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Capitolo 18

Faye

Qualcosa grava sul mio petto. Preme e preme, strappandomi ogni alito di vita.
Il sogno, lo stesso ormai da tempo reso quasi immemore dai ricordi sbiaditi, graffia con i suoi artigli strappandomi uno strillo.
Mi tiro su, una mano al petto. Le corde vocali brucianti e ruvide come carta vetrata. Sbatto le palpebre guardandomi intorno, andando alla cieca in cerca di un appiglio, a qualcosa che non si riveli un mostro con denti affilati o un angolo così oscuro da caderci dentro, mentre stringo forte i bordi della vasca.
Tutto ciò che riesco a trovare però è solo la sensazione di terrore che aleggia insieme alla condensa del bagno sconosciuto in cui mi trovo.
Non c'è niente che possa fermare questa paura. Dovrei affrontarla, ma ancora una volta mi sono svegliata.
Domani, prometto a me stessa. Domani affronteremo tutto, continuo a ripetermi sollevata appena il telefono, posto sul ripiano del lavandino, emette un prolungato ronzio.
L'acqua sciaborda fuori dalla vasca quando un po' malferma mi sollevo e rimasta in piedi mi allungo per recuperare l'asciugamano messo a scaldarsi.
Non mi affretto a controllare chi mi sta cercando così insistentemente da concludere la chiamata e farne un'altra in sequenza senza arrendersi al mio silenzio.
Valuto se mettere il cellulare in modalità silenzioso o aereo ma sarebbe controproducente per i miei impegni.
Sono ancora tentata di non indossare qualcosa di appropriato e di recarmi con gli indumenti da lavoro, ovvero la divisa, che tra poche ore potrei usare qualora accettassi un altro turno come hostess di volo su un jet privato in direzione del Marocco, per sostituire uno dei due colleghi che farebbero i salti di gioia pur di avere un weekend libero e senza la costante sensazione di poter sbagliare qualcosa. In fondo io non ho nessuno da cui tornare e il compenso sarebbe utile per pagarmi l'affitto per tre mesi di fila, in modo da prendermi una vacanza più lunga in qualsiasi posto io voglia. Ho già da parte quello che mi serve per potermi fermare per tutto il tempo che desidero. Ma non è quello che voglio. Volare è la mia passione più grande. Viaggiare è eccitante, così come ritrovarsi in un posto diverso dopo ogni singolo volo.
Mi sposto in camera da letto e osservo la valigia aperta posta all'angolo della stanza, mentre indosso un paio di slip di seta e un reggiseno abbinato recuperati dal borsone.
Perlustro tra le confezioni colorate che ho fatto recapitare nella mia camera d'hotel da un negozio nelle vicinanze. Roba abbastanza costosa da poter indossare a un'inaugurazione e in qualche occasione come un appuntamento. Da quanto tempo non ne ho uno? Forse, una volta finita questa serata, dovrò accettare un invito da parte di un collega e provare a divertirmi, anziché riempirmi di lavoro.
Per non addentrarmi in un'altra serie di pensieri disturbanti, allungo le dita verso la busta blu e sollevo l'abito nero al suo interno.
«Okay, abbiamo l'abito», scocco una breve occhiata all'orologio.
Sono decisamente in ritardo. Ma che saranno mai altri minuti di attesa se paragonati al fatto che mi hanno invitata meno di ventiquattro ore prima del mio ultimo volo e con una minaccia non poi così velata.
Theodore Wild non cambierà mai.
Non conta se mi ha ripudiata, allontanata, maltrattata e venduta. Non conta neanche se mi ha tradita e umiliata, ridendo di ogni mio problema. Se mi ha sbattuta fuori dalla sua famiglia facendomi vivere come una reietta. Lui troverà sempre un cavillo da usare contro di me. Farà sempre leva sui miei sentimenti con il suo piede di porco fino a sfondare ogni barriera, a frantumarla sotto le sue suole costose.
Stavolta non posso contrastare la sua ascesa. Non posso esimermi dall'essere presente alla sua grande serata. Non posso neanche rifiutare uno dei tanti appuntamenti che mi ha fissato nel corso degli anni con vari soci, neanche fossi una puttana. Inutile dire che per punirlo e trovare vendetta non mi sono mai presentata facendogli fare la figura dell'idiota. Ha raccolto ciò che ha seminato. Stavolta però mi toccherà sopportare un viscido pezzo di merda per una buona causa; la mia.
