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11

Vorrei potervi raccontare che da quel giorno, le cose tra me e Maverick, andarono a meraviglia, che diventammo amici, amanti, fidanzati e che preparammo in fretta e furia le bomboniere per poi sposarci e passare la luna di miele su una spiaggia da sogno a fare l'amore tutto il tempo. Ma non fu così. Proprio per niente.

Perché se le cose possono peggiorare, di sicuro lo fanno. E se si pensa che il peggio sia passato, posso affermare senza dubbio che al peggio non c'è mai fine e quando si tocca il fondo, si può scendere ancora e ancora.

Il mio problema più grande non fu quello di conquistare Maverick, ma quello di capire e comprendere quello che mi stava succedendo. Accettare la mia omosessualità. Dovevo chiarire alcuni aspetti della mia vita precedente, scavare nel mio profondo, per tirare fuori quella parte di me che era sopita. Quella parte, che molti gay faticano ad accettare. O che non accettano proprio. Decidendo così di nascondersi. O di uccidersi.

Me ne stavo la notte in cella a riflettere su quello che era successo, su quello che avevo provato.
L'impulso irrefrenabile di baciarlo. Sentivo dentro di me, un fuoco che si era acceso e mi faceva bruciare.
Non avevo mai provato nulla di simile in vita mia.
Nemmeno con la mia ragazza Cherryl.

Con lei era tutto diverso. Stavamo insieme da un po' di tempo, le volevo bene, ma non avevo mai provato quello stimolo forte che ti fa palpitare.
Mi piaceva, ma non mi faceva bruciare. Non avevo neanche il desiderio di fare sesso con lei.
Eppure a sedici anni, un ragazzo vorrebbe fare solo quello, dalla mattina alla sera.
A me importava solo di stare con Theo, spassarcela insieme con i videogiochi o guardare film d'azione in camera mia. Oltre che a masturbarci.

Man mano che ci pensavo, prendevo sempre più coscienza di quello che ero. E la soluzione era sempre più vicina. Ero attratto da Makerick, terribilmente attratto. E iniziavo a comprendere tutti i miei sogni bagnati e le continue erezioni mattutine. Così come capivo il motivo per cui avevo goduto durante lo stupro.

Quello che però mi aprì gli occhi definitivamente, fu la visita di Theo al carcere.
Erano passate quattro settimane dal mio arrivo a Chestertown e non avevo ancora ricevuto visite.

Quando quella domenica, gli agenti vennero a comunicarmi che c'erano ospiti per me, pensai subito ai miei genitori.
Mi sistemai i capelli meglio che potevo, non volevo farli preoccupare. Sapevo che mi avrebbero visto pieno di lividi e con un occhio pesto e quel piccolo gesto, voleva forse nascondere la paura della loro reazione. Già immaginavo mia madre scoppiare a piangere non appena mi avesse visto e in cuor mio, la cosa mi faceva stare male. Se prima di entrare non la sopportavo, in quel momento invece, mi mancava terribilmente. E vederla soffrire era l'ultima cosa che volevo.


Ma non furono i miei genitori a presentarsi in prigione. Fu il mio amico. E non fu mia madre a scoppiare a piangere. Fu Theo.
Non appena mi presentai nella sala visite.
Cercai di avvicinarmi a lui nascondendo la mia temporanea zoppia, e appena gli fui davanti, sorrisi per fargli capire che stavo bene, che era tutto ok.

Ma era una recita. E il mio miglior amico mi conosceva troppo bene per farsi fregare.
Lo guardavo, mentre calde lacrime avevano iniziato a rigare il suo viso. E iniziai a piangere anche io.
Deglutii, cercando di ingoiare il groppo che si era formato in gola e poi, con fatica, lo salutai.

- Ciao. - dissi.
- Ciao. - rispose.
Restammo a guardarci alcuni istanti. Piangendo.
Poi mi abbracciò. Forte. Mi tenne stretto tra le sue braccia muscolose. E crollai. Cominciando a singhiozzare, con la testa appoggiata alla sua spalla.
Mi lascia toccare, accarezzare dalle sue mani che perlustravano tutto il mio corpo, passando dal viso al petto per poi tornare sulle mie guance bagnate.

Erano le braccia più calde del mondo e mi lasciai cullare dal suo amore.
Ci accomodammo dopo un po', uno di fronte all'altro, in quei tavolini da pic-nic in metallo, presenti anche nel cortile del carcere.
Mi prese la mano e la strinse forte tra le sue. La lasciò solo quando se ne andò, mezz'ora dopo.

