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Prologo.

Era la notte più calda di un agosto infernale quella in cui venni alla luce, e come se questo non fosse già abbastanza insopportabile per una donna in procinto di partorire la sua prima bambina, quella notte non ne volevo proprio sapere di abbandonare il grembo che per nove lunghi mesi mi aveva ospitata. Dopotutto, considerata la quiete che vi si respirava, solo una scimunita avrebbe potuto pensare di rinunciarvi; per di più, non avendo la minima idea di ciò che mi sarebbe potuto accadere una volta evasa dal mio piccolo rifugio, ritenevo di gran lunga più affidabile la regola del “cu lassa la via vecchia pi la nova, sapi chiddu chi lassa e un sapi chiddu chi trova¹”.

Ah, se solo avessi compreso prima quale nuova dimora mi attendeva! Senza dubbio, se qualcuno mi avesse suggerito che ad aspettarmi cʼera lʼeccelsa Trinacria, niente avrebbe potuto dissuadermi dal gettarmi a capofitto sul mondo. Se avessi saputo che era la terra di lu suli, di lu mari e di li sciuri, la terra di l'amuri e di li milli culura e biddizzi² quella che di lì a poco mi avrebbe accolta tra le sue braccia materne, avrei ubbidito alla natura senza fare storie. E così, allʼinesorabile fallimento della mia resistenza, compiutosi il prodigioso miracolo della vita, il calore inatteso che mʼinvestì fu sufficiente a farmi percepire un delizioso sciavuru³ di casa, che da quel momento non avrei più dimenticato.

Fu un piccolo paese dellʼagrigentino, immerso tra le vallate delle terre sicane, l'amorevole culla che mi ospitò sin dalla più tenera età. E fu tra le strette viuzze e i cantuneri⁴ di questa borgata sparuta che trascorsi un’infanzia ordinaria e al tempo stesso straordinaria, sperimentando giorno dopo giorno tradizioni, usanze, abitudini e credenze talvolta bizzarre ed insolite, eppure tanto suggestive e coinvolgenti da divenire simbolo identitario di un’intera comunità. Senonché, pur riconoscendo il carattere collettivo di tutte queste consuetudini, ciò che davvero comprovava la presenza di un legame inestricabile tra i membri di questa comunità, in assenza del quale un si putìa cumminari nenti⁵, era l’utilizzo del dialetto. Il dialetto era lʼindiscusso protagonista della quotidianità, il modo migliore per comunicare ed intendersi alla perfezione, un bene di inestimabile valore in grado di garantire un’armonia assoluta e incondizionata con la propria terra madre.

Nel bel mezzo di un contesto simile, nonostante mia madre avesse fatto salti mortali affinché mi esprimessi in lingua italiana sin dai primi anni di vita, a me che ero ormai sedotta dalle cadenze di quel dialetto di n’aricchi mi trasìa e di l’altra mi niscìa⁶ e continuavo imperterrita a giocare ad ammucciarè⁷ piuttosto che a nascondino, a sata cavaddu⁸ anziché a salta cavallo, ad arrubba bannera⁹ piuttosto che a ruba bandiera. Ma ciò che risultava essere ancora più sorprendente era il fatto che io, mancu u tempu di accuminciari a parlari¹⁰, avevo già provveduto a mettere in chiaro la mia preferenza. Difatti, se le mie prime due parole erano state le classiche “mamma” e “papà”, la terza voce che uscì dalla mia tenera boccuccia fu un sensazionale imperativo che suscitò lo stupore e gli scàccani¹¹ dei presenti.

Era il giorno in cui avrei ricevuto il sacramento del battesimo e ai miei vispi occhioni verdi, accortisi delle manovre maldestre del fotografo chiamato per lʼoccasione, non poté passare inosservata la negligenza con cui quellʼuomo osava trattare il mio pupazzo preferito. Il tale, sul punto di scattare lʼennesima fotografia dopo avermi fatta mettere in posa, non fece in tempo a strapparmi il peluche dalle mani che la mia voce squillante si raccolse in un sonoro rimprovero:“Accura!”.

Questa sola formula, che mi obbliga a unʼimmediata digressione, saprà opportunamente tratteggiare lo spessore del dialetto siciliano. Potrei sforzarmi di tradurla in unʼunica parola, e forse questa sarebbe anche la soluzione più semplice; potrei limitarmi a spiegare che “accura” è un modo come un altro per dire “staʼ attento”, come spesso ahimè accade. Ma se voi 'nzamà Signuri¹² decideste di credermi, sarebbe come rinunciare allʼimperdibile occasione di apprezzarne la particolarità, la ricchezza, l'unicità. E, cosa non meno importante, potreste addirittura convincervi che esista una traduzione in grado di rendergli giustizia.