Con un sospiro, la voglia di richiudere la valigia e correre verso il primo aeroporto accettando qualsiasi richiesta dai clienti più eccentrici. Indosso l'abito, mi trucco, sistemo i capelli e quando mi ritengo soddisfatta del lavoro fatto su me stessa in così poco tempo, allaccio le scarpe con il tacco, recupero la borsetta ed esco dalla stanza d'hotel.
Non devo attendere sul marciapiede, rischiando di farmi riconoscere. Trovo il mio autista pronto all'entrata.
Non appena salgo in auto e lo informo della mia meta, in silenzio mi porta sul posto. Apprezzo che non abbia voglia di indagare o porre domande inopportune come farebbero in tanti.
Durante il tragitto controllo il telefono trovando molteplici messaggi da parte delle mie sorelle e ulteriori chiamate da Ersilia.
Prima di scendere, dopo aver pagato la corsa, l'uomo al volante sembra esitante. Infine mi lascia andare. Forse anche lui ha notato la mia voglia di trovarmi da tutt'altra parte. O ha ritenuto questo posto inadatto a una donna e per di più sola. Suggerisce la vocina dentro la mia testa. Ma qui il vero pericolo sono io.
Entro nella hall venendo inondata non solo da qualche flash, anche dall'afflusso di persone, le quali sembrano fermarsi al mio passaggio.
I miei occhi si artigliano su mio padre prima ancora che sia lui a vedermi. Indossa un completo elegante. È grasso, con un principio di calvizie. Macchie marrone chiaro e chiazze rosse gli segnano il viso gonfio dall'alcol e forse anche da qualche sostanza che non deve aver smesso di prendere ogni sera prima di dormire.
La sua reazione è quella di sempre: sgrana gli occhi.
Siamo due fiere, l'una di fronte all'altro. Ci studiamo nel breve tragitto che ci separa, senza mai distogliere lo sguardo.
Mi avvicino.
«Ciao, padre. Da quanto tempo?»
Theodore solleva appena l'angolo del labbro come un grosso gatto insoddisfatto, pronto a mangiare un altro topo. Il disgusto per il fatto che io lo abbia chiamato padre è velato.
L'ho fatto di proposito. Ho iniziato a stuzzicarlo già dal momento in cui ci siamo avvistati.
«Faye, sei splendida».
È sincero. Non c'è scherno dietro il suo complimento. So che deve aver appena rivisto la sua giovane amante.
Sono un po' più alta, anche grazie ai tacchi, i miei capelli scuri sono legati su un lato da un fermaglio e ricadono in morbide onde fin sotto le scapole; il mio colore degli occhi è accentuato dal trucco. Mentre il mio corpo è fasciato da un lungo abito che mostra ogni curva del mio corpo rassodato dalla palestra. Ho scelto il nero per andare contro la sua richiesta di indossare abiti bianchi.
«Allora, a chi devo tenere compagnia stavolta?», alzo il tono sfoderando un sorriso rilassato. «Un adolescente o un vecchio arrapato?»
Lui avvampa. Nei suoi occhi lampeggia la furia per l'affronto e l'insinuazione. Dopotutto tiene ancora alla sua facciata.
Bene, sarà a quello a cui mirerò prima di andarmene. Ho intenzione di giocarmi tutte le mie carte entro fine serata. Intendo rovinarlo. Perché merita ogni grammo di sofferenza che lui ha inflitto a me e ad altre persone. Soprattutto adesso che ha sottratto qualcosa che non gli appartiene e lo detiene quasi come un vanto.
Le ville, il club, l'hotel, il casinò, lo yacht, il porto... non è padrone di niente.
«È questo il modo di presentarsi alla festa di tuo padre?», domanda a denti stretti scandagliando ancora il mio corpo e soffermandosi sul vestito. «E sei in ritardo», prosegue indicando il grosso orologio placcato d'oro al polso.
Fingo di guardarmi le unghie laccate di rosso ciliegia, prima di prendere un calice dal cameriere di passaggio.
«Per i tuoi successi immeritati, per questo furto che ti frutterà milioni in grado di ripagare ogni tuo debito, Theodore Wild», alzo ancora il tono della voce, sollevando il calice nella sua direzione. «Salute!», bevo un sorso di champagne e quando prova ad avvicinarsi mi scanso e con nonchalance mi dirigo verso le mie sorelle, rimaste a distanza di sicurezza e pronte ad abbracciarmi.
