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Capitolo 16

Parte Seconda
Oggi

Rhett

Sento la mancanza della luce, del calore, della vita. Non riesco ad aprire gli occhi e a sollevare lo sguardo, i battiti accelerano, il respiro viene meno. Perché so già che non appena mi riscuoterò troverò qualcosa da cui mi sarà impossibile districarmi.
Con la stessa rapidità, il mio subconscio manipola il sogno. Lo scenario allora cambia in qualcosa di ancor più cupo. I miei palmi si artigliano alla pietra umida, affilata come un rasoio che recide prontamente la mia pelle.
La mia testa si riempie di immagini, suoni, uno più orribile dell'altro. L'impotenza mi attanaglia mentre l'odore della morte invade il mio naso.
Porto le mani sulla testa, le dita affondano sulla cute, stringono i capelli. «BASTA!», urlo. «Basta, ti prego!», mi agito sentendo il brivido del terrore per l'arrivo della punizione, e come un animale spaurito mi rannicchio in un angolo, divento un tutt'uno con la stessa parete che puzza di muffa e sangue. Il mio. Quello di tanti altri prima di me.
«Basta!», ripeto, con la voce spezzata, annichilito dal mio stesso terrore.
Credevo di essere coraggioso, di conoscere la vita e i duri fendenti inflitti dal destino. Non avevo ancora fatto i conti con la realtà, con tutto questo orrore che sembra non avere fine.
Il cuore scalpita, e l'affanno comincia a farmi dolere il petto. Schiacciato sempre più fino a spezzarsi. Fino a togliermi il respiro.
Non sono il duro che ho sempre finto di essere. Perché fingere è sempre stata la parola chiave. Adesso però devo uscire da qui, devo trovare un modo...
Una sirena, il meccanismo cigolante di una sbarra che viene sollevata, lo stridio del ferro arrugginito contro la roccia, il ringhio che rimbomba feroce, i passi della bestia accostati al costante gocciolio dovuto alle infiltrazioni; le urla concitate dei prigionieri nell'ora del divertimento che si svolge giù nella fossa, in cui a sorte hanno stabilito la loro condanna o la loro libertà. Un modo come un altro, forse, per liberare il mondo dalla feccia.
Io sono una di queste.
È di nuovo il mio turno? Stavolta sarà l'ultima?
«NO! NO! NO!».
Ogni cosa si distende al rallentatore, come se il tempo avesse messo un freno al mondo sbiadendolo e riducendolo a uno sfondo privo di significato.
Sbircio e il mio stomaco sprofonda.
Scatto a metà busto, sudato e ansante. Ogni centimetro della mia pelle è reso appiccicoso dalla paura. Ho il cuore in gola, la testa pesante, le tempie che pulsano come due martelli pneumatici a sostenere un ritmo incalzante e doloroso.
Lascio che i miei occhi appannati si abituino al tenue bagliore nella stanza, finché non riesco a vedere tutto in modo nitido. Finché le immagini dell'incubo non si affievoliscono. Anche se posso ancora sentire lo stesso odore fetido, quello che dalle mie narici non andrà mai via.
Sbatto le palpebre adattandomi alla luce della lampada di sale a raggiungermi con il suo tenue bagliore giallognolo. Il letto king-size è tutto sfatto, come se ci fosse passato sopra un tornado. Le lenzuola aggrovigliate, sono per metà riverse sul pavimento insieme ai cuscini. I resti del bicchiere d'acqua, posto in precedenza sul comodino, sono sparsi sul pavimento e galleggiano come iceberg imperfetti e taglienti sopra il liquido. Il libro si è salvato per miracolo, ma giace poco distante, incastrato tra il letto e il comodino.
Stringo forte le ginocchia al petto e mi dondolo un paio di volte prima di sentire lo scatto della porta e voltarmi in direzione del suono che potrebbe farmi allarmare se non avessi già pensato di darmi un pizzicotto per accertarmi di essere sveglio.
«Rhett, tutt'ok? Sei ferito?»
La domanda si perde insieme al mio respiro ancora affannato.
Come posso fargli questo? Perché mi trovo ancora qui e non in una struttura per schizzati?
La mia pelle non si è ancora rimarginata. È sottile, come lo strato di ghiaccio del primo inverno, che se la tocchi, se fai pressione, si riempie di crepe fino ad aprirsi, fino a staccarsi.
Le persone dovrebbero stare alla larga da me. Io sono come quel foglio di carta che sfiori appena con il polpastrello e ti taglia, ti provoca un bruciore del cazzo e ti fa sanguinare. Sono un pericolo per me stesso e forse anche per chi mi circonda.