- Chi ti ha fatto del male? - fu la prima cosa che disse. Era inutile chiedermi come stavo, mi si leggeva in faccia, in tutto il corpo.
- Nessuno, sono solo caduto dalle scale. - mentii.
- Perché mi fai questo? -
Già Ryk, perché stai raccontando una balla al tuo miglior amico, pensai.
Deglutii e girai il viso verso il muro. Non riuscivo a guardarlo in faccia, non riuscivo a mentirgli mentre mi entrava dentro l'anima con i suoi occhi profondi.
- Guardami! - mi disse.
Mi girai con il corpo verso la mia sinistra. Non potevo farlo.
- Ryk, guardami! - ripeté.

Mi asciugai una lacrima solitaria con il polso e poi mi voltai verso di lui. Sorrisi debolmente.
- Veramente! Sono caduto dalle scale. - dissi, cercando di essere più convincente.
- Menti! - disse deciso.
- Non... Non posso! Scusami, ma non posso. - risposi, capendo che era inutile continuare a fingere.
- Ryk... Ci siamo sempre detti tutto. Non puoi farmi questo. Chi ti ha ridotto così? -
- Nessuno! È stato solo un incidente. - provai nuovamente a convincerlo.
- Solo un incidente stradale può ridurti in questo stato e non credo tu abbia guidato nell'ultimo mese. -
- Theo, ti prego non insistere. -
- È stata solo una persona a ridurti in questo stato? -
Mi morsi il labbro inferiore, scossi leggermente la testa in segno di diniego. Ricominciai a piangere sommessamente.
- Devi dirmi chi è stato, dobbiamo fermarli, ma non posso fare niente se non mi dici chi è stato. -
- Non devi fare niente. Posso cavarmela da solo. -
- Già, lo vedo. - rispose ironicamente. - Ti prego, aiutami ad aiutarti, dimmi chi ti ha ridotto così, lo fermeremo. Lì fermeremo! -
- Non posso. Ti prego non insistere, se mi vuoi bene, anche solo un briciolo di quello che te ne voglio io, lascia perdere. Non può andare peggio, può solo migliorare. - sorrisi cercando di sollevarlo.
Mi strinse la mano più forte e annuì. Non era convinto delle mie parole, ma sapeva che non avrei ceduto.

- Quante volte ti hanno picchiato? - domando.
- Una. - risposi. - Ma non succederà più! - un'altra balla.
Scosse la testa, sapeva che era una menzogna.
- È successo altro? -
Compresi subito dove voleva andare a parare.
- No! - risposi deciso. Sperai con tutto il mio cuore che ci credesse.
Restò a fissarmi negli occhi, studiando il mio volto alla ricerca di un qualcosa che gli facesse capire se dicevo o meno la verità.
- Stai mentendo di nuovo. - disse sussurrando, gli occhi lucidi.
Mi leggeva dentro. Tremavo, il cuore impazzito nel mio petto.
- No! - scossi la testa.
- Cosa ti hanno fatto? - Mise anche l'altra mano sopra le mie.
- Niente! È tutto ok. -
- Non devi vergognarti di dirmi tutto, Ryk. Lo sai che ci sono sempre per te. -
Annuii, mordendomi il labbro.
- Ti va di parlarne? -
Scossi la testa. No, non ne volevo parlare.

Come potevo confidare a Theo che ero stato stuprato, preso a turno da quattro persone, umiliato, sporcato dai loro liquidi, sperma e urina. Che ancora sanguinavo dal mio sedere, dove era infilato un assorbente per evitare di sporcare mutande e pantaloni. Che cagare era un dolore tremendo in quei giorni. Che la notte venivo svegliato dagli incubi, dai ricordi di quello che mi avevano fatto.

E che nonostante tutto quel dolore, essere scopato mi aveva fatto godere. Che mi era piaciuto. E che forse stavo diventando gay. O probabilmente, lo ero sempre stato.

No, non potevo dargli tutto quel dolore. L'avrei tenuto per me. In fondo era stato lui a dirmi di essere forte. E stavo cercando di esserlo. Con tutto me stesso.