«Sei abbronzata», esclama Andra, palesemente invidiosa del mio stile di vita.
«E sei molto alta con quei tacchi. Come diavolo riesci a portarli senza avere una polizza assicurativa sul collo?», prosegue Audie.
Non posso non sorridere. Mi sono mancate.
«Tanta pratica».
Sono anni che non ci vediamo fisicamente. Ho perso il conto delle volte in cui ho avuto bisogno di loro e alla fine ho trovato, oltre a Sandra, mia unica amica dai tempi del college, me stessa, l'unica forza che mi è servita per tirare avanti.
Di tanto in tanto mando loro qualche cartolina dai posti in cui mi trovo. Per le feste o alcune ricorrenze sono solita fagli recapitare dei regali, senza mai aspettarmi niente in cambio. Le chiamate sono sempre brevi e prive di qualsiasi domanda o argomento riguardante il passato o nostro padre. Più che altro sono loro a parlare e a raccontarmi tutto quello che riescono a far entrare in una chiamata di qualche minuto.
«Vi trovo bene», sfioro le ciocche mosse di Audie. «Fammi vedere quell'anello. E tu, Andra, non tenere nascosto il tuo. Ho visto il luccichio accecante di quel diamante da una certa distanza. Per poco non mi si bruciava una cornea».
Mi mostrano i regali dei loro promessi sposi poi, con non poca insistenza, me li fanno conoscere.
Quando i due si presentano, ho subito chiaro il fatto che apprezzino realmente le mie sorelle. Cosa non scontata dato il loro passato di cacciatrici e le loro personalità esuberanti.
Entrambi sembrano alla mano, gentili quanto basta e abbastanza attenti da non risultare sciocchi. Sono affiatati tra loro e le mie sorelle sono felici. La cosa non può che farmi piacere.
Per fortuna, a breve dimenticherò i loro nomi. Inoltre, dopo questa serata, dubito che le mie sorelle vorranno ancora avere a che fare con me.
Mi scuso e mi allontano per trovarmi un angolo in cui ricompormi. Ersilia, purtroppo, mi intercetta e mi raggiunge. Ci abbracciamo brevemente.
«Sei riuscita a mangiare? Ma guardati, sei così magra!»
«Ho preso qualcosa prima di addormentarmi nella vasca».
Mi guarda storto e io mi stringo nelle spalle. «Ero così stanca da non riuscire ad alzarmi e l'acqua era così calda da aiutare i miei muscoli a rilassarsi dopo ore frenetiche tra un volo e l'altro».
Mi accarezza una spalla. «Stai bene?»
Osservo la sala, le persone che mi scrutano e forse mi giudicano dopo aver ascoltato la breve discussione con mio padre.
Non è cambiato proprio niente.
«Sì», sfodero un sorriso finto. «Ma dimmi che non manca tanto alla fine di questa serata così posso tornarmene alle mie cose. Ho un'agenda fitta di impegni questa settimana», mento e lo faccio in modo convincente.
Ersilia si morde nervosamente il labbro inferiore.
Non è invecchiata di una ruga. È sempre bella, gentile e pronta a fare la sua parte. Più volte, nel corso degli anni, ha tentato di far avvicinare mio padre, di smussare un po' dei suoi spigoli. Purtroppo ogni suo tentativo è stato vano. Alla fine le ho chiesto, anzi l'ho supplicata, di lasciar perdere.
So che ci sta male per non aver avuto successo. Ma non avrei potuto chiederle di fare di più. So del debito che ho nei suoi confronti e niente potrà mai ripagarlo.
«Tuo padre vuole che tu conosca quest'uomo. Dubito che potrai andartene prima che lo faccia lui. Ha atteso il tuo arrivo e sta aspettando paziente che tu lo raggiunga. Ha una certa reputazione da mantenere», dice rivolgendosi a un gruppo di uomini intenti a chiacchierare animatamente tra loro e che normalmente non toccherei neanche con un palo.
«Hai disdetto più volte. Penso sia giunto il momento di conoscerlo. Magari sarà la volta giusta».
Crede davvero che io voglia stare con qualcuno che non conosco, che mi è stato imposto e che sia pronta a sistemarmi? Che sia questa la soluzione a ogni problema?
