9 - Candeggina
Bridget stava correndo in mutande tra la neve alla ricerca del suo Mark, si fermò in preda allo sconforto, quando improvvisamente eccolo là, sulla soglia di un locale. Lui le andò incontro mentre lei mormorava: "Mi dispiace, mi dispiace tanto, non dicevo sul serio..."
Lui la guardò confuso, ma lei continuò: "...cioè, dicevo sul serio ma, ero così stupida che non voleva dire quello che dicevo. E... per l'amor di Dio! È soltanto un diario!"
Cecilia sobbalzò sulla sedia della scrivania sentendo quella parola, così all'improvviso, come un ladro che viene beccato a nascondere la refurtiva. Istintivamente la sua attenzione si spostò dallo schermo del televisore sul quale stava andando avanti il film, al cassetto nel quale aveva riposto il diario di sua madre.
"Lo sanno tutti che i diari sono... pieni di stronzate" continuava imperterrita Bridget.
Cecilia ci pensò, era veramente questa il contenuto di quelle pagine, futili pensieri di una ragazza come tante, oppure c'era qualcosa di più? Non era sicura di volerlo scoprire, aveva paura di ciò che avrebbe potuto imparare su sua madre, aveva paura che l'immagine nella sua testa di quella donna sicura e incantevole fosse solo una mera illusione.
Ma allo stesso tempo, era curiosa.
Mark intanto stava osservando seriamente Bridget e, dopo un momento di pausa, le rispose: "Sì, lo so. Te ne ho solo comprato un altro" così dicendo estrasse dal cappotto un quaderno "è ora di cominciare una nuova pagina"
Gli occhi di Cecilia tornando a quel cassetto e, quasi senza rendersene conto, le sue mani si mossero, aprendolo e afferrando quel quaderno.
Doveva forse iniziare anche lei una nuova pagina della sua vita? E come avrebbe potuto fare se neanche conosceva le sue origini? Se neanche conosceva sua madre?
Titubante, si rigirò quell'oggetto tra le mani, alternando il suo sguardo tra esso e la porta chiusa della sua stanza. Forse sopra quei foglie c'erano semplici scorci di una vita vissuta da sua madre, oppure c'erano profondi ragionamenti che le avrebbero permesso di vedere le cose da una diversa prospettiva.
Ma qualsiasi cosa ci fosse scritta, era stata scritta da sua madre. E Cecilia voleva leggere tutto ciò che la riguardava, anche se era il contrario di quello che desiderava Sergio.
Furtivamente Cecilia si alzò dalla sedia e si accostò alla porta, la socchiuse leggermente e sbirciò oltre essa. Suo padre era seduto sul divano intento a osservare un programma televisivo, ma in realtà era più il tempo che teneva gli occhi chiusi, rispetto a quello che passava guardando lo schermo.
Cecilia richiuse la porta senza fare rumore, recuperò il diario e si stese sul letto con la pancia sopra al materasso, posizionando il quaderno davanti a sé. Vi posò sopra una mano e accarezzò il dorso usurato, poi lo aprì e subito un profumo di vaniglia la avvolse, nonostante il tempo passato, quelle pagine ne erano impregnate.
Era l'essenza di sua madre.
La sua scrittura precisa e ordinata riempiva ogni pagina, raccontando di una vita che Cecilia non conosceva, una vita nella quale lei non era ancora presente, ma che Valeria aveva vissuto quasi come lei. I suoi racconti di ragazza mostravano una persona fragile e complessata, ossessionata dalla sua pelle imperfetta.
Esattamente come Cecilia.
Valeria veniva derisa a scuola, presa in giro da quelle compagne che avrebbe voluto come amiche, rifiutata da quei ragazzi che avrebbe voluto come fidanzati. Attraverso le sue parole, Cecilia ritrovò sé stessa e, improvvisamente, si sentì più vicina a sua madre di quanto non lo fosse mai stata.
Non era ancora quella donna fiera che aveva visto nelle fotografie, non era quella madre sicura che riappariva tra i suoi ricordi sbiaditi. Era semplicemente un'adolescente che tentava di trovare la sua strada, tra ostacoli e salite.
Girando pagina dopo pagina, Cecilia ritrovò le stesse domande che si poneva lei, ogni sera e ogni mattina: perché proprio a me? Perché non posso essere come tutte le altre? Come posso sentirmi bella? Come posso sentirmi bene? Quando sarò finalmente me stessa?