Immaginate di essere legati a una persona, a unʼabitudine, a un luogo, a un qualsivoglia aspetto della vostra quotidianità. Ponete il caso che questo qualcosa vi stia così a cuore da credere che potreste morire, se il più maledetto dei giorni dovesse sopraggiungere, fulmineo, a strapparvelo via. Quanti suoni, quanti toni, quante espressioni sʼinventerebbe la vostra voce per circostanziare lʼaffinità, lʼappartenenza, la dedizione, la corrispondenza, la gratitudine avvertite giorno e notte al suo pensiero? Quante note, quanti versi esigerebbe quel terrore di perderlo, quellʼistinto di proteggerlo, quella premura maniacale votata al suo benessere, quella paura inesorabile di non essere allʼaltezza? Quante preghiere, quanti anatemi per quella voglia esasperante che sia per sempre, per quella fatalità struggente che trionfi lʼaddio, per quellʼangoscia, quellʼafflizione che non sia mai accaduto niente?
Sì, a occhio e croce direi che ci siamo capiti.

A occhio troppi, perchè davvero infinite sono le combinazioni atte a comunicare sentimenti tanto familiari che chiunque, almeno una volta nella vita, devʼessersi trovato a provare; a croce nessuno, perchè qualunque formula pensaste di scegliere non sarebbe in grado di proteggere, in se stessa, così tante sfumature. Ebbene, tra gli innumerevoli meriti della mia Sicilia rifulge quello dʼavermi fornito una parola che racchiude, in sei sole lettere, un catalogo interminabile di emozioni intrecciate, parallele e contrastanti.

Accura” identifica pienamente il particolare legame che mi tiene ancorata a una terra, la mia, brillantemente ossimorica, intrisa di storia e leggenda, pervasa di novità e tradizione, dalla sacralità profana. Una terra che, pur rivelando spesso la tipica incoerenza delle madri, non si trattenne dal darmi il benvenuto in grande stile quel giorno di ventiquattro anni fa, quando, avvolta nel suo abbraccio, fui investita dallʼincanto della sua luce, dei suoi colori, delle sue fragranze. E non fu un affetto valido solo per l’immediato quello che ricevetti, ma un calore continuo e duraturo che mi accompagnò passo dopo passo attraverso i miei migliori anni.

Impossibile sarebbe ripagarla, estinguere il debito di riconoscenza accumulato nel tempo con la mia isola. Mi sia lecito indirizzarle unʼunica, devota promessa - e, se non troppo pretenzioso, anche mantenerla - servendomi delle parole che Lei stessa mi ha insegnato, le sole in grado di declinare sentimenti altrimenti inesprimibili.

Sciuri sciuri, sciuri di tuttu l’annu, l’amuri ca mi dasti ti lu rennu.¹³”

Glossario

¹ “Chi lascia la strada vecchia per quella nuova, sa ciò che lascia ma non sa quello che trova”. Uno dei più noti proverbi siciliani dalla palese valenza metaforica: di fronte alla tentazione di convertire ciò che si possiede nellʼaspettativa di ciò che si potrebbe possedere, suggerisce lʼidea di accontentarsi delle proprie, imperfette sicurezze per non incappare in spiacevoli sorprese. Il “vecchio”, vale a dire ciò che ormai abbiamo imparato a conoscere, avrà anche dei difetti; ma il “nuovo”, lʼincerto, non è detto che non ne abbia ancor di più.

² “La terra del sole, del mare e dei fiori, la terra dellʼamore, dei mille colori e delle mille bellezze”. Ma che ve lo spiego a fare?

³ Profumo.

⁴ Angolo esteriore di una casa da cui si diparte una stradina.

⁵ Letteralmente “non si poteva combinare niente”. È unʼespressione che indica la difficoltà di trovare un punto dʼincontro in assenza di particolari condizioni.

⁶ Alla lettera, “da unʼorecchio mi entrava e dallʼaltro mi usciva”. Si dice di persone abituate a fare di testa propria, poco inclini ad accettare i consigli degli altri.

⁷ Il famoso nascondino.

⁸ Salta cavallo. Gioco di squadra che prevede una divisione dei ruoli e una ripartizione in gruppi. Mentre i ragazzi di uno stesso gruppo si dispongono in fila con le gambe leggermente divaricate e la schiena piegata in avanti, i componenti dell’altra squadra, dopo aver preso una leggera rincorsa, saltano a turno sulle spalle degli avversari.

⁹ Rubabandiera. Il gioco di squadra che, dopo lʼassegnazione di un numero a ciascun partecipante, ha inizio con la chiamata da parte del “portabandiera”. Costui, disposto frontamente e più in lontananza rispetto ai due gruppi, di volta in volta pronuncerà un numero condiviso da due giocatori avversari, il che darà avvio a una gara di corsa in cui a vincere sarà il primo a sottrargli la bandiera.

¹⁰ Neppure il tempo di cominciare a parlare. 

¹¹ Risate a crepapelle.

¹² Vale esattamente:“Non sia mai, Signore!”
È chiaramente unʼespressione dai toni patetici, perlopiù utilizzata in senso ironico e dissacrante.

¹³ “Fiore fiore, fiore di tutto lʼanno, lʼamore che mi hai donato te lo restituisco.” Versi di uno dei canti popolari siciliani più conosciuti al mondo.

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