«Che te ne pare?», prosegue, stavolta indicandomi la persona giusta.
I peli mi si rizzano sulla nuca quando osservo l'uomo in questione. Indietreggio istintivamente di un passo, mostrandole la mia reazione.
È uno scherzo?
«Oppure posso cercare di...»
Devo imparare a nascondere meglio quello che provo, rimprovero me stessa.
«No, non preoccuparti. Ho intenzione di accontentare mio padre. Stavo solo cercando un po' di coraggio ad avvicinarmi all'ennesimo viscido pezzo di merda con il quale vuole farmi accoppiare neanche fossi una giumenta con pedigree».
Ersilia arriccia il nasino sofisticato di fronte alla mia impertinenza. «Faye, vedi di non fare danni stasera. È importante per tuo padre».
Crede davvero che lui abbia lavorato duramente per ottenere tutto questo?
Non è il suo territorio, cazzo!
Glielo vorrei tanto urlare, scuoterla abbastanza da farla rinsavire, perché è impossibile che in tutti questi anni non abbia capito, ma mi trattengo e mi nascondo dietro un'espressione indifesa e innocente. «Non ho niente in mente. Adesso vado da quel porco e faccio la mia parte. Ma ti avviso già che se solo alzerà un dito mio padre avrà più di un problema da risolvere perché chiamerò la polizia o il numero per le molestie. Non sarà un bello spettacolo».
Lasciandola a bocca aperta mi dirigo a passo spedito verso lo stronzo, il quale vedendomi arrivare si liscia la giacca e mi rivolge un sorriso finto e cortese porgendomi persino la mano il cui anello potrebbe sfamare mezza popolazione mondiale dei paesi poveri.
«È un piacere conoscerti finalmente, Faye. Sono Romero».
Non ho bisogno del cognome per sapere con chi ho a che fare. I Ramirez sono spietati per le strade e possiedono territori talmente vasti da perdercisi. Sono anche molto famosi, numerosi, e i loro volti drappeggiano molteplici tabelloni pubblicitari, oltre ad avere milioni di seguaci sui social.
In qualche modo sono riusciti a costruirsi la facciata della famiglia che ha dovuto fare dei sacrifici per riuscire a realizzarsi. Dietro le quinte la verità è ben diversa.
«Mio padre mi ha detto che volevi conoscermi, allora eccomi. Ma temo di non poter restare fino a tardi. Sono molto impegnata in questo periodo», senza dargli ulteriori informazioni prendo un altro calice per lui. Il primo, per chissà quale assurda ragione, l'ho portato dietro ed è ancora in parte pieno.
Faccio tintinnare il bicchiere sul suo. «Brindiamo a questo breve incontro».
Romero non sembra uno che si lascia abbindolare facilmente, forse è per questo che sto usando un approccio diretto con lui. Sapevo già in partenza di non poterlo e doverlo sottovalutare. Dietro quegli occhi si nasconde un serpente a sonagli.
Inoltre, Romero Ramirez è noto per la sua mancanza di controllo. È un vero e proprio sadico.
«Brindiamo allora anche alla tua breve presenza. Sei magnifica, un piacere per gli occhi. Tuo padre dovrà darmi molte spiegazioni riguardo il tuo ritardo, ma penso che riusciremo a trovare un accordo al riguardo».
«Oh, ma non c'è ragione di scomodarlo. A questo posso rispondere io. D'altronde sono la diretta interessata», bevo un altro sorso, sentendo le bollicine sulla lingua. Lo faccio per darmi coraggio, per portare avanti il mio piano.
«Davvero?», domanda quasi con diffidenza.
«Io e mio padre non ci parliamo più da anni. Ecco perché non mi ha avvisata dell'inaugurazione, se non quando si è ritrovato in difficoltà, dopo averti mentito e fatto promesse a mio nome, obbligandomi a presenziare. Non sono qui di mia spontanea volontà e se posso essere sincera, senza offesa, odio gli appuntamenti combinati con degli sconosciuti».
Romero somiglia a una statua alla quale hanno appena decapitato parte dell'uccello. Digrigna i denti e manda giù il resto dello champagne lasciando il calice su un tavolo vicino. Si lecca poi le labbra rosee e sottili prima del gesto con la mano quando si liscia la barba mentre i suoi occhi si accendono di minaccia.
«Vuoi scusarmi un momento?», mi domanda a denti stretti.
