Capitolo tre
«Sono tornata!»urlò Dido, non appena varcò il portoncino di casa.
Buttò a terra la borsa a tracolla vicino all'appendiabiti e si sfilò gli stivaletti coi piedi, non osandoli toccare con le mani.
«C'è qualcuno?».
Non avendo ricevuto risposta di alcun genere, si infilò dritta in bagno. Aveva proprio bisogno di una bella doccia calda. Accese la stufetta e tirò l'acqua, intanto che si liberava dai vestiti fradici di pioggia. Rimasta in reggiseno e culottes, si mise proprio davanti all'erogatore dell'aria. Si sgranchì la schiena, prima di guardarsi allo specchio: quello che vide non le piacque affatto.
Alla luce fredda della lampada al neon la sua carnagione pallida acquistava delle sfumature verdastre, che la facevano sembrare più morta che viva. La pioggia aveva lavato il poco make-up che si era messa prima di uscire e ora si intravedevano le occhiaie scure, frutto di notti insonni passate a sfaticare sui libri di algebra.
Inspirò profondamente e si tastò le coste dell'addome. Si sentiva così stanca e priva di forze, avrebbe potuto dormire per una settimana intera e ancora non sarebbe stato abbastanza. Sotto il getto di acqua bollente finalmente riuscì a rilassarsi; ma, se da una parte il suo corpo parve rinfrancarsi dalle recenti fatiche, gli ingranaggi del suo cervello ricominciarono a lavorare.
Da quando aveva ricevuto quel messaggio, era stato quasi impossibile per lei pensare in maniera lucida, con Cleo che ripeteva ogni cinque secondi: «Ma figurati se l'ha fatto per davvero, sai come è fatta Izzie. Si sarà voluta fare quattro risate, pensando alla tua faccia da fessa quando avresti letto il messaggio».
Avrebbe voluto tanto crederci anche lei, tuttavia conosceva Isabel da molto più tempo e sapeva come funzionavano gli oscuri meccanismi della sua mente contorta. Da quando Isabel si era fidanzata con Jason, il capitano della squadra di football, il suo unico divertimento era diventato quello di mettere insieme i suoi amici, come una novella Emma Woodhouse.
Non c'era da sorprendersi che la sua preda preferita fosse proprio Dido. Vuoi perché la bionda aveva sempre rifiutato a prescindere qualsiasi ragazzo che le venisse proposto, vuoi perché non vedeva l'ora di fare un'uscita a quattro, sta di fatto che per Isabel era diventato una questione personale.
La verità, che non riusciva a rivelare nemmeno a se stessa, era che si annoiava, e che tutto quello non era altro che un gioco per lei. Ma da questo a offrire Dido come agnello sacrificale, ce ne passava di acqua sotto i ponti.
La bionda non riusciva a capacitarsi di come le fosse anche solo venuto in mente di compiere un tale gesto, ma ormai la frittata era fatta e non si poteva più tornare indietro. Niente avrebbe risparmiato a Isabel una bella lavata di capo al momento giusto, ora però doveva pensare al da farsi.
Dido risciacquò i capelli dallo shampoo e prese il balsamo alla camomilla. C'erano due possibilità: cercare un vestito che si abbinasse bene alla tappezzeria, o prendere la palla al balzo e osare. Era questa una di quelle decisioni che all'apparenza sembrano banali, quasi sciocche viste dall'esterno, ma che in realtà determinano chi siamo e chi vorremo essere.
Al momento di chiudere il getto d'acqua, aveva già fatto la sua scelta. Uscì decisa dalla doccia e indossò l'accappatoio, si mise un asciugamano a mo' di turbante in testa e partì alla volta della sua camera. Giunta dinnanzi al suo guardaroba cominciò a spostare freneticamente le grucce, ad aprire e chiudere i cassetti e a gettare sul suo letto tutti i suoi vestiti a uno a uno. Non contenta di tutto ciò, prese d'assalto l'armadio di sua madre, che grazie a dio aveva più o meno la sua stessa taglia.
"Questo è da vecchia, quello mi fa il culo grosso, con questo mi manca solo che mi chiedano l'assoluzione, questo... decisamente no" pensava tra sé e sé mentre vagliava ogni maglioncino, ogni gonna e ogni cardigan della madre.
Dopo aver constatato che la chance migliore che aveva per farsi notare era andare alla festa nuda, ritornò nella sua camera, l'ultimo baluardo sicuro della sua esistenza. Era una stanza piccola ma arredata con gusto, gran parte dei mobili era stato scelto da sua madre prima che Dido nascesse, ma questo non le aveva impedito di aggiungere il suo tocco personale.
Aveva tappezzato le pareti con poster dei concerti e delle mostre d'arte a cui era andata. Sua madre aveva fatto in modo di incorniciare la maggior parte dei suoi disegni e ora la guardavano dall'alto della sua testiera del letto. La scrivania era ingombra di libri e fogli volanti, qualche pennello, e non potevano mancare i acquerelli, matite, pastelli e pennarelli.
Di lato il settimanale, che aveva ridipinto lei stessa con motivi floreali Art Decò, aveva la maggior parte dei cassetti aperti, dai cui penzolavano fuori canottiere e reggiseni. Infine c'era la parte che preferiva più in assoluto: il bovindo, dove si poteva rifugiare ogni volta che ne aveva bisogno, per leggere, scrivere o semplicemente per pensare.
Diede un'occhiata fuori dalla finestra, prima di buttarsi sul suo letto sfinita.
«Perché diavolo sto facendo tutto questo? Tanto nessuno lo noterà, nessuno si accorgerà neanche della mia presenza» disse sconsolata, dopodiché si nascose sotto le coperte.
Sputava solo la punta del naso alla francese. Aveva ancora i capelli umidi, e se sua madre fosse stata lì probabilmente gliene avrebbe dette quattro. Si sentiva triste e depressa e avrebbe voluto solo rimanere a letto vita natural durante.
Per quanto cercasse di liberare la mente da ogni preoccupazione, il ricordo di quel dannato messaggio la tormentava. Neanche nascondere la testa sotto il cuscino serviva a qualcosa. In quel momento probabilmente tutti i suoi amici, compagni di scuola, conoscenti, semisconosciuti e barboni della città, l'avevano già letto, riletto e si erano fatti anche quattro risate sopra. Che vergogna!
Dido sentì sua madre rientrare, e poco dopo Spike, il loro Jake Russel, saltò sopra il suo letto. La ragazza cercò di scacciarlo con i piedi, ma l'animale, sicuro che quello fosse un nuovo gioco, addentò la coperta a pois blu e bianchi ringhiando.
«Tesoro, cosa ci fai sotto le coperte? Stai male?» chiese ansiosa sua madre, sedendosi sul bordo del letto e poggiandole una mano sulla fronte.
«Vai via» mugugnò Dido da sotto la montagna di coperte, rigirandosi per sottrarsi alle sue carezze.
Annabeth Cooper non era certo il tipo di donna che si faceva liquidare così facilmente e partì alla carica con una nuova sfilza di domande.
«È successo qualcosa a scuola? Qualcuno ti ha preso in giro? Hai litigato con Izzie?».
Dido avrebbe preferito dividere la propria stanza con uno gnu per il resto della vita che sottoposi a quell'interrogatorio. Per quanto i figli tentino di sottrarsi alle cure materne, le madri sono geneticamente programmate per sapere quando c'è più bisogno di loro.
Così Annabeth cominciò a pettinarle i capelli ancora bagnati con le mani. Era un gesto famigliare, che sua madre usava fare da quando Dido era ancora piccolissima e che oggi come allora riusciva a tranquillizzarla. Dido avrebbe voluto rimanere così per sempre, ma ben presto sua madre si stancò e improvvisamente smise.