Blue entra in camera, ignara dei miei pensieri turbolenti. Aggrappata al suo fianco, come un koala, c'è Isobel; assonnata, stretta al suo peluche preferito di Stitch e con un dito in bocca. I suoi occhioni trasparenti come le acque cristalline delle Hawaii mi scrutano insieme a quelli quasi identici della donna che si sta facendo avanti, affatto turbata dalla mia crisi, ma in apprensione.
Dopo essersi accertata che io non abbia ferite di alcun tipo, Blue mi passa Isobel. La prendo subito in braccio, cullandola e facendola sistemare come meglio vuole, mentre lei inizia raccogliendo con cautela i cocci di vetro.
Vorrei tanto dirle di non farlo, che spetta a me riordinare perché lei deve fare attenzione con il lavoro che svolge, ma dalla gola non esce nessun suono. È come se mi ci avessero stretto intorno un nodo scorsoio.
Mi maledico mentalmente per essere così tanto disturbato mentalmente da risultare patetico persino ai miei stessi occhi.
Come cazzo posso continuare a vivere in questo modo?
Isobel mi posa la manina paffuta sulla guancia. «Tio», mi chiama con un sorriso pieno di affetto, e come se avesse compreso il mio bisogno di essere confortato, mi offre il suo peluche.
Potrei mettermi a piangere e i miei occhi in effetti bruciano riempiendosi di lacrime che ricaccio prontamente in fondo perché servono solo a farmi sentire peggio.
Le bacio la tempia. «Grazie, piccolina».
«Tio», mi indica Blue, la quale adesso sta rifacendo il letto dopo aver cambiato le lenzuola sudate e impregnate di paura.
Su gambe malferme mi alzo tenendo in braccio la bambina e osservando Blue concentrata e affatto scocciata. Mi gratto la nuca. «Mi dispiace. È uno di quei giorni grigi».
Abbiamo classificato così le mie crisi dovute allo stress post-traumatico.
Blue sprimaccia un cuscino. «Era solo un incubo, Rhett. Succede a tutti di avere un giorno grigio», mi rassicura avvicinandosi. Prova a riprendersi Isobel, ma la bambina scuote la testa aggrappandosi al mio collo e al peluche che Terrence le ha regalato, il quale ormai è una parte integrante della famiglia. Guai a chi glielo tocca. Lo stesso vale per il ragazzo che ho avuto modo di conoscere di recente. Intelligente e sprecato per un semplice lavoro da ufficio.
«Mama, bicotto».
«Ottima idea, scimmietta. Con un po' di latte? Vi va?», chiede a entrambi, Blue.
Guardo Isobel. Dovrebbe essere a letto. «Certo che ci va. Hai sentito la principessa».
Usciamo dalla camera e incontriamo Faron. Se ne sta lì un po' assonnato appoggiato allo stipite della porta della loro stanza.
Non dovrei farlo ma istintivamente abbasso lo sguardo. All'improvviso è come se il pavimento mi stesse offrendo uno spettacolo migliore dalla reazione di mio fratello.
Odio quando mi succede.
«Dove state andando?»
Blue gli fa un sorrisino. «Latte e biscotti».
«Ci sto».
Faron ci segue e mentre ci sediamo a tavola, Blue prepara per tutti una generosa tazza di latte caldo con miele e biscotti che ha sfornato stamane, poco prima del turno in ospedale.
Come faccia a reggere il ritmo massacrante al lavoro e avere al contempo il costante buonumore a casa per prendersi cura della sua bambina e del suo rapporto con Faron, per me rimane un mistero.
Quando torna a tavola con un piatto pieno io mi concentro su mia nipote, la quale prende il biberon e prima lo offre al peluche, ridacchiando quando si accorge che la stiamo osservando.
Le sbriciolo un pezzo di biscotto e lei lo mangiucchia appoggiata al mio petto.
Assaggio un po' di latte, prendo un biscotto anche per me ed esito nel notare quanto Faron stia tentando di non parlare.
Un tempo ci dicevamo tutto, senza filtri, senza la paura di farci del male.
Capisco di essermi perso qualcosa. Ma non è stata di certo colpa mia. Sono stato rapito, secondo il racconto di Dante, per errore, e rinchiuso in un posto che torna a riempire il mio sonno. È successo prima che potessi risolvere le cose. Prima che la vita dei miei fratelli fosse travolta e la mia stroncata.