Non lo trattengo di certo e seguo le persone in direzione del porto. Qui il catering sta distribuendo stuzzichini e bevande dietro la lunga tavolata disposta su un lato, a poca distanza dal molo.
Mi volto un paio di volte con la costante sensazione di essere osservata, ma quando lo faccio non c'è nessuno; eccetto qualche uomo alticcio pronto a invitarmi a ballare o a passare la serata con lui.
Con un sospiro tracanno il resto dello champagne e decido di non berne più neanche un goccio. Ho appena iniziato a mettere i bastoni tra le ruote a mio padre.
Lui mi ha indirettamente scavalcata e mi ha sottratto questo posto appropriandosene. Non sa che in qualche modo l'ho ereditato dal mio accordo e che spetterebbe a me inaugurare il porto.
Al momento gli sto facendo godere il suo piccolo successo prima di fermarlo.
Mi mantengo a debita distanza dalle mie sorelle, da Ersilia in compagnia delle sue amiche pettegole e di mio padre. Lui si sta avvicinando al grosso nastro rosso dietro il quale si estende un lungo ponte fatto di legno e cemento, costellato da luci. Sulla sinistra uno yacht con il nome di The lady Wild Wave, in attesa di essere battezzato, oscilla cullato dalle onde.
Rifiuto il calice che un cameriere mi sta offrendo, sollevando quello ancora mezzo pieno.
«È stata una bella serata, nel complesso».
Romero mi si affianca. Volto la testa nella sua direzione, cercando di capire se il suo tono sia ironico o altro. Il suo volto è disteso in un sorriso e quando beve un sorso dal suo calice, facendo una smorfia, seguo il movimento del suo pomo d'Adamo che va su e giù.
È attraente e vanesio ma non è il mio tipo. Non ho nessuna intenzione di competere con la sua immagine riflessa allo specchio.
«Se per bella intendi piena di nemici e opportunità di affari, chi sono io per dissentire o giudicare?»
Mi sorride usando una smorfia appena accennata che fa comparire una minuscola fossetta su una guancia coperta dalla barba scura e curata. «Tuo padre mi ha mentito, di nuovo».
«Penso sia sempre stato un bugiardo patologico. Non gli importa dei sentimenti degli altri. Fa quel che è necessario per se stesso e per la sua famiglia».
«Di cui tu non fai parte se non quando lui non ha bisogno? Ho capito bene?», indaga.
«Esatto», non appaio ferita dalla sua domanda e lui annuisce un paio di volte prima di guardare mio padre in cagnesco. «Potrei sottrargli tutto questo se volessi», indica con un gesto intorno. «Mi ha preso in giro per gran parte del tempo fino a quando non hai accettato».
«Ma non lo farai?», più che una domanda la mia è una constatazione.
Per quanto sia sincero, dubito che abbia intenzione di sferrare un attacco alle spalle di mio padre. Sono letali e abbastanza leali tra loro.
«Ha cercato di fottermi e gliela farò pagare comunque. Conosce le regole».
«È fatto così. Sono sicura che riuscirà ad accontentarti».
Non sto cercando di giustificarlo.
Romero fa un cenno a un suo uomo, poi si avvicina ancora di più. Sono costretta a immobilizzarmi, nonostante sia nauseata dalla sua colonia invadente e dai suoi continui sguardi carichi di aspettativa che spingono il mio istinto a retrocedere.
«Prima che coroni il suo sogno e io finga di esserne contento, c'è altro che mi preme dirti», attende un mio cenno e quando arriva, prosegue: «Sarò schietto. Tuo padre è stato più che disposto a offrirmi la tua mano. Ne ricaveresti più di un appartamento in centro città dal nostro accordo. Devo solo sapere se sei stata informata, se sei libera come ha ribadito e disposta a essere mia».
Non me lo sta chiedendo. Mi sta avvisando. Lui non è uno che accetta il rifiuto. Non va per il sottile, rifletto mentre un velo di sudore mi cola lungo la spina dorsale. Quell'unica gocciolina però mi infonde un certo coraggio.
«Mi dispiace ma sono già destinata a qualcun altro. Adesso se non ti dispiace, devo andare», mento indicando l'anello finto che porto quasi sempre in occasioni come queste all'anulare.
Senza attendere e con l'impressione di non essere stata creduta, prima che possa bloccarmi e rendermi partecipe del programma che ha abbozzato per la mia vita, raggiungo le mie sorelle.