«Si può sapere cosa succede, devo preoccuparmi?».
La ragazza si mise a sedere di malavoglia e cercò invano di scacciare Spike. Aveva il morale sotto i tacchi, non avrebbe voluto che nessuno, nemmeno sua madre, la vedesse in quelle condizioni. Annabeth non era una donna che badava troppo al lato estetico, ma questo era dato dal fatto che possedeva un'innata grazia naturale, che le permetteva di disinteressarsene.
Con quei suoi capelli biondo miele, lisci e setosi, così diversi da quelli ricci e crespi della figlia, gli occhi grandi e azzurri e un sorriso amichevole, riusciva ad attaccare bottone con chiunque senza risultare mai invadente. Anche in quel tempestoso pomeriggio di Settembre era semplicemente perfetta con un blazer principe di galles e una camicetta di seta bianca.
«Allora?» chiese pacatamente Annabeth.
Dopo un attimo di esitazione Dido cominciò a piangere, un pianto convulso, quasi isterico. Sua madre l'abbracciò, e dandole delle leggere pacchette sulla schiena le disse.
«Su, su, non può essere tanto grave. Abbiamo ancora un barattolo di gelato in frigo, ti va di andare in cucina e raccontarmi tutto?».
Era convinzione comune in casa Cooper che qualsiasi cosa succedesse, dalla più immane catastrofe alla più piccola inerzia, potesse essere ragionevolmente risolta dopo un'abbuffata di gelato, meglio se al cioccolato. Tra una cucchiaiata e l'altra Dido riuscì finalmente a confessare ciò che la tormentava: il messaggio di Isabel l'aveva colpita più nel profondo di quanto non pensasse.
«... e per di più Cleo continua a essere miss diplomazia, non prede parte, non dice assolutamente niente per paura di essere tirata in mezzo. Mi dà così sui nervi!»
«Non è stato affatto carino da parte di Isabel è vero, però sei troppo critica verso Cleo. Probabilmente era sorpresa quanto te e ha preferito confortati più che fomentare le tua rabbia» disse Annabeth lanciadole uno sguardo comprensivo.
Dido scosse la testa da una parte all'altra poco convinta.
«Non lo so, in questo momento ho problemi più pressanti: cosa mi metto domani?»
«A questo possiamo rimediare subito, tesoro» replicò sua madre alzandosi dalla sedia e intercettando il padre di Dido, che stava rincasando da lavoro proprio in quel momento. «Michael tesoro, ci serve la tua arma segreta».
Il signor Cooper sembrava molto stanco, aveva il nodo della cravatta sfatto e la camicia bianca era arrotolata sui gomiti. Doveva essere stata una giornata pesante al lavoro, anche se era ritornato molto prima rispetto al solito. Buttò la giacca sul bancone a isola della cucina e si versò un bicchiere d'acqua prima di rispondere.
«Di che livello di emergenza stiamo parlando?» chiese Michael titubante.
«Vita o morte» affermò Dido.
Michael Cooper non era mai stato uno di quei genitori pronti ad assecondare ogni capriccio dei propri figli, ricoprendoli di regali da due soldi. Ciononostante se Dido avesse desiderato qualcosa, ma desiderata veramente dal più profondo del suo cuore, allora lui si sarebbe fatto in quattro per fargliela avere. Si grattò il mento per un po', ma alla fine sorrise.
Come un prestigiatore estrarrebbe una tortora dal cappello, Michael Cooper sfoderò la sua American Express Platino. «Mi raccomando, la vita o la morte non prevedono una gita in elicottero come in quel film».
Dido saltò sulla sedia e corse ad abbracciare il padre.
«Grazie pa', staremo attentissime» trillò felice la figlia.
Il signor Cooper per tutta risposta fece un lungo sospiro di rassegnazione.
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