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Capitolo sedici

«Che diavolo ci faccio qui?» si chiese Dido stizzita, fregandosi nervosamente le mani. Era sola nell'abitacolo della sua macchina, con il riscaldamento acceso. Fuori aveva cominciato a piovere e dovette azionare i tergicristalli, per poter vedere l'entrata della scuola.

Aveva guidato per un'eternità, prima di rendersi conto di non sapere dove star andando. Fuori era quasi buio e aveva acceso i fari della macchina. Il cartello stradale davanti a lei recitava Stratton's street. Senza rendersene conto era arrivata ai confini della città. Si era ricordata solo allora di non aver avvisato sua madre della punizione della Spinnet, né tanto meno della sua gita fuori porta. S'era immaginata la sfuriata che le avrebbe fatto non appena fosse tornata a casa ed era rabbrividita al solo pensiero. Per giunta non era riuscita a trovare il suo telefono da nessuna parte.

Aveva guidato ancora per qualche miglio lungo una strada deserta che portava verso nord, sfogando sull'acceleratore tutta l'inquietudine che aveva in corpo. Era sola, in mezzo alla campagna desolata, senza telefono, con la paura di ritornare a casa. Tutta la stanchezza, che aveva accomulato nel corso della giornata, le era caduto addosso come un macino. Aveva voglia di piangere e urlare, ma la verità era che non ne aveva il tempo. Era già in ritardo e non ci teneva a essere marchiata a ferro e fuoco da sua madre. Così era ritornata verso casa, con l'angoscia nel cuore. Al semaforo di Highland Advenue, però non aveva svoltato a destra come era solita fare, ma aveva proseguito dritta. In quel momento, non sapeva neanche lei bene per quale motivo, si ritrovava in una stradina laterale alla scuola, sotto una macchia di alberi frondosi, abbastanza lontana dal cortile per non essere riconosciuta.

Nella mezz'ora di tempo che aveva avuto per schiarirsi le idee e per prendersi mentalmente a calci, era giunta alla conclusione che non avrebbe mai potuto fare sogni tranquilli, se prima non avesse scoperto chi l'aveva voluta tormentare con quello scherzo idiota. Sperava solo che il responsabile si facesse vivo presto, perché non aveva alcuna voglia di passare la notte in macchina. Sempre che non fosse già andato via. Ma qualcosa dentro di lei le diceva che era ancora lì, tra quelle quattro mura a ridere di lei. Rimase in attesa per ben quarantacinque minuti. Furono i quarantacinque minuti peggio spesi di tutta la sua vita: non solo la sua caccia all'uomo si stava rivelando inutile, ma anche dannosa per la sua salute.

Era al suo diciottesimo starnuto, quando una camaro nera mai vista prima comparve dal nulla. Percorreva il viottolo, che di solito era utilizzato dai camioncini della mensa per caricare e scaricare le merci, non superando mai i dieci chilometri orari. Giunta infine davanti al cancello della scuola, che come al solito era ancora spalancato, si fermò. Passarono ancora alcuni secondi senza che succedesse niente di nuovo, la camaro era fermata al suo posto e non sembrava avere alcuna intenzione di muoversi.

«Ma non c'è nessuno alla guida?!» esclamò interdetta Dido.

Infatti da quella distanza era impossibile vedere chi sedesse al posto di guida, né se ci fossero dei passeggeri. La ragazza avrebbe tanto voluto avvicinarsi, ma uscire allo scoperto in quel momento avrebbe sicuramente compromesso il suo piano, non sapendo ancora con chi aveva a che fare. Ancora oggi non riusciva a credere a quanto fosse stata stupida in quel momento, come un uccellino che cerca di spiccare in volo verso la libertà, e che al contrario saggia per la prima volta quanto sia duro il terreno quando si cade.

In capo a pochi secondi la camaro nera cominciò a scaldare il motore, come se si preparasse a partire per un gran premio di formula uno. Un fumo bianco cominciò a fuoriuscire dalle ruote posteriori. Dido guardava la scena esterrefatta, non riuscendo a credere a quello che stava vedendo. L'auto da corsa partì all'improvviso a una velocità sorprendente, lasciando la ragazza ancora con le chiavi in mano. Era passato solo un secondo dacché si era allontanata da lì, e già  la camaro si trovava alla fine di Waverly Street. Dido si doveva spicciare se voleva seguirla. Riuscì a starle dietro per circa due isolati, poi perse le sue tracce. Non che avesse mai avuto qualche speranza di avvicinarla, ma la consapevolezza di aver sprecato per sempre la possibilità di scoprire chi fosse il colpevole le stava rodendo l'anima. Perché di questo era certa, il o le persone che le avevano giocato quel brutto tiro, erano sicuramente gli stessi che si trovavano alla guida della camaro nera ora diretta chissà dove.

Per due solati tentò ancora di rintracciarla, ma sembrava che la camaro si fosse volatilizzata nel nulla. Si trovava circa all'altezza di Cornwall Advenue, quando la vide due macchine davanti a lei. Per la sorpresa rischiò di mettere sotto con la macchina una cara vecchietta, che stava attraversando le strisce pedonali con il proprio cane. Da quel momento non la perse di vista per un secondo, anche se la camaro viaggiava ben venti chilometri sopra al limite di velocità. Ripercorsero Highland Advenue e quando arrivarono al semaforo svoltarono a destra, invece che a sinistra verso casa di Dido. In quel modo si stavano avvicinando a Milford Hill, il quartiere residenziale più nuovo e alla moda di Bladeswood. Si trattava di dieci villette in stile Hollywood, ognuna dotata di piscina olimpionica, campi da tennis e guardiani notturni, che pattugliavano la zona ventiquattrore su ventiquattro. Ci abitavano diversi compagni di scuola di Dido, e la ragazza c'era stata per qualche festa. Ne conosceva perfettamente la struttura, perché sua madre era un arredatrice d'interni molto rinomata e tutti i ricconi della città avevano voluto avvalersi delle sue competenze per ammobiliare le proprie dimore.

Con una faccia molto perplessa Dido imboccò St.Richmond Street e mancò poco che non tamponasse la camaro nera, che era proprio davanti a lei e aveva rallentato vistosamente la sua andatura. Accostò di lato alla strada sperando che nessuno l'avvesse vista e spense i fari. L'auto da corsa sembrava incerta su quale fosse il suo traguardo. Chiunque fosse alla guida non era gente del posto, perché in quella zona erano soliti girare con suv luccicanti, non con vecchie carrette arrugginite. La camaro nera si fermò nei pressi di una grande casa, che Dido riconobbe subito come quella del ragazzo di Isabel, Jason. La famiglia Lafferty era uno delle più ricche da quelle parti, il padre era un famoso broker finanziario, mentre la madre a causa dei frequenti viaggi di lavoro del marito si consolava con gin e diamanti.

«Che cosa ci facciamo qui, signor criminale?» si chiese Dido, aguzzando la vista in direzione della camaro, che era posteggiata dall'altro lato della carreggiata.

Era convinta che da lì a qualche secondo una banda di rapinatori con maschere da clown sarebbe saltata giù dalla macchina e avrebbe saccheggiato la magione dei Lafferty. Ma non accadde nulla di tutto ciò. L'auto da corsa continuò a sostare con il motore accesso, senza che nessuno vi entrasse o uscisse. Rimasero in quel modo, con la camaro che non dava segno di volersi muovere e Dido che la spiava dal finestrino, per circa venti interminabili minuti. La sua mente della ragazza aveva cominciato a giocare a ping pong. Chiamare la polizia o aspettare. Aspettare o scendere a dare un occhiata. Aspettare o andarsene senza più voltarsi indietro. Scendere e chiamare la polizia o... Basta! L'attesa la stava uccidendo, quindi decise che per la sua sanità mentale sarebbe stato meglio fare qualcosa.

Non c'era anima viva in giro a quell'ora. E perché poi qualcuno avrebbe voluto avventurarsi nella notte buia, quando una prelibata cenetta lo attendeva a casa? Aprì silenziosamente la portiera del guidatore e scivolò fuori dalla macchina. Rimase accucciata vicino alla mini rossa per qualche minuto osservando la macchina posteggiata, prima di prendere coraggio e avvicinarsi. Corse a testa bassa e si abbandonò contro la portiera dalla camaro. Nessuno uscì per gridarle contro, ne per prenderla a pugni. Sbirciò dalla parte del guiatore, ma fu così veloce che non vide assolutamente nulla. La seconda volta andò meglio, ciononostante le servì una terza occhiata per rendersi conto che dentro alla macchina non c'era nessuno. Dido si alzò in piedi sbuffando, era la seconda volta quel giorno che faceva un buco nell'acqua. Chiunque avesse guidato fino a li, - ed era certa di poter escludere la possibilità che quella fosse un'auto fantasma - , se ne era andato come se niente fosse, lasciando la macchina in folle e con il freno a mano tirato. Ma dove si era andato a cacciare?

Dido cominciò a saltare da un piede all'altro, un po' per il freddo, un po' perché necessitava urgentemente di andare in bagno. A malincuore si avvicinò all'entrata di casa Lafferty, magari avrebbe potuto chiedere loro ospitalità, anche se l'idea di ritrovarsi faccia a faccia con Jason non la faceva saltare dalla gioia. Suonò il campanello e attese, ma la cameriera non le venne ad aprire. Allora cominciò a battere sulla porta con un pugno, ma ancora niente. Tutte le luci erano spente e le finestre erano sbarrate, come se la casa fosse disabitata. Si guardò dietro alle spalle, la camaro nera era ancora ferma al suo posto con il motore acceso e più in là c'era la sua macchina. Nessuno gliela aveva fregata, non ancora almeno. Stava per arrendersi e tornare a casa, quando un forte trambusto, proveniente dal retro della casa, attirò la sua attenzione.

Dido si spalmò contro il muro, aveva sentito delle voci umane e sembrava che stessero venendo proprio verso di lei. Un ragazzo biondo più o meno della sua stessa età entrò nel suo campo visivo. Si trascinava dietro un borsone verde militare, che aveva tutta l'aria di essere molto pesante.

«Misha stupido, dove corri? Misha fermati quando ti parlo o ti giuro che ti pesto a sangue».

Queste parole erano state pronunciate con un tono di voce molto basso e perentorio. A Dido parve di aver già sentito quella voce, e infatti poco dopo il povero Misha fu raggiunto da un Thunder alquanto alterato. Il messicano, non appena gli fu vicino, gli mollò un ceffone sulla nuca. Portava un giubbotto di pelle nero da motociclista e come al solito una canottiera bianca. Era uguale a come se lo ricordava Dido nella buia cantina di casa Hastings, con quel suo sguardo duro e incazzato, quasi assassino. Malgrado ciò il giovane Misha non sembrò minimamente preoccupato della reazione del messicano.

«Tanto lo farai comunque no?» replicò sorridendo il biondino con un candore inaspettato, «Non vedo vederla, TD.Credi che sia ancora da queste parti?».

Dido non sapeva a chi si potesse riferire, non aveva visto nessuno in giro da quando era arrivata, comunque nemmeno Thunder sembrava propenso a dargli una risposta.

«Non chiamarmi così idiota di un russo, quante volte te lo devo ripetere prima che ti entri in questa dannata zucca» esclamò Thunder incenerendolo con gli occhi e agguantandolo per il bavero del bomber azzurro chiaro con aria minacciosa

Sarebbe anche riuscito a sollevarlo se il biondo non fosse stato dieci centimetri più alto di lui.

«Padrone TD si sbaglia, Misha non essere russo ma serbo» disse Misha facendogli il verso e abbracciandolo all'improvviso.

"Ma cosa diavolo stanno facendo?"

«Ma cosa diavolo state fancendo?»

Dido rimase interdetta per qualche secondo prima di rendersi conto che a parlare non era stata lei, ma Rogue che era appena arrivato sul posto correndo.

«Hey voi, non vedete che abbiamo compagnia?» disse e la guardò con quei suoi due occhi graciali, che avrebbero fatto raggelare persino il sole.



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