So che è ancora presto, che ho bisogno di crearmi una solida routine, ma ci sono istanti in cui mi sento mancare la terra sotto i piedi.
Ciò che ci spaventa di più è vivere senza certezze.
Il dolore è una costante. Il dolore... è un nemico imbattibile che ti si incide sottopelle e ti si cuce addosso come un'armatura piena di segni che sei costretto a nascondere per non sentirti fragile.
Le cose che ho amato e che ho perso, mi hanno strappato un pezzo dopo l'altro fino a ridurmi privo di forza. Ho elemosinato attimi e speranza, sogni come calamite attaccate al cuore che nonostante tutto ha continuato a sopravvivere, a ruggire nel silenzio. Ho riposato in un angolo buio, solo e in attesa di uno spiraglio, di un po' di aria fresca che ridonasse vita ai miei polmoni, stanchi di respirare tristezza, di respirare dolore.
Più di ogni altra cosa, sto desiderando di non provare niente. Vorrei andare avanti come se tutto fosse solo un compito da eseguire. Al contrario so che si tratta di qualcosa che mi sta divorando. Non c'è antidoto.
«Va meglio?», mi domanda mio fratello, un po' a disagio riguardo al modo in cui Blue gli ha consigliato di trattarmi.
Non siamo mai stati tipi da smancerie. Mentirei se dicessi che mi provocano un certo fastidio, perché in realtà mi fanno sentire più accolto, meno di troppo. Blue, in qualche modo, è riuscita a capire il mio bisogno, a farmi sentire parte di una famiglia che non conosco.
«Sì, grazie. Scusatemi, non volevo svegliarvi», stringo la presa sulla tazza.
Blue mi rivolge un sorriso comprensivo. È una donna buona, intelligente e altruista. Invidio la sua energia, la sua capacità di rialzarsi anche quando è chiaramente stremata.
«Niente di diverso di quando succede a Isobel o a me», mi rassicura. «Inoltre, non stavamo dormendo, quindi non sentirti in colpa».
So che le sue parole sono solo per conforto, ma ha fatto abbastanza per me. Devo iniziare a rompere quelle catene. Dovrei andarmene da qui. Lasciarli liberi di costruirsi una famiglia e di recuperare il tempo perduto tra loro. Perché percepisco il bisogno di Faron di riempire quei buchi dovuti alla sua assenza nei momenti più importanti di seguito al concepimento di Isobel. Il fatto di non esserci stato, di non aver saputo la verità, lo corrode.
Posso permettermi un posto. In questo palazzo, di proprietà di mio fratello, ad esempio, i piani sono quasi tutti liberi, fatta eccezione per quelli già ristrutturati e occupati. Se volessi potrei far iniziare i lavori sin da subito. Anche se Faron mi ha riferito che ho ancora qualcosa di mio e ben tenuto; qualora volessi allontanarmi per procedere a piccoli passi prima di avvicinarmi ai miei fratelli.
A quanto pare, il signor Enver, al porto, ha mantenuto a galla il mio yacht.
Non è poi così grande, ma offre una vista sull'oceano.
Non devo pagare tasse o un mutuo perché sono riuscito ad aggiustarlo con le mie mani e i miei risparmi quando ancora non sapevo quanto mi facesse sentire responsabile il saper costruire qualcosa che un giorno avrei osservato e considerato solo mio.
Sono sempre stato autosufficiente. Ho iniziato quando ho capito che mio padre avrebbe sempre e solo tirato acqua al suo mulino senza mai soffermarsi sui suoi figli, sulle loro aspirazioni. Avere uno yacht, quindi una sorta di casa tutta mia, seppur galleggiante, in cui scappare quando il mondo dei Blackwell e quello in generale mi stavano stretti, era per me una vittoria.
So che potrei farcela a sopravvivere altrove, se volessi e dovessi. Non mi è mai pesato staccarmi dal nido per riuscire a dispiegare le ali e volare lontano. Un tempo era persino il mio desiderio. Al momento però non sono in grado di fare questo passo. Non senza avere prima avuto una sorta di vittoria per ogni giorno di crisi e paura.
«Lei lo fa per un buon motivo», faccio il solletico a Isobel e gli occhi di mio fratello si trasformano al suono della sua risata.
Ama sua figlia più di quanto abbia mai amato la nostra famiglia e il credo che da sempre ci è stato impartito.
Sono contento che ognuno di loro si sia realizzato e allontanato da nostro padre.
Un groppo mi si incaglia in gola al pensiero di Seamus ormai pasto per i vermi. Non sono riuscito a dirgli addio prima che spirasse, ma sono certo che sia stato meglio così. Vederlo avrebbe riaperto altre ferite e le recriminazioni sarebbero state sufficienti ad allontanarci definitivamente.
