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Capitolo 21.1

                                                          Pietra venata



La nervatura delle foglie sulla mia guancia grattava lenta, ripetitiva, mossa dalle sue dita.

Zeno cancellò i contorni della pittura, il viso contratto in una smorfia, sapendo di poter trattare solo la superficie, non quello che era sceso in profondità.

Il ramo del salice piangente lo aiutava, piegandosi flessuoso fino a me, come se riconoscesse colui per cui avevo riservato il mio pianto.

Lo guardai con la coda dell'occhio, mentre ripassava la macchia con cura maniacale, quasi cercasse di cospargermi del verde della clorofilla.

Mi sollevò il mento alla luce acquatica e naturale che danzava nei suoi occhi, controllandomi da vicino, e il mio fiato caldo si rinfranse sulle sue labbra.

Si accorse che il suo tocco marmoreo aveva riedificato un ponte tra noi, e lasciò andare dolcemente l'albero, che si ritirò come se si sentisse il terzo incomodo.

Non aveva un cuore, quel ragazzo, eppure io lo sentivo accelerato lo stesso; pulsava nel suo sguardo, vibrava tra le sue labbra, tremava con le sue braccia.

Ne era dominato, nonostante l'organo non facesse fisicamente parte di lui, e per la prima volta riuscii a udirlo più del mio.

Portò la bocca alla mia guancia, ossessionato di trovarvi ancora un riflesso azzurro, e raschiò delicatamente i denti sulla mia pelle.

Mi provocò brividi lungo tutta la spina dorsale che si scaricarono nel basso ventre, facendomi inarcare la schiena d'istinto, e portando lui a seguirmi.

Continuò, mordace, mentre io gli stringevo la maglia a pugno, cercando di mantenere eretto quel muro che si sgretolava contro la rabbia trattenuta dei suoi denti e la sensualità della sua lingua.

Mi mordicchiò, insoddisfatto, accrescendo la pressione con cui le sue labbra si chiudevano attorno alla mia pelle e la rilasciavano.

Respirai pesantemente, la sua determinazione era difficile da contrastare; sentire lui che mi addentava e il suo petto spingere contro il mio palmo richiuso, insistente, a poco a poco, mi vinceva.

Si fermò, ritraendosi, e diede inizio a una nuova lotta, quella dei nostri occhi, disarmati, espressivi, che così tante volte si erano già arresi.

Il suo cristallo verde catturava la luce del sole, scintillava liquido e indomito, mentre quello blu era ombroso, richiuso a forza nella sua cella, come se stesse covando ancora un certo rancore.

Fletté il collo, la stoffa del suo maglione si tirò, lasciando intravedere un baratro nero, timbro della nostra notte insieme, e io rafforzai me stessa, negando che incontrasse di nuovo i miei occhi.

La sua mascella si contrasse alla mia riluttanza, offesa, e iniziò la sua discesa, fendendo centimetro dopo centimetro, l'aria umida del mio respiro.

Abbassò il viso con sicurezza, come una divinità che si sentiva minacciata, ma che mai avrebbe rinunciato a essere messa da parte per il potere che esercitava.

Mi chiamò per nome, e io incrociai i suoi occhi socchiusi in ciglia d'oro; nelle sue iridi chiare un balenio di sofferenza lo muoveva giù fino alla mia bocca.

Rilasciai il pugno sulla sua maglia, quando il suo labbro inferiore sfiorò il mio, e a me sembrò di sentirlo sussurrare che non ce la faceva.

La mia mano frenò il suo petto, e fece resistenza, ma il mio respiro era ancora abbandonato alla sensazione di quel fugace sfioramento con lui.

«Non ci tieni a restare come sei, Zeno?» chiesi con un filo di voce. «A poter uscire pure di giorno e non solo di notte? Con un mio bacio rischieresti altra oscurità.»

«Mi piace questo tipo di rischio.»

Aveva lo sguardo di una stella caduta a cui poco importava del supplizio che aveva inciso sulla sua pelle, del buio che il tatuaggio gli ricamava a ogni mio battito d'amore; lo sguardo di un ragazzo torturato che voleva solo sapere cosa vuol dire vivere.

