecca nel caso in cui quello vecchio risultasse poco capiente o inadatto al tuo nuovo stile di vita».
Arrossisce intuendo il fine della mia risposta. «Hai proprio pensato a tutto, non è così?», domanda grattandosi la nuca.
«Ti sbagli. Non eri inclusa nel mio piano prima che intervenissi», confesso.
Se rimane delusa non lo mostra.
Purtroppo noto il modo in cui comincia a schiarirsi la gola, a sventolarsi e a reggersi a stento in piedi.
Cazzo!
Corro in cucina, lascio cadere due gocce di antidoto dentro un bicchiere d'acqua e glielo porgo, obbligandola a berlo tutto nonostante le sue proteste perché ha, a suo dire, un sapore di alghe.
La aiuto a sedersi sul divano mentre l'antidoto fa effetto. Attendo paziente controllando che non abbia bisogno di un secchio dentro il quale vomitare.
«Mi sento come se fossi separata dal mio corpo», biascica dopo una manciata di minuti, infiniti ai miei occhi. «E tu... ti comporti in modo strano», mi punta addosso l'indice. «O stai male?»
Il mio sguardo rimane fisso su di lei, sui suoi occhi grandi con quelle ciglia incurvate da cerbiatta, sulle labbra apparentemente morbide di un rosso che ti fa pensare di poter peccare senza pentimento, mentre lei prova a fingersi indifferente dopo aver mostrato apprensione.
Noto con stupore di essere ancora capace di metterla in imbarazzo. Lei ha sempre avuto questa timidezza nascosta in grado di provocare il diavolo che c'è in me. Sin dal primo istante mi è piaciuto combattere ogni sua debolezza tenuta ingabbiata dietro quel carattere esplosivo.
Il suo rossore mi fa quasi sciogliere. Ma da tempo ho imparato a spegnere qualsiasi tipo di dolcezza. Sto facendo tutto perché ho un piano o rischio di perdere la rotta.
«Davvero? A me non sembra».
«Sei...», esita, alzandosi fino a raggiungere ancora una volta la finestra. Il suo sguardo si perde sul panorama avvolto dal manto della notte piena di stelle.
Per un momento valuto se avvicinarmi per controllare che non stia per svenire.
Senza rendermene conto l'ho seguita e mi ritrovo a pochi passi da lei. Stringo i denti. «Sono cosa?»
Faye indietreggia addossandosi alla vetrata. Fissa un punto alle mie spalle per riuscire a non cedere.
«Ho fatto una domanda».
«Perché ti comporti così?»
«Perché è quello che sono».
«Davvero? A me sembra invece che tu abbia costruito un muro per proteggerti».
Con una nocca le sfioro lo zigomo. Faccio un altro passo, mi abbasso per raggiungere il suo orecchio e le sue dita premono sul mio petto facendo prendere vita alla mia pelle. «Non riuscirai a sfondarlo», le sussurro.
Nei suoi occhi bruciano una miriade di emozioni. Sono fiamme che crepitano e raggiungono con scintille la mia carne.
Mi domina e mi raggiunge con forza. Per me non c'è possibilità di difesa quando arriva e mi travolge l'impulso di scacciare via la tensione. Il crepitio della carica elettrica che scorre nell'aria è percepibile e dopo appena pochi respiri rischia di folgorarmi.
Non riesco a fare a meno di sentirmi sporco dentro, un bastardo egoista per il modo in cui dovrò trattarla per tenerla a debita distanza. Ma lei sembra aver notato la mia armatura.
Prima che possa darmi una spinta, mi allontano da lei, confondendola ancora di più.
Lei sussulta.
«Hai paura di me».
«È questo che pensi?»
Rimango immobile. «È quello che vedo».
«Ti sbagli», replica sollevando il mento.
Mente.
Mi basta soppesarla per riuscire a leggerla. Potrebbe essere anche una pagina bianca e io ci vedrei un disegno a colori. Perché sotto la superficie nasconde ogni segreto mai svelato.
«La paura fa parte del gioco».
I minuti che scorrono rendono l'aria pesante.
«Che c'è?»
«Niente», ribatte mordendosi la lingua in modo evidente. «Anzi, a dire il vero una cosa c'è. Non sono parte di un lavoro», protesta. «Non trattarmi come se lo fossi!»
A causa sua, mi sento sul ciglio di uno strapiombo.
La tengo prigioniera del mio sguardo, invadendo ancora di più il suo spazio fino a farla agitare.
«Chi mi dice che non mi fotterai?»
«Come faccio a fidarmi di te?», la incalzo. «Chi mi dice che la tua non fosse solo una farsa per farmi uscire allo scoperto?»
«Non lo farò», sembra inorridita al pensiero. «Anche se non ci credi, hai ancora un posto nel mio cuore. Il pensiero che tu possa svanire... rischia di consumarmi un'altra volta».
Quando si avvicina di un passo vorrei dirle di non farlo, di non provare a toccarmi di nuovo perché potrei sfaldarmi come sabbia tra le sue dita. Perché potrei penetrarle sottopelle come veleno e infliggerle lo stesso dolore che ho provato io con impotenza prima di riuscire a ottenere un antidoto che lenisse ogni emozione.
«Smettila di cercare una ragione al mio atteggiamento».
Assume quella tipica posa di sfida. «Ti dà fastidio? Sarebbe già qualcosa. Inoltre, non devo ricordarti che sei stato tu a trascinarmi in questa storia. Quindi smettila di fingere».
«Vedo che continui a fare la martire», la mia voce esce fredda e quel pezzo di ghiaccio la colpisce.
Stringe i pugni in vita. Il suo petto fa un movimento repentino. Quel su e giù indica il suo bisogno di trovare aria per non esplodere. «Vedo che sei tornato il bastardo diffidente di un tempo», ribatte piccata.
Dalla gola mi gorgoglia una risata amara, intrisa di mestizia. «Oh, non ne hai idea», rispondo quasi a denti stretti. «Non ne hai idea», ripeto a bassa voce e più a me stesso, ricordando le ragioni per le quali non posso essere dolce o gentile.
💛🪽
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