La notizia che sia morto non è ancora stata divulgata tra i clan. Anche se ho il sospetto che si sappia già.
Il tempo è passato senza che neanche me ne accorgessi. Sono mesi ormai che provo a rimettere piede nel mondo ma puntualmente qualcosa riesce a turbare i miei progressi, a sbattermi di nuovo dietro quelle sbarre emotive.
Avere Faron, Blue e la piccola Isobel al mio fianco, mi ha ridonato pace ed equilibrio. Dante e Eden non sono stati da meno, insieme a Terrence e Coleman. Quest'ultimo è il chiaro esempio della parola cambiamento. Sfiderei chiunque a scoprire di non avere un briciolo di sangue Blackwell nel corpo, di avere vissuto in una menzogna, sotto la manipolazione di un figlio di puttana come Parsival e di rimanere a testa alta con i propri obiettivi per il futuro.
In qualche modo sta cercando di ripulire la propria immagine impegnandosi agli occhi dei miei fratelli e di tutti quelli che finora hanno incrociato il suo cammino giudicandolo inadatto. Persino io stento a riconoscere l'uomo che è diventato. O forse nessuno di noi l'ha mai davvero conosciuto.
La piccola Isobel stravede per lui. Questo in parte penso abbia smorzato l'astio da parte di Faron nei suoi confronti.
«Tio!»
Abbasso lo sguardo su Isobel. «Penso sia arrivato il momento di metterti a letto, scimmietta».
Faron si alza ancor prima che Blue si sia mossa. Prende Isobel, la solleva sulla testa facendola ridere, le bacia la tempia e cullandola e sussurrandole qualcosa la riporta nella loro camera da letto.
Blue mi adagia la mano sul braccio. L'istinto sarebbe quello di ritrarmi, ma non lo faccio. Non con lei. È stata la prima a tendermi una mano, a non guardarmi con compassione ma con la voglia di aiutarmi a liberarmi da ogni demone.
Ho capito sin dal primo istante perché Faron ha perso la testa per lei. Non conta l'età. Lei è perfetta per lui. Sono una cosa sola nata da una tempesta.
Blue mi ha raccontato la sua storia, mi ha parlato dei suoi incubi e di come sia arrivata a innamorarsi di mio fratello. Entrambi hanno patito le pene dell'inferno. Credevo di conoscere Faron, ma niente è quello che sembra. Lo stesso vale per Dante. Mai avrei pensato che un giorno sarebbe diventato il capo di un gruppo di agenti segreti e che avrebbe ritrovato Eden. La donna che presto lo renderà padre.
«Dove sei finito?», mi domanda Blue.
«Forse avresti dovuto correggere un po' quel latte», affermo per smorzare la tensione e sciogliere i muscoli ancora tesi in seguito al contatto della sua mano sulla mia pelle. Sforzo persino gli angoli della bocca per fare un sorriso.
«Non avrebbe risolto nessun problema e Faron si tiene lontano dall'alcol».
«Mi avrebbe steso per qualche ora dato che non lo reggo». Sospiro. «Ma non si può avere sempre tutto».
«Rhett, siamo qui per te. Non permetteremo che ti accada nulla».
Blue ha una sincerità spiazzante. Mi sono affezionato già parecchio a lei da considerarla mia amica e da affidarle qualche mio segreto.
«Non dovrei avere così tanta paura», affermo avvilito, grattandomi la nuca.
«Sai, per me la paura è sempre stata come una malattia. Se non te ne accorgi in tempo, ti consuma. Se trovi la cura, allora ti salvi, ritorni sano. Vuoi sapere come curarla? Affrontala, Rhett, perché la vita continua anche nei momenti bui. Perché è vivendo che scacci via quel dolore».
«Sono stanco, Blue».
«Allora riposati e quando senti di aver ritrovato le forze, affronta qualsiasi cosa si annidi nel buio della tua anima».
Rifletto sulle sue parole mentre lei le lascia attecchire. Più di chiunque altro ha conosciuto il dolore, il male, la solitudine, la perdita. Sa com'è sopravvivere mentre la paura tenta di sbranarti.
Faron torna in cucina. Se ha sentito lo scambio, non lascia trapelare niente di quello che pensa. È sempre stato un bravo giocatore di poker.
«Che ne dici se domani invece di quella dannata inaugurazione del porto non andiamo da qualche altra parte? Non siamo obbligati a partecipare. Noi a quelli non dobbiamo niente. Possiamo sempre fermarli con altri metodi».