«Allora, che mi sono persa?»
«Un noioso discorso da parte del sindaco e a breve quello di nostro padre», blatera Audie.
«Ha scelto Romero per te», Andra arriccia il naso, mentre Audie sibila scuotendo la testa: «Doveva proprio essere disperato se ha fatto affari con quel mostro. È risaputo che i Ramirez non sono affidabili e gente di cui fidarsi».
«Sapete cosa c'è in ballo?», indago, mettendole alla prova.
Tra loro intercorre una conversazione silenziosa prima che neghino all'unisono.
«Non ne avevamo idea fino a questa sera, Faye. Ci dispiace. Se avessimo saputo avremmo fatto in modo che non ti presentassi», replica Andra.
Certo, avrebbero impedito che io e Romero Ramirez fossimo faccia a faccia e che mio padre non ottenesse quello per il quale mi ha venduto. Ma in quel caso neanche loro avrebbero ottenuto niente. Ergo, mi hanno appena mentito e fatto leva sul mio senso di colpa per essere presente.
Stringo i pugni in vita. Vorrei avanzare e interrompere tutto. Vorrei sganciare la bomba e mettermi su quel piedistallo, affermare che dovranno fare affari con me e non con mio padre. Poi potrei in qualche modo fermare Romero e la sua pretesa di avermi. Perché ancora una volta non ho avuto la possibilità di dire la mia, di prendere una decisione. Sono stata venduta. La cosa mi disgusta e fissando intensamente mio padre capisco che a lui non è mai importato niente di me. Non mi ha mai voluta bene. Mi ha solo tenuta per offrirmi al miglior offerente e ottenere qualcosa dopo la vergogna che ha provato nel sapere di avere una figlia illegittima. Questa è sempre stata la sua vendetta nei confronti della donna che mi ha messa al mondo senza il suo consenso.
Allora perché mi trovo ancora qui in attesa? Perché non agisco? Perché non spezzo quell'ultimo brandello che ci tiene ancora legati?
Inspiro ed espiro.
Al diavolo la cautela!
Le mie sorelle notano il mio repentino cambio di umore e non fanno neanche in tempo a comprendere quello che sto per fare.
«Cosa...»
Avanzo più che pronta a dare una lezione all'uomo che ne ha sempre impartita una a me.
Ignoro gli sguardi curiosi, i bisbigli che cominciano a sollevarsi mentre mi faccio strada sculettando e supero il cordone con il fiocco rosso, in attesa che Theodore Wild lo tagli.
Proprio lui, sul punto di dire due parole e ammaliare il suo pubblico di stronzi, mi scocca un'occhiata che un tempo mi avrebbe terrorizzata ma che adesso mi dà solo una spinta in più per chiudergli la bocca.
«Faye, cosa stai facendo?», chiede a denti stretti Ersilia.
La ignoro. «Stavi per dire quanto tu sia orgoglioso di questo posto, vero?», comincio ringraziando il cameriere che di seguito al mio cenno mi ha raggiunto con la mia borsetta dalla quale tiro fuori un foglio ripiegato. «Be', io sto per dirti invece che non è tuo».
«Cosa?»
«Sai quella volta in cui mi hai costretta a mettere un anello al dito? Quella in cui mi hai persino sfregiata quando mi sono rifiutata? Be', quando il mio ex è morto, grazie a un vincolo che non hai mai notato o preso in considerazione, vuoi per arroganza, vuoi per indifferenza, vuoi per fame di potere, ho ereditato tutta questa zona e non solo».
Intorno a noi la gente sussulta e alcuni membri del clan chiedono spiegazioni a gran voce. Persino lo stesso Romero, con il viso rosso fuoco e gli occhi neri che stanno trafiggendo Theodore mentre questi indietreggia come se lo avessi colpito ripetutamente.
«Lo sapevi, non fare la patetica scenetta dell'ignaro. Ormai non ti crede nessuno», deglutisco. «Hai fatto comunque tutto alle mie spalle e hai preso accordi con persone alle quali non puoi offrire niente perché non sei tu il proprietario legittimo».
Ride. «Hai proprio una fervida immaginazione. Vedo che sei rimasta la solita patetica piantagrane che ho cresciuto per beneficenza».
Attutisco le ultime parole, lasciandole scorrere nel mio cuore. Lo lascio sanguinare e sommergermi l'anima.
