Chào các bạn! Vì nhiều lý do từ nay Truyen2U chính thức đổi tên là Truyen247.Pro. Mong các bạn tiếp tục ủng hộ truy cập tên miền mới này nhé! Mãi yêu... ♥

2.1 Notti dʼamuri

I rintocchi argentini del campanile segnavano appena le undici di sera. Dallʼalto di un terrazzo, al cospetto del chiaro di luna, lʼintero centro abitato appariva uno stretto gomitolo di strade.

Le pietre tondeggianti dei selciati, consumate dallʼusura del tempo, sembravano proiettare tra le marcate incavature il riflesso delle stelle.
Più in lontananza le luminarie del castello saraceno investivano lʼatmosfera di unʼinusitata meraviglia.

Non cʼera sera che le cose andassero diversamente: allʼavvento del crepuscolo, puntualmente, i miei occhi si caricavano di una brillantezza tutta nuova, impazienti sul limitare di un crepaccio che costituiva la porta dʼaccesso allʼarmonia dellʼuniverso.

Un richiamo simbiotico che, si diceva, avevo sperimentato sin dal mio primo istante di vita. Lʼessere stata partorita nel bel mezzo della notte, più che una mera casualità, poteva sembrarne la prodigiosa rivelazione.

La notte era mia madre; le sue tenebre, la mia culla; il suo silenzio, la mia nenia.
Portavo nelle iridi il sigillo della luna.

Tutto un viluppo di relazioni sottese, insospettabili, che mi teneva con le braccia appoggiate a quel muretto, a fissare per ore lo stesso paesaggio di sempre, quasi fossi sotto effetto di un potente filtro dʼamore.

Per quanto mia madre continuasse a ricordarmi chʼera ora di andare a dormire, non cʼera verso di distogliermi da quella contemplazione. A dir la verità, un verso cʼera; camurriusu¹, ma cʼera. E tutti lo sapevano qual era, dacchè la mia bramosia di storie non passava inosservata.

Non si poteva dire che fossi una bambina particolarmente irrequieta e incorregibile; uno solo era il mio vizio, ma quello poteva bastare a rendermi insopportabile agli occhi di chiunque amasse il silenzio. Chi non lo amava, invece, lʼavrebbe sicuramente amato dopo aver trascorso anche solo unʼoretta in mia compagnia.

Ero terribilmente logorroica, facevo domande a tinchitè², non mi stancavo mai di parlare. E guai a darmi corda, guai a stuzzicare la mia insaziabile curiosità: ti saresti tirato la zappa sopra i piedi, saresti arrivato a maledirti per avermi dato quel pizzico di confidenza in più.

Eppure un modo per zittirmi cʼera, e neppure tanto complicato. Bastava che ti mettessi a raccontare tutto il repertorio di storie, fantasiose o veritiere, che lʼesperienza ti aveva permesso di accumulare. Sostanzialmente, per farmi stare con la bocca chiusa, era necessario che fossero le parole degli altri a stupirmi.

Il problema, in questo caso, era il dopo: prima o poi la giornata sarebbe volta al termine e io, che lo volessi o meno, sarei dovuta andare a dormire nellʼattesa che se ne preparasse unʼaltra. Quello era in assoluto il momento che odiavo e, al contempo, quello che mi piaceva di più.

La magia della notte non cessava dʼincantarmi, trattenendomi nel giogo di unʼarcana corrispondenza con lʼintimità della natura. Bisognava, alla sera, che avessi ricevuto la mia dose quotidiana di racconti e che lʼavessi pure trovata soddisfacente; diversamente, per quella notte, alle braccia di Morfeo non sarebbe rimasto che rassegnarsi alla mia mancanza e trovarsi qualcun altro da stringere.

Una bambina così piccola, però, non poteva permettersi di perdere tutte quelle ore di sonno. La pediatra lo diceva sempre, terrorizzando i miei genitori con il suo elenco interminabile di conseguenze che in futuro si sarebbero potute ripercuotere sulla mia salute.

Era stato proprio questo, con molta probabilità, a spingere quella santa donna di mia madre a raccogliere tutta la sua creatività nellʼinvenzione di un espediente che prometteva risultati garantiti.

Lʼoriginalità, del resto, era sempre stata il suo forte. Ed è così che aveva pensato di unire la mia fame di storie alla passione che provavo per la mia terra. Lʼesito non poteva che essere illuminante: un racconto della buonanotte intriso di nomi, suggestioni, atmosfere che rievocavano magistralmente lo splendore della mia Sicilia.

