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1.2 Austu e riustu è capu dʼinvernu

Da qui la sua ʼnciuria, “u zu Ciccu cammisa di surdatu¹”, un soprannome distintivo che i compaesani gli avevano affibbiato per risalire più facilmente alla sua identità ogni qualvolta si trovassero a parlarne. Sarebbe stato più complesso e camurriusu² indicarne nome e cognome e, peraltro, cʼera pure il pericolo che venisse confuso con un tale dalle stesse generalità. Così, per arginare il problema, sin dai tempi più antichi il siciliano aveva avuto la brillante idea dʼinventarsi un sistema infallibile: le ʼnciurie.

Si trattava di nomignoli, veri e proprio sigilli identitari che, sulla base di difetti corporali, titoli di studio, attività lavorative, vizi e abitudini particolari venivano attribuiti a un soggetto nel tentativo di fissare un riferimento definitivo al suo riconoscimento, che da quel momento sarebbe diventato inequivocabile.

Accadeva poi, per via di unʼulteriore semplificazione, che una stessa ʼnciuria identificasse membri di famiglie diverse, aventi lo stesso cognome, tra le quali intercorreva un certo ramo di parentela. Perciò, alle consuete domande “Di cu ti dicinu?³” o “A cu apparteni?⁴”, la risposta che ci si aspettava era proprio la ʼnciuria della famiglia di apparenza, e tuttʼaltro che raro sarebbe stato, una volta esserti presentata con nome e cognome, che i tuoi interlocutori, straniti, ti valutassero forestiera.

La situazione, per me che appartenevo a una famiglia senza nessuno di questi strani soprannomi, si faceva alquanto complicata: la mancanza di una ʼnciuria si traduceva per parecchi in una grossa difficoltà a riconoscermi. Dunque, volta per volta, bisognava che delineassi tutto lʼalbero genealogico perché le anziane signore, curiose da far paura, riuscissero finalmente a identificarmi.

Per alcuni, soliti incontrarmi nel loro quotidiano, non aveva bisogno di presentazioni quella piccola, tenera bambina dagli occhi verdi e i riccioli dʼoro, che giocava per strada spensierata e saltellava qua e là con la stessa leggerezza di una libellula. Altri ancora, affermando con orgoglio che mʼavianu vistu nasciri⁴, era come se ritenessero motivo di vanto il fatto di conoscermi da sempre.

A questʼultima categoria appartenevano i vicini di casa, coloro che mi volevano bene al pari di una figlia, di una nipote, di un individuo del loro stesso sangue, e non perdevano occasione di dimostrarlo. Io, dal canto mio, provavo per loro un tale affetto da aspettare con trepidazione lo scendere della sera, quando avrei potuto sedere insieme a loro e ascoltare con sincero interesse quei discorsi da grandi.

Era come una scuola a cielo aperto, in cui si discuteva di vita vera, che di volta in volta mi permetteva di apprendere qualcosa di nuovo. Ma la cosa ancor più sorprendente era che lì gli insegnanti migliori erano perlopiù anziani con carriere scolastiche che non superavano la quinta elementare, capaci a malapena di scrivere, eppure unici detentori di una cultura ancestrale, mistica, enigmatica e seducente che altrimenti sarebbe andata perduta.

Io, di sentire quei fatti memorabili, quegli aneddoti così suggestivi e quelle credenze affascinanti, miscela perfetta di verità e mistificazione, non ne avrei mai avuto abbastanza. E così, anche quella sera, non appena giunse il momento di tornare ognuno nelle proprie case, la mia consueta espressione contrariata non tardò ad arrivare, accompagnata dai soliti capricci che riuscirono a prolungare per una buona mezzʼora quello stare in compagnia che tanto mi piaceva.

A dir la verità, quella povera donna di mia madre, dopo aver cercato di convincermi in tutti i modi possibili, aveva perduto la pazienza ed era ad un passo dal ricorrere alle maniere forti. Ma io, che ormai conoscevo a memoria la dinamica della situazione, sapevo che non ci sarebbe mai arrivata; sapevo che, se non lei, qualcun altro avrebbe finito per accontentarmi.

«Bedda mè, nun chianciri! Facemu accussì: ti cuntu lʼultima cosa...⁵» esordì u zu Ciccu, puntuale più di un orologio svizzero, facendomi cenno di avvicinarmi a lui. «Poi però ni emu a curcari tutti!» Dunque, come ogni sera, si preparò a imbastire per me un racconto tutto nuovo.

«Moltissimo tempo fa, in fondo a questa strada si trovava un grosso albero. Cresciuto dallʼarida terra - a simenza vinni da una tempesta, ma una tempesta di chiddi ca un si scordanu cchiù⁶ - parsi⁷ una cosa mandata dal cielo per riportare anticchia di pace in questo paese distrutto. Ora, siccome per alcuni aveva la capacità di ascoltare gli uomini e avverare i loro desideri, lo chiamarono nentidimenu che “lʼalbero dei miracoli”. Se avevi un segreto, un desiderio, quello che dovevi fare era scriverlo su un foglio e lasciare il tuo biglietto tra le crepe della corteccia: al resto ci avrebbe pensato iddu⁹. Una volta, in tempo di guerra, quando tutti i ragazzi furono costretti ad arruolarsi come soldati, lʼunico tra loro che credeva nel potere miracoloso dellʼalbero, la sera prima di irisinni¹⁰ scrisse due parole su un pezzo di carta e andò a depositarlo dentro un piccolo buco del tronco. Nessuno mai seppe qualcosa sul suo desiderio: ti pozzu diri¹¹, però, che stu picciottu¹² fu lʼunico a tornare sano e salvo dalla guerra.»

E anche quella sera, un racconto che mi facesse tornare a casa soddisfatta lʼaveva trovato. Ne avrei avute curiosità da chiedere, se solo non fossi rimasta talmente incantata da non poter spiccicare una sillaba.

Dovevo avere stampata sul volto unʼespressione che sprizzava meraviglia da tutti i pori: erano gli effetti collaterali di quelle storie improvvisate, intervallate qua e là da fantasticherie romanzesche, eppure intrise del sapore di un vissuto che qualunque osservatore attento avrebbe potuto scovare dappertutto in quel luogo.

In ogni filo dʼerba sorto dalla roccia, nelle fessure polimorfe delle mura cadenti, tra le rughe di quei volti scolpiti dallʼesperenza, nei riflessi di uno sguardo che, come una pellicola infinita, pareva proiettare tutto ciò che aveva visto durante la sua traversata del tempo. E ne aveva viste di cose.

U zu Ciccu, seguito da coloro che erano rimasti ad ascoltarlo, si alzò in piedi. «Nunziatì, chi ti nni parsi di stu cuntu?¹³» disse, sollevando la sua sedia pieghevole e preparandosi ad avviarsi verso casa. «Bello fu! Mi piaciu assai¹⁴.» Lʼuomo, di fronte al mio entusiasmo, sorrise. Poi, con un cenno della mano, mi salutò e si volse in direzione del breve tratto di strada che doveva percorrere.

Continuai a guardarlo mentre si allontanava, immersa nei miei pensieri come unʼintellettuale squilibrata, senza dare ascolto alle parole di mia madre che mʼintimavano, data lʼora che si era fatta, di entrare in casa e filare a letto di corsa.

«Aspetti, aspetti!» Corsi verso di lui, aggrappandomi alla sua camicia affinché arrestasse il passo.
«Zu Cì, vossìa nun mi lu dissi!¹⁵ Ma io lo so che era lei quel ragazzo.» Lʼuomo sorrise unʼaltra volta; i suoi occhi erano lucidi come le stelle più brillanti della notte. Con un gesto repentino, dopo aver lasciato cadere la sedia, si liberò braccia e mani per il tempo di una carezza e quello di una stretta.

«Buonanotte Nunziatì!»

Glossario

¹ “Il signor Francesco camicia da soldato.”

² Molti di voi avranno già sentito parlare della famosa “camurrìasiciliana. Per semplificare al massimo, potremmo definirla una seccatura reiterata nel tempo che provoca, in chi la riceve, un colorito senso di fastidio.

³ Letteralmente “Di chi ti dicono? A chi appartieni?” Espressioni diffuse soprattutto tra i soggetti più avanti con lʼetà, atte a velocizzare il riconoscimento tra i membri della comunità mediante il rimando alla loro famiglia di appartenenza.

⁴ “Mi avevano vista nascere.” Da non intendersi nel suo significato letterale. Si riferisce, piuttosto, a uno stretto legame tra individui non imparentati, di cui lʼuno più grande e lʼaltro più giovane, derivato da una ripetuta compartecipazione a eventi di rilievo e non, da un quotidiano trascorrere del tempo insieme.

⁵ «Tesoro, non piangere! Facciamo così: ti racconto unʼultima cosa...»

⁶ Alla lettera, «Il seme venne da una tempesta, ma una tempesta di quelle che non si dimenticano più.»

⁷ Sembrò.

⁸ Nientedimeno.

⁹ Lui.

¹⁰ Andarsene.

¹¹ Ti posso dire.

¹² Per estensione, “questo ragazzo”. Nella sua accezione originaria, il termine "picciotto" designa i membri delle bande siciliane che si unirono ai Mille per spodestare i Borbone dallʼisola.

¹³ «Nunziatì, che ne pensi di questo racconto?»

¹⁴ «Bello! Mi è piaciuto molto.»

¹⁵ «Signor Francesco, lei non me lo ha detto!»
"Cì" è chiaramente il troncamento di "Ciccu".

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