Non mi feriscono più. Non mi feriscono più. Non mi feriscono più.
«Dici?»
Continua a sorridere. «Quel foglio non ha più nessun valore. I Blackwell, i quali sono qui presenti, possono confermarlo. Sei stata lasciata e con la fine del tuo rapporto con il maggiore dei fratelli non hai ereditato un bel niente!», alza il tono. «Non sei neanche riuscita a tenerti stretto quel figlio di puttana facendotelo soffiare da sotto al naso dalla tua migliore amica».
Loro, sono qui?
Non mi lascio sconvolgere da questo particolare, tantomeno da quella parte dolorosa del passato che sta rivangando di proposito per ferirmi.
«Ne sei sicuro?», spingo il foglio nella sua direzione. «Io controllerei e chiamerei il notaio e un buon avvocato».
«Wild, cos'è questa storia?», domanda il padre di Romero. «Tua figlia dice la verità?»
Theodore nega guardando i suoi soci a uno a uno. Prende il foglio, non lo guarda nemmeno e lo strappa in due dandomi l'ennesima prova del fatto che non mi ha mai voluta. Mai.
Rimango composta. Quel foglio era solo uno delle tante copie che ho nascosto.
«Poi sarei io quella immatura», esclamo.
«Smettila immediatamente! Stai solo cercando di rovinare tutto. Sei abituata a farlo. Qual è il motivo? Non vuoi conoscere Romero perché sei libera di aprire le gambe a ogni estraneo che ti si avvicina? È perché non ti ho viziata o cresciuta come le tue sorelle? Mi stai punendo?»
Non reagisco. Non farebbe che perorare la sua causa e questi uomini vogliono vedermi in ginocchio. Ma a breve saranno loro a farlo.
«Theodore!», urla Ersilia per redarguirlo. Ma lui è già partito per la tangente e non ha nessuna intenzione di fermarsi fino a quando non sarò a terra, inerme e implorante.
«Lo sappiamo tutti come vive. Gli sto solo offrendo una nuova opportunità. L'ennesima che è disposta a rifiutare per orgoglio, inscenando una falsa pretesa al trono dei Wild. Mi dispiace per te».
Adesso sono io quella a ridere. La mia reazione gli provoca sgomento quando mi avvicino, recupero i due pezzi di carta e glieli sbatto sul petto, costringendolo a prenderli. «Domani verrai contattato dai miei legali e se non farai i bagagli e non uscirai dalle mie proprietà, ti ritroverai i miei uomini alle calcagna, Theodore Wild», affermo bluffando. Guardo poi i presenti a uno a uno. «E voi, fareste meglio a indagare prima di portare avanti un affare con questo truffatore».
Mi avvicino al sindaco e togliendogli le forbici dalle mani, taglio il nastro. «Benvenuto all'inferno!», lancio la bottiglia di champagne, la quale si rompe contro lo yacht. Un buon auspicio. «Buona fortuna per domani. Ho saputo che il mercato immobiliare è particolarmente folle in questo periodo. Spero tu abbia dei risparmi».
La folla si apre per lasciarmi passare.
«Tu... piccola inutile puttana, come osi venire qui e fare tutto questo? Non ti ho forse cresciuta meglio di così?»
Rido ancora, mi fermo e mi volto. «Non mi hai cresciuta affatto. Tu non mi hai mai voluta. Mi hai solo tenuta per i tuoi sporchi affari. Perché non sarai mai sazio. Mai soddisfatto di ciò che hai ottenuto. Ti consiglio di iniziare a fare i bagagli e lasciare il mio territorio».
«Non è il tuo territorio! È il mio e l'ho ottenuto da...»
«Scegli bene le parole che stai per pronunciare, Theodore Wild, perché potrebbero essere le ultime che dirai».
La folla si è spostata alle mie spalle e quando mi volto il mio mondo oscilla.
La mia anima si è appena spaccata in due. Un colpo secco, un fulmine caduto all'improvviso, una crepa che si allarga. Una parte di me ferita e ancora stordita mi dice di fuggire, ma quando sbatto le palpebre per scacciare il velo a impedirmi di vedere bene e l'ovatta viene tolta dalle mie orecchie, quando lo vedo, il mio corpo non sa più come reagire, non so come muovermi. Mi dimentico di quello che dovrei fare, come si respira. La terra viene scossa e prendo uno, due respiri appena per non svenire.
Fermare quello che ti capita è impossibile. Puoi solo prepararti ad accogliere quello che il destino ha in serbo per te e resistere cercando di non andare completamente in mille pezzi.
«No, non è possibile», sussurro indietreggiando. È un sogno. Non può essere nient'altro, mi dico. Ma più il tempo scorre, più mi rendo conto che è reale. Lui è qui. È vivo.
Vedo impallidire molteplici volti, compreso quello di mio padre, il quale spalanca la bocca annaspando come un pesce fuor d'acqua neanche avesse appena visto il volto del diavolo.
L'ha riconosciuto. Impossibile non farlo. Quegli occhi sono indimenticabili nubi con in arrivo una tempesta.
Rhett Blackwell ficca i pugni nelle tasche del completo di alta sartoria nero e quando la folla si apre per lasciarlo passare, avanza spedito come un rettile che ha in mente di affondare i denti e avvelenare la sua preda.
«Allora, sto aspettando», pronuncia con un marcato accento e uno sguardo freddo e insondabile. Il suo tono è un ringhio basso, ma sufficiente a far reagire i miei sensi.
«R-Rhett?», balbetta Theodore. Lentamente abbassa le spalle e sulla sua bocca si forma un sorriso costruito. Apre le braccia. «Ragazzo mio, allora sei vivo», ride.
Rhett rimane immobile, come una statua immortalata nel suo momento di tensione più puro. Non un solo muscolo gli si muove. «Stavi per dire qualcosa a tua figlia. Continua, voglio proprio sentire», afferma, appoggiandosi a una colonnina posta sul lungo tappeto rosso sulla quale è stato adagiato un vaso pieno di rose. Ne strappa una giocando con lo stelo privato in precedenza delle spine.
«Stavo dicendo a Faye, la quale è decisa a rovinare questa magnifica serata, che questo posto è mio», dice Theodore a denti stretti, in parte intuendo di essere sotto minaccia. Tira fuori dal taschino un fazzoletto, tamponandosi la fronte.
«Cos'è quel foglio?», Rhett lo indica.
«Solo carta straccia. Andiamo, perché non festeggiamo? Raccontami dove sei stato».
Rhett non abbocca. I presenti continuano a non fiatare. Osservano lo scambio con interesse.
Rhett si stacca dalla colonnina, ci raggiunge e nel prendere il foglio strappato in due mi supera lasciando che una folata del suo odore mi raggiunga.
I suoi occhi scandagliano il foglio, legge con avida attenzione.
«Carta straccia, eh?», scruta Theodore come un rapace. Poi solleva l'angolo del labbro. «Buffo perché avrebbe avuto ragione se fossi davvero morto. Ma non lo sono», stropiccia il foglio fino a crearne una pallina che lancia in faccia a Theodore. «Volevi privarla di un suo lascito?», spinge la lingua tra i denti contrariato.
«Non ne sapevo niente», ansima Theodore, mettendo le mani avanti come se gli stessero puntando contro un'arma. «Possiamo discuterne in privato? Magari domani?».
Rhett guarda la folla. «No», ribatte.
Sento il sussulto generale. Persino il mio si unisce a quello degli invitati ancora stupiti.
«No?»
«Perché dovrei?»
«Sono certo che troveremo una soluzione. Abbiamo sempre fatto degli accordi tra le nostre famiglie».
«Accordi che non sembra tu abbia rispettato. O mi sbaglio?»
«Io ho ottenuto legalmente questo posto», prova a giustificarsi. «Non crederai alle insinuazioni di una stupida ragazza abbandonata e tradita, pronta a vendicarsi contro il suo stesso sangue?»
Rhett fa un passo verso di lui.
«Sarò breve e non ho intenzione di ripetermi», alza il tono. «La stupida ragazzina è la mia fidanzata. Non ha fatto nessuna insinuazione. Hai sentito quello che ti ha detto, inizia a portare fuori dal nostro territorio le tue cose».
Si volta, mi supera e si avvia da dove è arrivato. Prima però si ferma e mi aspetta per un'uscita di scena degna di nota.
L'uomo che ho davanti è lo stesso che riappare nei miei incubi ogni notte, eppure sembra diverso. Alto, slanciato, giovane, sensuale, un maledetto bastardo. E ha appena detto che sono la sua fidanzata.
A che gioco sta giocando?

💛🪽

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