Non è da lui scappare o affrontare in questo modo chi sta tentando di affondare i nostri affari, ma comprendo che mi sta dando un'alternativa per non dovermi ritrovare sotto i riflettori dopo anni rinchiuso in una prigione.
So già che la mia uscita pubblica farà scalpore e le domande saranno tante. Finora a stento sono riuscito a sfuggire dall'obiettivo dei media.
In questi mesi non ho solo lavorato su me stesso, riprendendo un po' quelle che sono abitudini normali. Ho recuperato dei vecchi documenti, letto libri, studiato per stimolare il mio cervello a riprendere lo stesso ritmo di un tempo e ho messo le mani sugli affari di famiglia. O meglio, su una fetta. Quella che ho sottratto a mio padre e ai suoi soci per precauzione prima di piombare all'inferno. Quest'ultima è proprio la ragione per la quale sono disposto a uscire allo scoperto. Devo vedere con i miei occhi cos'è successo. Devo vendicarmi, soprattutto della persona che ha messo in moto un piano che mi ha sottratto ogni felicità. Perché se gli altri pensano che sia stato solo un errore da parte di nostro zio Parsival, si sbagliano di grosso. Lui potrà anche avere avviato il tutto, ma ha avuto dei complici ad assecondarlo. Mentre Parsival voleva sbarazzarsi di noi partendo da Dante per mettere le mani sul tesoro dei Blackwell, gli altri volevano fare lo stesso per trarne un vantaggio.
Stringo i pugni sul tavolo e le nocche diventano sempre più bianche. «Non posso andarmi a divertire. Ho del lavoro da svolgere».
Faron coglie al volo il senso delle mie parole e lo stesso sembra realizzare Blue, la quale si alza, si avvicina alle spalle di mio fratello, lo abbraccia e dopo avergli dato un bacio e avermi abbracciato di soppiatto, si ritira con la scusa di dover andare a controllare Isobel.
Rimasti soli, Faron incrocia le braccia al petto, appoggiandosi allo schienale. «Vuoi davvero andare fino in fondo?»
«Non ho niente da perdere», replico. Non batto neanche ciglio perché è la pura verità.
«Saremo al tuo fianco», ci tiene a farmelo presente con sguardo intenso. Quello di chi sta scrutando nella tua anima.
«Non vi permetterò di...»
«Non puoi fermarci. Abbiamo deciso che ti avremmo aiutato e ora è giunto il momento di farlo», mi interrompe. «Per la tua prima apparizione pubblica saremo al tuo fianco. Ce ne staremo lì, a parlare di cose banali o a rispondere a qualche domanda inopportuna».
Ciò che non aggiunge e che nel frattempo questo mi servirà per studiare il nemico, carpirne ogni debolezza, sondare il campo, tessere la mia tela per poter strappare dalle sue grinfie quel qualcosa che mi appartiene prima di far partire il colpo. Diffondere un po' di paura dopo essere stato dato per morto per così tanto tempo.
«Potrebbe comunque andare tutto male», gli faccio presente, valutando ogni possibile scenario. Proprio come ho fatto quando ho visto l'invito nella posta di Dante e ho iniziato a elaborare un piano per riuscire a terrorizzare i Wild.
In qualche modo sono rimasti in contatto con i Blackwell. La cosa non mi sorprende. Proprio come non è stata una sorpresa la faccia tosta di Theodore e questo invito simile a una sfida. Che sappiano del mio ritorno? Che Parsival dalle retrovie abbia in mente qualcos'altro?
«Saremo lì a coprirti le spalle».
«Per quanto abbia ottenuto informazioni su come hanno vissuto, non posso credere di non aver trovato niente su di lei», ammetto a voce alta ciò che più di ogni altra cosa mi avvelena. «Non può essere svanita nel nulla».
Faron mi ascolta e di tanto in tanto noto non solo la vena sul collo sempre più grande e pulsante, ma ha persino una ruga evidente sul sopracciglio. Chiaro segnale di quanto sia meno impulsivo e più riflessivo di un tempo.
«Lo scopriremo. Le sorelle devono pur sapere qualcosa in più rispetto al padre o alla matrigna, no? Dante e la sua squadra hanno fatto del loro meglio. Si nasconde bene, lo ammetto. Prima o poi però lascerà una traccia».
Apprezzo questa sua ritrovata positività. Una parte di me vorrebbe cedere alla speranza, mentre l'altra frena sul nascere questo istinto per mera sopravvivenza.
Notandolo stanco, con un senso di colpa che continua a macchiarmi l'anima per tutte le notti in cui li ho svegliati, mi alzo e comincio a riordinare. «Va'. Qui ci penso io».
Faron soppesa il mio sguardo prima di alzarsi. «Se sei troppo stanco, lascia tutto così com'è e vai a riposarti. Domani ci aspetta una giornata di fuoco».
«Non ho sonno, ma dopo aver finito con questi», indico i cucchiai pieni di schiuma che passo sotto il getto dell'acqua, «proverò a rilassarmi con la lettura di un buon libro».
Faron si avvia verso la camera. «Buona notte, Rhett».
«'Notte».
Si ferma e si volta. «La vendetta potrebbe danneggiarti se non sai quando è il momento di fermarti».
Mi lascia con le sue parole ad aleggiare nell'aria della cucina insieme al gocciolio delle tazze messe ad asciugare.
Abbasso lo sguardo sulle mie mani artigliate al bordo del lavandino. Tremo da capo a piedi. "Lo so", vorrei replicare, ma a cosa servirebbe? La vendetta è comunque vendetta, da qualsiasi punto di vista.
Finisco di riordinare dando una pulita intorno, nonostante sia tutto perfetto, e mi sposto in camera. Qui, con la luce accesa, mi sdraio e fisso il soffitto. Mi massaggio il petto dolorante e proseguo con un respiro lento seguendo il ticchettio dell'orologio.
Ho imparato che la vita è una bestia feroce che snuda i denti e ti dilania appena sei più vulnerabile. Ho imparato a blindare questo cuore. Gli ho creato un rifugio antiatomico contro il dolore, contro la tristezza, la solitudine. Perché adesso non sono altro che il riflesso di quello che ero un tempo.
Non posso più vendicarmi di Joleen. È morta e non ho avuto la mia rivincita su di lei. Non ho urlato al mondo la verità gettandola in pasto al suo destino. Questo perché ho sempre vagliato ogni singolo fattore prima di poter agire. Perché mi sono aggrappato al senso dell'onore mentre gli altri lo calpestavano alle mie spalle. Il mio rimpianto più grande forse è quello di non aver ascoltato nessuna opinione esterna sulle menzogne diffuse da quella ragazza. Di non aver ascoltato a fondo il mio istinto quando mi urlava di essere innocente.
Il fatto è che avevo un piano per riprendermi tutto, ma la vita ha avuto in serbo per me tutt'altro prima che potessi portarlo a compimento. Di conseguenza, ha fatto sì che il testimone passasse nelle mani di Faron, il quale non si è tirato indietro.
Forse più di ogni altra cosa è questo a farmi bruciare dentro. Lui non avrebbe dovuto avvicinarsi a lei. Neanche su imposizione di nostro padre.
Non sono riuscito a proteggerli in tempo. Sono arrivato tardi.
La furia quando ci penso mi si abbatte addosso come un ariete di sfondamento, implacabile. Una dopo l'altra poi arrivano le immagini di una possibile vendetta.
Ed è proprio per questo che i miei anni di prigionia non devono restare vani. Ho deciso che deve esserci un prezzo da far pagare a ognuno dei complici che ha spinto o spezzato i fili quando stavo solo cercando di crearmi un futuro.
Troppe emozioni mi ribollono dentro e ho come l'impressione di essere sul filo di un rasoio già sfilacciato. Sempre sul punto di scoppiare e dar sfogo alla mia collera.
Più volte ho temuto di non potermi contenere. Ma tutte quelle volte, ce l'ho fatta.
Anche questa volta ce la posso fare. Devo solo sapermi rialzare.
Sospiro e mi rigiro fissando la lampada di sale. Inspiro ed espiro.
Sentendone il bisogno, infilando le cuffie alle orecchie, ascolto dei suoni rilassanti mentre continuo a dire a me stesso: "Sono qui. Sto bene. Sono vivo".
Lentamente gli occhi mi si fanno pesanti e con il rumore delle onde che si infrangono sulla riva e lo scoppiettio di un falò in sottofondo, mi assopisco.

* * *

Ho sperimentato l'amore e la perdita quando non ero che un bambino. Poi la vita mi ha rimesso alla prova sbattendomi dentro un carcere in cui a ogni angolo albergava un pericolo diverso.
Ho trascorso il tempo fra pareti impregnate di odore di morte e paura a invadermi il naso. La mia testa riempita da immagini orribili mentre l'impotenza mi stringeva con forza e mi sbatteva al tappeto.
In mancanza di sane relazioni umane, di libri e carta, nel tentativo di non impazzire e mollare, ho stretto legami immaginari, scritto diari nascosti su pareti già imbrattate. Ho vissuto in un mondo pieno di violenza dove il meno forte soccombeva, e da esso ne sono uscito devastato. Non vivo. In un limbo.
Le esperienze, lasciano cicatrici. Alcune più visibili di altre dopo un forte trauma. Sai come te le sei procurate e continui a fissarle in cerca di una crepa che possa rilasciare sulla pelle nuovo veleno.
La verità è che sto barcollando in direzione di un abisso dove il vuoto non dà scampo. Vacillo e mi avvicino sempre più a quel limite in cui basterebbe una folata di vento per precipitare. Da tempo non so più come si fa a restare in piedi nonostante le continue scosse, i colpi inflitti a quest'anima tremula e abbattuta.
Sto impazzendo. Tutto dentro di me si ribella, mi urla di accantonare la vendetta per conservare un briciolo di salute mentale. Ma non sono uno che si arrende. Se lo avessi fatto, non sarei qui a iniziare un gioco pericoloso costruito dalla vendetta e impregnato di morte. Perché non mi fermerò fino a quando non avrò strappato l'ultimo respiro a chi mi ha pugnalato alle spalle.
Una parte di me vuole questa rabbia perché si ricorda perfettamente com'è divampata. Ricorda quello che ho perso. E fa più male di un pugnale rigirato a tradimento sulla schiena. Lo stesso che ho subìto e dal quale non riesco a liberarmi per andare avanti. Perché so di cosa ha bisogno la mia anima. So cosa voglio con tutto me stesso, nonostante non abbia il controllo sul finale.
Fisso quasi incredulo il mio riflesso sullo specchio rettangolare posto di fianco alla porta della cabina armadio di Blue.
Negli ultimi mesi ho cercato di recuperare un po' di colorito sano e un po' del peso perduto, dato che la preoccupazione di tutti fosse appunto quest'ultima collegata alla mia salute fisica e mentale. Ho continuato a fare la mia serie di allenamenti, aggiungendone altri insieme ai miei fratelli. Mi sono sottoposto a continue analisi e iniziato una cura grazie all'aiuto del fratello di Eden, Ace, di Blue e del suo adorato signor Hudson, che ho scoperto essere una fonte inesauribile di informazioni e cultura.
Per un periodo so che anche lui ha toccato il fondo, poi grazie a Blue e alla bambina, sue vicine e uniche amiche, ha chiesto aiuto ed è tornato a svolgere la sua professione come medico. Blue lo considera un padre e un nonno per Isobel, soprattutto per il fatto che è stato lui a salvarla quando era incinta e ha avuto un brutto incidente.
«Puoi sempre provare l'altro abito se non te la senti di indossare questo perché ti crea disagio. Ma non stai affatto male. Oserei dire che sei bello. Ma non dirlo a Dante».
Eden si siede sulla poltrona, accarezzandosi il ventre.
È un miracolo che sia incinta. Dante mi ha raccontato che è stata proprio lei a beccarsi un proiettile al posto suo. Le probabilità di una gravidanza, dopo quel brutto evento, erano scarse.
Blue si avvicina con due cravatte. «Secondo me stai bene così», afferma, facendo su e giù con la testa. «Metti questa», mi passa la cravatta nera.
«Questo andrà bene», liscio il tessuto della giacca, certo della mia scelta.
Un tempo usavo gli indumenti per indicare il mio umore e le mie intenzioni. Sto rifacendo la stessa cosa ora. Devo impedire che mi fottano un'altra volta e voglio lasciare loro un segno.
«Andremo a un'inaugurazione non autorizzata dalla mia famiglia in un posto che mi appartiene. Non voglio sembrare troppo appariscente per rivedere i termini del contratto e rivendicare il mio territorio. Voglio che mi vedano come la loro condanna».
Eden, attraverso il riflesso dello specchio, sta osservando il modo in cui l'abito scuro mi calza a pennello. Forse sa che l'ho fatto realizzare su misura da uno dei sarti più conosciuti al mondo e che ha un valore unico. Lei ha occhio per i dettagli.
«Vuoi che chiami Dante? Sono sicura che ti sentiresti più a tuo agio con lui, a parlare di vendette e punizioni», un sorriso le incurva le labbra piene e a cuore tinte di rosso.
Indossa un abito lungo, morbido e nero. La sua particolarità è la schiena scoperta fino alle fossette. Il ventre si nota appena e forse questo dettaglio è dovuto. Dante ha messo in chiaro che nessuno deve sapere della gravidanza, pena la morte o la tortura. Trovo questo dettaglio un po' possessivo, ma lo giustifico e in minima parte lo condivido. Vuole solo che Eden rimanga al sicuro mentre là fuori noi Blackwell abbiamo nemici capaci di puntare i loro mirini sulle persone alle quali teniamo di più al mondo.
«Dagli il tempo di prepararsi».
Lei si acciglia, comunicando in modo silenzioso con Blue.
Le due sembrano condividere il legame tipico delle sorelle.
«Noi tre abbiamo sempre fatto tutto insieme prima della mia scomparsa. Per Dante e Faron non sarà facile recuperare le vecchie abitudini», mi preme precisare.
«Che sarebbero?», domanda, curiosa, Blue.
«Per fartela breve: capirsi al volo, agire prima che l'altro lo faccia, sistemare una situazione che sta per peggiorare fidandosi... cose così». 
«Avete personalità diverse. Come ci riuscivate?»
Raddrizzo la cravatta, dopo tolgo un filo invisibile dal polsino, prima di aggiustare i gemelli. «Quasi sempre guardandoci negli occhi e comunicando silenziosamente».
«Sono sicura che quei due riusciranno a dare il loro contributo stasera», afferma con ottimismo Blue. «Il porto è tuo. Faremo ragionare i Wild».
Non voglio che ragionino, solo che paghino. Vorrei tanto dirle.
Eden beve un sorso d'acqua, poi si alza per fare qualche passo per sgranchirsi le gambe. L'hanno messa a riposo forzato e lei inizia a sentirsi braccata. Conosco la sensazione, ma per lei è solo un bene.
«E tenteranno di trattenersi. Scommetto che la prima rissa scatterà da mio marito», ridacchia.
Blue sbuffa. «Dici? Fossi in te scommetterei più su Faron. Si accende come una miccia di fronte alle ingiustizie».
«Loro due non faranno niente del genere con me nei paraggi», le rassicuro. «Faremo giusto una comparsa».
«Daremo spettacolo?»
«Non immagini quanto», rispondo a Eden.
«In che modo esattamente? Voglio essere preparata. C'entrano per caso questi indumenti rigorosamente privi di colore?»
«Gli incuteremo talmente tanto terrore che sarà costretto a consegnarmi le chiavi del mio porto».
«Pensi che lo farà?»
Do le spalle allo specchio. «O lo farà o si ritroverà coperto di fango», non aggiungo le mie reali intenzioni. Ma entrambe hanno capito che ho già predisposto ogni cosa.
«Bene. Qui abbiamo finito?»
Blue mi passa la colonia.
La sua straordinaria organizzazione mi facilità ogni compito.
Ne spruzzo un po', tenendomi lontano da Eden, la quale ha già arricciato il naso.
«Se abbiamo finito ho bisogno di un minuto».
«Va' pure. Ci vediamo fuori», Blue riordina la stanza prima di sollevare la gruccia con il suo abito nero di seta. «A tra poco».
Eden mi segue fuori dalla stanza. «Ti consiglio il balcone», mi suggerisce un posto appartato in cui riprendermi dall'ansia che inizia a divorarmi.
Come l'abbia capito, non so dirlo. Evidentemente avrò scritto in faccia come mi sento. Pensavo di essere bravo ad eclissare tutto dietro un'espressione distaccata.
«Grazie».
Lei mi sorride. «Vado a dire a Dante che siamo quasi pronti e che tu sei uno schianto. Vediamo se un po' di competizione lo farà ammorbidire».
«Ne dubito».
Ci separiamo lungo il corridoio. Entro nella mia stanza e seguendo il consiglio di Eden esco fuori.
Il balcone è simile a un terrazzo con qualche vaso, delle poltrone e un tavolo da caffè.
La brezza fresca mi schiaffeggia il viso e mi fa riprendere fiato. Lo stesso che non avevo notato di trattenere.
Mi aggrappo al bordo, osservo il mondo circostante e percepisco solo il bisogno di vedere la spiaggia, il tramonto nei suoi colori sgargianti mentre lo yacht oscilla per la marea.
Abbasso la testa e poi la scuoto. «Un passo alla volta. Prima il porto, poi tutto il resto, Rhett», inspiro ed espiro.
Raddrizzo la schiena, aggiusto e liscio la giacca e rinchiudendo ogni emozione dentro, mi avvio lungo il corridoio stringendo i pugni.
«Prima la vendetta».

💛🪽

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