18
Pochi giorni fa Kevin mi ha chiesto se nella mia vita ho mai fatto qualcosa di cui poi mi sono pentito.
Stavamo parlando del suo passato, in strada a vendere il suo corpo. Facciamo ancora un po' di terapia insieme e in quei momenti, non sono Daddy, ma solamente il suo psicologo. Anche se ormai è difficile discernere le due cose e ho preferito farlo seguire da un mio collega. Quindi più che una seduta di terapia, la nostra è diventata una seduta di confidenze.
Ci mettiamo comodi sul divano e cerchiamo di affrontare insieme il suo disagio interiore. Serve a lui per affrontare le sue paure e serve anche a me, per affrontare i miei sbagli.
Quando mi ha chiesto le cose di cui mi vergognavo, sono rimasto un attimo in silenzio a riflettere.
Erano parecchie. La maggior parte di queste, accadute in carcere. Cose di cui non vado fiero, che probabilmente non racconterò neanche in questo testo. Ma di una cosa ero sicuro. Aver venduto il mio corpo a Ryan era stata la scelta giusta. È vero, mi aveva disgustato, ma ne era valsa la pena. Com'è che si dice? Il fine giustifica i mezzi? Beh, in quel caso era stato così.
Perché se non l'avessi fatto, non so se avrei mai avuto l'occasione di conoscere Maverick.
Quando si presentò in lavanderia, una settimana dopo, stavo sdraiato sopra un tavolo, a fissare il soffitto.
Stavo iniziando a perdere le speranze, ma non mollavo. Sarei andato avanti ancora, prima di gettare la spugna. Non fu necessario.
Quando la porta si aprì, mi alzai dal tavolo di scatto. Se fosse stato Shaq, non avrei avuto scampo. Invece trovai due occhi di ghiaccio a fissarmi. Rimasi imbambolato. Non sapevo cosa dire, né cosa fare. Restai in silenzio, in attesa che entrasse dentro lo stanzone.
Mi guardò e incrociò le braccia al petto. Sembrava annoiato.
- Ciao. - dissi sottovoce.
- Perché sono qui? - domandò con una punta di fastidio.
- Io... ecco... io... volevo parlarti. -
- Allora muoviti. Parla. Che non ho tempo da perdere. - disse duro.
Ero imbarazzato. Tutti i miei film mentali si stavano sgretolando, come un castello di sabbia.
- Mi dispiace per quello che hai passato. - dissi incerto.
Arcuò il sopracciglio, non capendo cosa stessi dicendo.
- Si... per tutto il dolore che hai dovuto affrontare nella vita. Le violenze di tuo padre, la morte di tua madre... -
Si avvicinò e mi prese per il collo.
- Chi ti ha detto queste cose? -
- Sono... sono voci che ho sentito... - dissi cercando di respirare. -
- Stammi a sentire puttanella, non so chi tu sia e per quale motivo mi hai voluto incontrare, ma dì solo un'altra parola sulla mia famiglia e farò in modo di farti mangiare con una cannuccia, per il resto della tua vita. -
- Scu... scusa... - dissi.
- Cosa vuoi da me? - domandò.
- Solo conoscerti. -
Storse la bocca.
- Non sono interessato. E ora stammi alla larga. Non voglio più essere disturbato da te. -
Lasciò il mio collo e si girò per lasciare la stanza.
Parlai di impulso.
- Perché mi hai baciato? - urlai.
Si fermò. Tornò a guardarmi. Presi coraggio.
- Perché mi hai baciato? - domandai nuovamente, questa volta più piano.
Non rispose. Mi avvicinai e rifeci la domanda. Ancora nessuna risposta. Lo raggiunsi. Alzai lo sguardo, andando a scontrare i miei occhi, con le sue pozze di azzurro.
- Perché mi hai baciato? - sussurrai.
Alzò le braccia, come se volesse colpirmi. Mi preparai mentalmente alla botta. Prese la mia faccia e incollò le sue labbra alle mie.
Fu un bacio bello. Voglioso. Possessivo. Infilai la mia lingua nella sua bocca. Prese a vorticare con la sua. Mi strinse a sé, passando una mano sul mio fianco. Lo sentii duro, eccitato. Mi lasciai andare e chiusi gli occhi, lasciandomi avvolgere dal suo calore. Mugolai quando mi morse il labbro inferiore. Poi riprese possesso della mia lingua. Lo abbracciai, mettendo le mie mani, dietro la sua schiena muscolosa.
Mi schiacciò tra il muro e il suo corpo. Scese con la mano e mi palpò il sedere. Gemetti nella sua bocca. Avrei fatto qualunque cosa mi avesse chiesto.
Invece si staccò da me, portando via il suo calore.
- Devi lasciarmi in pace. - disse. - Devi starmi lontano. -
- Lo farò. - risposi. Alzai la testa per guardarlo negli occhi. - Solo se mi dirai che questo bacio per te non era niente. -
Osservai la sua reazione. Non rispose.
- Stammi lontano. O sarò costretto a farti del male. -
Si allontanò verso l'uscita.
- Sarò qui tutte le sere, prima del rientro in cella. Ad aspettarti. - dissi.
Rimase in silenzio, la schiena rivolta verso di me. Poi tirò giù la maniglia e uscì dalla porta.
Restai sveglio tutta la notte a pensare alle sue labbra sulle mie, alla sua lingua che esplorava la mia bocca, alla sua presa forte sul mio fianco e poi sul mio culo, al suo corpo caldo. Mi masturbai pensando a lui.
L'indomani raccontai tutto a Patrick. Ovviamente dopo la sua consueta sega mattutina.
- Ci siamo baciati. - dissi all'improvviso.
Scese dal letto e si mise al mio fianco.
- Vuoi dire che è venuto? -
- Si. - risposi.
- In tutti i sensi? - ridacchiò.
Lo guardai male.
- No. Non è venuto in quel senso. Quello lo hai appena fatto tu. -
Sorrise.
- Sai com'è, devo tenermi in esercizio. -
- Già, lo so bene. - dissi.
- Forza raccontami come è andata. -
- Si è presentato, ci siamo baciati, mi ha palpato il culo e poi ha detto che devo stare lontano da lui. -
- Oh! - esclamò. - Mi pare chiaro che non gli è piaciuto il tuo culo. - disse convinto.
- Ehi... non ci provare neanche. Era più duro delle sbarre che chiudono la nostra cella. Non credo non gli sia piaciuto. Non è per questo che mi ha detto di girargli al largo. Non so... credo che abbia paura di quello che sente. -
- Quindi che farai? Ascolterai le sue parole? -
- No Invece mi presenterò tutte le sere in lavanderia, nella speranza che torni a trovarmi. -
- Stai rischiando grosso. -
- Lo so, ma non posso farne a meno. Sono attratto come una calamita da lui. -
- Fai come vuoi, solo stai attento. -
- Lo farò. - risposi.
Tornò tre giorni dopo. Tre giorni di troppo per quanto mi riguardava. Avevo passato quelle settantadue ore in fremente attesa. Nella speranza si facesse rivedere. Quasi in preghiera.
Quando aprì la porta della lavanderia, non ci credevo. Era lì, davanti a me. Solo che stavolta non avevo niente da dirgli. O meglio, era venuto di sua spontanea volontà. Perché sapeva che ero lì ad attenderlo.
- Ciao. - dissi.
- Perché sei qui? - domandò.
- Perché speravo di vederti comparire da quella porta. - risposi.
- Cos'è che cerchi esattamente da me? -
Stavolta le sue parole non erano dure, il suo volto mostrava curiosità.
- Non lo so neanche io. - confessai. - Credo di volerti conoscere. -
- Non sono poi così interessante. -
- Questo lascialo decidere a me. - dissi.
Chiuse la porta alle sue spalle. Balzai a terra, dal tavolo in cui ero seduto. Mi avvicinai. Stavolta non avevo paura. Arrivato a pochi passi da lui, alzai la mano per toccarlo. Volevo accarezzare il suo corpo, sentire il suo cuore battere, passare le mie dita sui suoi addominali. Mi bloccò, prendendomi il polso.
- Non farlo. - disse.
- Perché? -
- Perché non so cosa potrebbe accadere. - rispose.
- Possiamo scoprirlo insieme. -
- Non so se ho voglia di farlo. -
- Allora perché sei qui? - domandai.
- Non lo so. È come se una forza mi spingesse a te. Come... -
- ... una calamita. - conclusi la frase.
- Si... come una calamita. - confessò lui, guardandomi sorpreso. -
- È lo stesso per me. - dissi.
Ci guardammo negli occhi, rimanendo in silenzio. Provai ad avvicinarmi. Il mio corpo bramava il contatto con il suo. Le mie labbra volevano sentire il suo sapore.
- No! - esclamò.
Si spostò, e si mise seduto sul tavolo, lasciandomi lì, in piedi davanti a lui.
- Raccontami di te. Chi sei? Perché sei qui? - domandò.
Sospirai e mi misi seduto al suo fianco. Iniziai a parlare, rivelandogli perché ero dentro. E poi pezzi della mia vita, la mia famiglia, i miei amici.
Ascoltava, senza fare domande, ma con sguardo curioso, mentre vagava con gli occhi sul mio corpo.
Era tutto così perfetto, che ci accorgemmo all'ultimo minuto, che era ora di tornare in cella.
- È ora di andare. - disse.
Si alzò dal tavolo, avvicinandosi alla porta.
- Aspetta! - lo chiamai.
Gli corsi incontro. Mi misi sulle punte dei piedi e gli lasciai un bacio sulla guancia. Rimase fermo, senza dire niente.
- Tornerai? - domandai.
- Forse. - rispose.
Ma sorrideva. Sapevo che sarebbe tornato.
Si girò, appoggiando la mano sulla maniglia. Lo presi per un braccio, facendolo voltare verso di me. Stavolta lo baciai sulle labbra. Un bacio a stampo, dolce e lento. Mi staccai abbassando lo sguardo imbarazzato.
- A domani. - disse.
Il mio cuore batteva all'impazzata. Il mio pene era duro tra le mutande.
Tornato in cella, mi masturbai.
Venne a trovarmi anche il giorno dopo. E quello seguente ancora. E così quello successivo.
Attendevo con ansia per tutta la giornata. Pregando che si presentasse. E ogni volta che lo faceva, il mio cuore impazziva di gioia.
Parlavamo, o meglio ero io che parlavo di me e della mia vita. Lui ascoltava, sorrideva, rideva e qualche volta commentava.
E quando rientravo in cella, mi masturbavo, pensando a lui.
- Amico, stai diventando peggio di me. - mi disse una volta Patrick. - Devi assolutamente farti scopare, non puoi andare avanti così. Di questo passo ti verranno i calli alle mani. -
Aveva ragione, lo desideravo con tutto me stesso, ma non sapevo come fare per farglielo capire. Avevo paura che se mi fossi avvicinato, sarebbe scappato lontano da me.
Fu lui a risolvere il problema. Quando decise di lasciarsi andare. Quando decise di fare l'amore con me.
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