Cercai di cambiare discorso.
- Il mio compagno di cella è un ragazzo simpatico. Dovresti conoscerlo. Si chiama Patrick. È uno scozzese con i capelli rossi. Ti piacerebbe. È matto come Drew, solo più intelligente. - dissi.
Annuì con il capo, ma non mi ascoltava.
- Sono sicuro sia così. - rispose, con la mente persa in altri pensieri.
- E ho fatto amicizia anche con altri tre ragazzi. - continuai.
Annuì nuovamente. Ma non disse niente.
- Ma non ti preoccupare, rimani sempre il mio migliore amico. Quello sarà per sempre. Siamo "fratelli di sangue", giusto? - chiesi, quasi più per convincere me stesso.
- Si. - rispose. - Fratelli di sangue. -
Ma non era più lì con me, la sua testa vagava in altre direzioni.

Restammo a parlare per un po'. Mi raccontò quello che stava succedendo fuori, ma era spento, non c'era più entusiasmo nella sua voce.
Cercai di partecipare attivamente ai suoi racconti, mostrandomi interessato alle sue avventure, facendo domande e ridendo degli episodi più curiosi.
Avevo messo una maschera per proteggermi, ma Theo mi vedeva dentro, non c'era maschera che potesse nascondermi ai suoi occhi.

Quando l'agente di custodia venne ad avvisarci che la visita era finita, la distanza tra di noi era diventata enorme. Lui aveva provato ad avvicinarsi, ma io non glielo avevo permesso.
Come quando corri in spiaggia verso una persona che vedi da lontano. Ti muovi verso di lui, agitando le braccia e urlando il suo nome. Vedi l'altra persona avvicinarsi a te e pensi che tra poco potrai abbracciarla. Invece non appena arrivate uno davanti all'altro, questi prosegue per la sua strada, opposta alla tua. E tu rimani lì, fermo, stupito del fatto che non si sia fermato.

- Passerai a trovarmi nuovamente? - domandai.
- Certo. Non posso farne a meno. -
Sorrisi. In fondo anche se l'avevo evitato, proseguendo il mio cammino in spiaggia, facendo finta di non vederlo, non potevo fare a meno di lui. E Theo l'aveva capito.
Ci abbracciammo, poi prese le mie spalle e mi guardò negli occhi.
- Devi essere forte. Lo sarò anche io per te. Potrai sempre contare su di me. Sempre! -
Sorrisi e non dissi niente. Il magone stava tornando prepotente.
- Ti amo. - mi disse.
E io spalancai la bocca in un sorriso, mostrando la mia dentatura. Lo sapevo che mi amava. Come si può amare un fratello.
- Anche io ti amo. - risposi.
E in quelle parole, trovai la consapevolezza di quello che ero, di quello che ero sempre stato.

Mentre lo vedevo andare via, compresi che avevo sempre avuto una cotta per il mio miglior amico. Che se gli ero stato vicino tutti quegli anni, non era altro che per quel motivo.

Tornato in cella, realizzai finalmente di essere gay. Avevo amato Theo, fin da quando l'avevo visto il primo giorno. Fin da quando mi aveva attirato a sé come una calamita.
Avevo sempre giustificato il tutto con l'idea che fossimo "fratelli di sangue". Invece ero semplicemente innamorato di lui. E lo ero sempre stato.

Realizzai che masturbarci insieme mi piaceva, perché avevo la possibilità di guardarlo, toccarlo anche solo con il pensiero. Che l'idea di fare sesso a quattro era solo un palliativo. Un modo per fare l'amore con lui. Perché era quello che avrei voluto fare. Ma non con le ragazze di mezzo. Solo io e lui.

Ero stato innamorato del mio miglior amico per anni. E me ne resi conto solo in quel momento.
Così come compresi di aver preso una cotta enorme per Maverick. Che avrei voluto fare l'amore con lui. Perché i sogni delle volte, sono solo sogni. Ma altre volte, sono la proiezione di quello che vorremmo fare, ma non abbiamo il coraggio di ammetterlo a noi stessi, quando siamo svegli.

Volevo conoscere Maverick. Sapere tutto di lui. Del perché fosse lì dentro, del perché abusava dei ragazzini, facendoselo succhiare sotto la doccia. Era gay? Forse sì, forse no. Ma volevo saperlo. Dovevo scoprirlo.
Perché non avrei trovato pace, finché non avessi scoperto cosa c'era dietro quello sguardo di ghiaccio.

Ma prima dovevo capire me stesso. Conoscere la parte di me, che era rimasta sotto la sabbia per tutto quel tempo.
Ringraziai mentalmente Theo. Gli amici sono così. Ti fanno aprire gli occhi.
Anche in maniera inconsapevole.
Gli occhi sono lo specchio dell'anima. E specchiandomi nei suoi occhi, avevo guardato dentro di me. Come non avevo mai fatto in vita mia.

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