«Ma potrei rinunciarvi a una condizione.» rifletté, poco dopo, tirandosi indietro con un sorriso sardonico.

«Quale condizione?»

«Se accetterai di creare un secondo Nontiscordardimé, solo nostro.»

                                                                       ✴

Elias mi aspettava sdraiato sulla coperta, le braccia nascoste dietro la testa, le gambe piegate in un sinuoso angolo, la fronte corrugata a guardare in alto.

Il cielo cadeva nei suoi occhi, li ingrigiva al passaggio delle nuvole sopra di lui, trasportava fumi chiari nelle sue iridi scure, come quarzo tormalinato.

Mi piegai sulle ginocchia, sventolando una mano frapposta tra lui e la falce di sole che gli stava dando un bacio di arrivederci sui capelli.

«Tuo nonno aveva ragione.» commentò, senza salutarmi né sollevarsi. «Si sta rannuvolando.»

Mio...nonno...

Un nodo di emozione mi serrò subito la gola, impedendomi di pronunciare una sola sillaba.

Rimasi a guardare il ragazzo, mentre un leggero vento provava ancora a consolarlo, portando fino alle sue orecchie alcune foglie ambrate.

«Cercavo di sentire la sua voce.» aggiunse, tirandosi su con il busto, fino a me.

Cenere e detriti nel suo sguardo, così indiretto e schivo, mi avvilupparono in una rete dai fili argentei che mi tenne sospesa.

Era come se Elias avesse chiuso a chiave un mondo dentro di sé, i cui confini potevano essere irrecuperabili e la cui profondità avrebbe potuto confondere.

Lui era la durezza e l'irregolarità di una pietra dalla superficie bianca, l'inconoscibilità della sua composizione, il vuoto che respingeva.

«E ci sei riuscito?»

«Non ancora.» ammise, come se si vergognasse. «Ma intendo riprovare.»

Mi sedetti, e il turbinio nei suoi occhi si spostò dal mio volto mielato per le sue parole ai petali sparsi del nostro fiore, incompleti.

«Lasciamolo così, caotico. Ti va?» chiese, in un sussurro che mi arrivò con un soffio d'aria lacustre.

«Perché?»

Elias prese alcune metà di cuore nelle sue mani, e le rigirò nel palmo come se potessero suggerirgli la risposta alla mia domanda.

«Perché, mi chiedi.» rifletté tra sé e sé, indeciso su come continuare.

Lo fissai, perplessa per il suo cambiamento, e delusa. Era come se avesse voluto tenere al sicuro da me il suo mondo sotto la superficie di pietra.

«Io vorrei finirlo.» confidai, spostando la mia mano nella sua, a raccogliere alcuni petali di carta, e prima che potessi ritrarmi, il ragazzo me la strinse.

Alcuni pezzetti di fiore scivolarono via dalla sua presa, volteggiando fino alla coperta che ci dividevamo, metà di cuori rotti.

«Ti piace quando qualcosa finisce?» mi chiese. «Quando qualcosa di bello finisce?»

Sentii le guance accaldarsi sotto i suoi occhi fermi, intransigenti, dal taglio elegante.

«Io non vorrei proprio finirlo, Ester.»

«Forse la tua è solo paura.» riuscii a dire, senza provare a liberarmi dalla sua grande mano.

«E di cosa?»

«Di lasciarti vedere.»

Di una venatura sulla tua pietra.


C'è che chi si precipiterebbe a creare un Myosotis con Ester e chi, invece, si tirerebbe indietro. L'approccio di Zeno e quello di Elias, come sempre divergono, mantenendo caratteristiche separate. Quale preferite tra i due approcci (scateniamo i Team tra tre, due, uno)? Nella prossima parte proveremo a tirare fuori qualche parolina in più da Elias, che avrete capito, è la "pietra venata" di cui parlavo nelle stories di Instagram (tutte a dire Zenoo) e potremo quasi quasi vedere uno Zeno imprudente!

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