«Cʼera una volta unʼincantevole principessa...» era, da che ne avessi memoria, lʼesordio della storia che mi avrebbe tenuto compagnia prima che la notte mi avvolgesse nel suo manto trapunto di sogni.

«Il suo nome era Sicilia. La sua terra, il Libano. Alla sua nascita un oracolo lʼaveva predestinata ad una tragica sorte: sarebbe morta al compimento dei quindici anni dʼetà, divorata dal terribile mostro Greco Levante».

Mia madre si lasciò sfuggire uno sbadiglio, colta dallʼurgente necessità di una dormita. Nel mezzo sorriso che riuscì a improvvisare era condensata tutta la stanchezza di una giornata ripartita tra le responsabilità di una maestra dʼasilo e le faccende domestiche di una casalinga.

Aveva un tale altruismo che, di tutto il suo tempo, non osava consumarne per se stessa neppure i granelli scampati per caso alla caritatevole ostinazione di spendere la propria vita interamente per il prossimo.

Eppure qualche volta, dopo essersi assicurata che non ci fosse nessuno a guardarla, si abbandonava a lunghi sospiri e si concedeva la grazia della sospensione. Erano momenti in cui la sua espressione sʼincupiva e sʼilluminava a intermittenza riproducendo antichi bagliori e penombre sempre nuove.

Accadeva che la osservassi di nascosto, senza intervenire mai per non essere dʼintralcio alle rade occasioni in cui si tratteneva a colloquio con la sua anima.

Era bella da togliere il fiato mia madre, con quel viso incorniciato dai capelli neri e gli occhi di un verde ipnotico; ma nei suoi momenti dʼintimità, quandʼera solita misurarsi col suo spirito, allora diventava inarrivabile.

Di colpo scuoteva il capo e incurvava le labbra; era il segno che lʼordinarietà, appena spodestata da unʼeccezione, aveva riconquistato definitivamente la sua attrattiva ed era tornata a gratificarla perfino di quella monotonia che nel tempo le si era cucita addosso come una seconda pelle.

«Nunziatì, ma mi ascolti? Chi pinseri ti pigli?³»

La sua voce melodica mi ridestò dal vortice di pensieri che mi aveva trascinata sul pianeta delle speculazioni.

«Niente mà, ti ascolto!» mi limitai a rispondere, stringendomi nel suo abbraccio in una spontanea manifestazione dʼaffetto.

Lei, di rimando, mi accarezzò i capelli e mi lasciò un bacio sulla fronte. Trasalimmo allʼunisono quando unʼimprovvisa folata di vento giunse a raggelare la tenerezza di quel quadretto degno di un ritratto impressionista.

La brezza vespertina, insolitamente pungente, poteva essere lʼescamotage perfetto per convincermi a entrare in casa senza troppe storie. Dovette pensare questo mia madre quando si alzò in piedi e mi sollecitò a seguirla in camera da letto.

Aveva dimenticato che il fruscio del vento era musica per le orecchie, che quanto più feroce fosse il suo impeto, tanto più amabile sarebbe stata la carezza di cui avrei beneficiato.

«Ancora un poʼ, per favore! A questʼora si sta così bene allʼaria aperta...» azzardai, giocandomi la carta degli occhioni dolci.

Sbuffò e roteò gli occhi alla sua maniera, la stessa con cui era solita comunicarmi lʼimpasto perfetto di affetto e rassegnazione che da sempre costituiva la marca della sua pazienza ammirevole.

Recuperò il pacchetto di Merit dalla tasca della sua giacca, estrasse una sigaretta e se la portò alla bocca. Infine lʼaccese e ne prese un lungo tiro.

«Il tempo di una sigaretta e poi andiamo a letto, dʼaccordo?»

«Affare fatto!» dissi soddisfatta, osservando le piroette di fumo che nascevano dalle sue labbra per poi rarefarsi nellʼaria.

«Voglio fumare anchʼio da grande.»

Vidi mia madre arrossire dalla vergogna per via di quella pratica cui non era riuscita a rinunciare neppure quando aveva saputo di portarmi in grembo.

Allora aspettava il momento opportuno per poter fumare una sigaretta di nascosto, in santa pace, senza sguardi indignati e parole indiscrete ad accusarla di essere una pessima madre.