E improvvisamente, proprio tra le ultime pagine, Valeria aveva scritto qualcosa di diverso. C'erano altre fogli oltre questo, ma erano rimasti bianchi, come se da quel momento in poi, avesse deciso di smettere di rimuginare e avesse agito. Quell'ultima pagina scritta era più spiegazzata delle altre, come se fosse stata consultata più volte, non era ordinata come le altre, era scarabocchiata, sottolineata, vissuta.
Cecilia inalò quel profumo alla vaniglia prima di cominciare a leggerla e, come per magia, le sembrò che sua madre fosse sdraiata di fianco a lei, le mani poggiate sotto al mento appuntito, i capelli scuri sulla schiena e alcune ciocche che le ricadevano oltre le spalle. Girò lo sguardo verso la figlia, rivelando la sua pelle imperfetta, e le rivolse un sorriso di incoraggiamento, come a invitarla a proseguire.
Cecilia ovviamente sapeva che non era reale, che era solo suggestione quella rappresentazione evanescente della madre, ma in qualche modo percepiva il coraggio che le stava infondendo come se fosse reale.
Con un sospiro abbassò nuovamente gli occhi sul foglio e cominciò a leggere:
Qualche volta, mi sono chiesta se scrivere i miei pensieri e le mie paure tra queste pagine, potesse servire a qualcosa. Oltre a liberarmi momentaneamente dalle mie ansia, potrei vivere la mia vita diversamente?
Potrei essere finalmente felice?
Oggi in classe alcune ragazze si divertivano, partecipando a un gioco che non conoscevo. Le ho osservate per tutta la durata della pausa, ridevano, parlavano tra loro, erano... spensierate. A turno, una di loro cominciava una frase dicendo "non ho mai" e concludeva con qualcosa che si suppone non avesse mai fatto. Se una delle amiche l'aveva invece fatta, si doveva colpire la fronte.
I loro "non ho mai" era qualcosa di impensabile per me, qualcosa che non avrei nemmeno potuto immaginare di fare, mentre quelle ragazze finivano sempre per toccarsi la fronte, ridendo poi tra loro. Questo gioco, per quanto infantile, mi ha portato a una grande consapevolezza: quante cose non ho mai fatto io?
Anzi, quante cose banali non ho mai fatto io? Quante cose naturali, quante cose emozionanti, quante divertenti, quante intriganti?
La risposta è stata spiazzante: nessuna.
Mi sono sempre limitata all'autocommiserazione, desiderando qualcosa che non avevo, senza mai agiare veramente per ottenerlo.
Devo cambiare.
Voglio cambiare.
Perché come diceva sempre mia nonna, non basta far scorrere pigramente l'acqua per lavare via lo sporco, bisogna strofinarlo energicamente con il sapone. Lo sporco della mia anima sono le mie paure.
Cecilia aveva letto tutta la pagina con la massima attenzione, totalmente rapita da quelle parole, il modo in cui erano scritte, il significato che avevano, la consapevolezza che le avevano regalato.
Anche lei doveva usare quel sapone?
Lentamente voltò pagina e, sul retro di essa, vi trovò l'ultimo inchiostro utilizzato su quel quaderno. In alto al foglio campeggiava un titolo, sottolineato due volte: sapone alla vaniglia.
Sotto esso c'era un elenco puntato, ogni voce era segnata con una spunta, a sottolineare che ciò che era scritto, era stato fatto.
Cecilia fece scorrere gli occhi su quella lista e, man mano che scendeva, un punto dietro l'altro, il suo cuore accelerava i battiti e il fiato le mancava nei polmoni. Quella era una lista del coraggio, una lista di azioni da compiere per cambiare.
Per lavare via lo sporco.
Le frasi scritte, per una persona estroversa e sicura di sé, non erano complicate da svolgere, ma per Cecilia era come scalare una montagna, ogni volta più alta. Il livello di difficoltà aumentava man mano che la lista proseguiva.
Sua madre aveva veramente eseguito ogni punto? Lei non ci sarebbe mai riuscita, il solo pensiero le bloccava qualsiasi funzione celebrale. Con uno scatto richiuse quel quaderno e cercò di fare respiri profondi per ritrovare la calma.
Altro che sapone alla vaniglia, a lei serviva la candeggina per pulire la sua anima da tutta la paura che aveva.
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