Se ne sbatteva alla grande della morale comune, aveva unʼetica a immagine e somiglianza della filosofia che si era fabbricata ad arte a suon di canoni da confutare e dogmi marcatamente sui generis.

Non prendeva lezioni di buoncostume da nessuno, il che era sufficiente a comporle tuttʼintorno un salutare alone di diffidenza e antipatia.

Nondimeno aveva dei limiti, diretta conseguenza del trovarsi coinvolta nei meccanismi diabolici della parrocchia laddove la fragilità umana, per miserabile deficienza, a poco a poco si arrende a un fanatismo religioso che uniforma pensieri, parole, opere e omissioni in virtù di una dozzinale promessa di vita eterna.

Fu allʼaltezza di quel pensiero che gli squilli del telefono mi riportarono con i piedi per terra. Mia madre diede unʼocchiata veloce allʼorologio e, con un sonoro sbuffo, afferrò il suo Motorola per farsi unʼidea di quale potesse essere la camurrìa di turno. Mia nonna, direttamente dal piano di sotto.

«Stefà, ma dunni vi lucinu lʼocchi a tia e allʼaddeva mea?⁴»

Quella voce squillante e colorita, inequivocabilmente familiare, mi arrivò ai timpani direttamente dallʼaltoparlante del telefono.

«Ma per caso chi agghiurnau ora?⁵» articolò mamma, contrariata dallʼentusiasmo della suocera.

«Chi ti vinissi 'na ricchizza! Vʼarricugliti?⁶ Cʼè la serenata per Elisa, lo sposino ha raccomandato la massima puntualità. Un ci a putemu fari sta mala parti a Michiluzzu!⁷»

Dallʼespressione che comparve sul volto di mia madre capii che la questione doveva esserle completamente sfuggita. Si batté teatralmente una mano sul petto e poi, con la solita nonchalance, ammise la sua dimenticanza.

«Sono troppo stanca stasera, mi doli a carina.⁸ Michele mi perdonerà...» replicò, decisa a rimanere salda sulle sue posizioni. Mutò aspetto solo quando i suoi occhi vaganti, posandosi sui miei, vi notarono la delusione riflessa. Allora, come in un lampo di genio, la sua voce si riaccese.

«Aspetta, puoi sempre portare Nunzia con te. È già partita per le scale, si attangasti po iri grapennu!⁹» e con la testa mi fece cenno di andare.

Non me lo feci ripetere due volte, ma prima di precipitarmi al piano di sotto ebbi il tempo di origliare il prosieguo della conversazione.

«Stefà, io mi portu lʼaddeva... Ma tu e to maritu, nta ʼsta notti dʼamuri, pinsatici pi nʼatru beddu niputi!¹⁰»

Mia madre intese bene lʼallusione, tantʼè che prima di riattaccare scoppiò in una fragorosa risata. Io, seppure non la trovassi una spiegazione del tutto convincente, ero ancora nellʼetà in cui si favoleggia sulla frottola della cicogna.

Una spiegazione che smise definitivamente di convincermi quando, a distanza di poco meno di nove mesi, lʼauspicio della nonna poté dirsi accontentato.
Lei ricevette il suo caro secondo nipote; io, dal canto mio, un fratello da amare per la vita.

Glossario

¹ Molti di voi avranno già sentito parlare della famosa "camurrìa" siciliana. Per semplificare al massimo, potremmo definirla una seccatura reiterata nel tempo che provoca, in chi la riceve, un colorito senso di fastidio.

² A iosa, in quantità veramente eccessiva.

³ «Che pensieri hai per la testa?»

⁴  Letteralmente «Stefania, ma dove brillano i tuoi occhi e quelli della mia bimba stasera?».
È unʼespressione vagamente ironica, non priva di un certo grado di poeticità, per chiedere a qualcuno dove si sia cacciato.

⁵ «Per caso ha cominciato ad albeggiare?» Interrogativo a carattere di paradosso che suole sottintendere una seccatura perlopiù canzonatoria. Una trovata eufemistica per far notare che, data lʼora, forse non è proprio il caso di disturbare.

⁶ «Che ti venisse un colpo! Vi sbrigate a venire?»

⁷ «Non possiamo fare questo a Micheluccio!»

⁸ «... mi fa male la schiena.»

⁹ «... nel caso avessi chiuso i battenti, puoi già riaprire la porta!»

¹⁰ «Stefania, io porto con me la bambina... Ma tu e tuo marito, in questa notte dʼamore, vedete di farmi un altro bel nipotino!»

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro