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Le ultime parole di mia madre prima che mi portassero via furono - Andrà tutto bene, figliolo. -

Avrei voluto dirle di farsi fottere, ma le guardie non me ne diedero il tempo. Nel giro di qualche secondo mi avevano strappato dal suo abbraccio e mi avevano trascinato nel corridoio che portava alle celle di attesa.

Da dietro le mie spalle, la sentivo piangere e singhiozzare mentre trascinavo i miei piedi sull'inoleum del tribunale. Il suo pianto era talmente acuto e fastidioso che mi stava trapanando il cervello. Avrei voluto girarmi per tornare indietro e prenderla a pugni, ma non lo feci, le guardie mi impedivano qualunque tipo di movimento.

Stavo per essere trasferito nel carcere minorile di Chestertown, il Rooswelt Center. Era lì che avrei passato i successivi 5 anni della mia vita. Rapina a mano armata e tentata aggressione.

Potevo essere d'accordo con il giudice sulla rapina a mano armata, ma la tentata aggressione era una cazzata colossale. Non voglio dire che ero innocente; molti, quando commettono un crimine e vengono beccati con le mani nella marmellata, negano anche davanti all'evidenza. Io no. Io ero colpevole fino in fondo per quella tentata rapina. Ma non avevo nessuna intenzione di aggredire la commessa, una signora in sovrappeso di circa quarant'anni, con le caviglie gonfie come due meloni.

L'idea era quella di entrare in quel market, farmi dare i soldi e andarmene in breve tempo. Non potevo certo immaginare che la stronza reagisse e tentasse la fuga. Da fuori sembrava così innocente e remissiva.
Il piano era un po' improvvisato, lo ammetto, ma non si può mica pretendere da un sedicenne, un piano perfetto alla "ocean's eleven". Quelle rapine avvengono solo nei film, nella vita vera, non succede mai che il ladro la faccia franca. Almeno a me era successo così.

Avevo girato per le corsie del piccolo negozio per mezz'ora, fingendo di dover acquistare qualcosa. Una volta sicuro di essere da solo, mi ero avvicinato alla cassa, avevo estratto il coltello che avevo preso in casa e avevo minacciato la commessa di darmi il denaro. Sarebbe tutto andato liscio, se la donna non avesse fatto l'eroina.

Si era alzata di scatto ed era corsa fuori dal bancone verso l'uscita sul retro. Avrei potuto prendere i soldi dalla cassa e fuggire, ma preso dal panico le ero corso dietro e l'avevo afferrata alla caviglia (ecco perché mi ricordo che erano grosse come meloni) facendola cadere. Le ero saltato addosso e nella foga di bloccarla, le avevo strappato la camicetta con la targhetta del nome appuntata sul seno cadente. Si chiamava Rose Pendelton, il cognome lo scoprii in tribunale.

Non avevo nessuna intenzione di aggredirla, ma solo legarla da qualche parte e finire il mio lavoro. Invece a bloccarmi erano stati due agenti della polizia, intervenuti grazie all'allarme premuto sotto il bancone. Non immaginavo che un negozio così piccolo fosse collegato alla centrale di polizia.

Ero rimasto dentro qualche giorno, poi mi avevano rimandato a casa con un braccialetto legato alla caviglia in attesa del processo, questo grazie alla mia fedina penale pulita e alla cauzione di 250 mila dollari sborsati dai miei genitori.

Eravamo una famiglia borghese, o meglio, lo siamo ancora. Mio padre si chiama Andrew Tompson, fa il medico presso il Johns Hopkins Hospital di Baltimora, la città in cui vivevo prima di essere rinchiuso in carcere. E' un medico chirurgo, cardiologo per la precisione. Un uomo deciso, dal carattere forte e testardo come un mulo. Alto quasi due metri, fisico asciutto e un portamento fiero che lo fa assomigliare a un politico durante una manifestazione di piazza, davanti a centinaia di persone.

Con la politica non aveva niente a che fare; se la cosa può interessarvi, so per certo che è sempre stato un democratico e alle ultime elezioni ha votato per Obama. Diceva che ci voleva una persona come lui per far capire al mondo che negli Stati Uniti c'era voglia di cambiamento e solo un uomo di colore poteva farlo. Chissà cosa pensa ora che la candidata dei democratici è Hillary Clinton; non ho il coraggio di domandarglielo.

A casa non c'era praticamente mai, ma la sua parola era legge. Era tanto risoluto nei miei confronti quanto dolce con mia madre. Credo che proprio questo lato del suo carattere, sia stato quello che l'ha fatta innamorare di lui. Da fuori poteva sembrare un uomo duro, ma dentro era un pezzo di pane.
Ex Marines, portava in casa tutta la disciplina militare che aveva acquisito nei suoi trascorsi al servizio del paese.

Mi voleva un gran bene, e credo me ne voglia tutt'ora, nonostante quello che ho combinato. Non lo vedo più molto spesso.
Da piccolo mi portava a giocare a basket e dopo le partite o gli allenamenti, spesso ci fermavano da Olly's, una tavola calda in Bakery Street dove ordinavamo Hamburger e patatine, io una Coca-cola e lui una birra.

Se era contento di come avevo giocato, mi faceva bere un sorso della sua birra, se invece avevo fatto schifo, non diceva una parola. Non mi ha mai mortificato però. Credo volesse mantenere le distanze. Dovevo farcela da solo, sbagliare e riprovare. Rialzarsi dopo una sconfitta era compito mio, non suo; lui voleva solo starmi accanto, vegliare sull'unico figlio che aveva.
Ma lo vedevo quanto era felice quando giocavo bene; gli brillavano gli occhi, giocherellava con le chiavi della macchina mentre mi osservava mangiare il mio hamburger, senza quasi toccare il suo cibo. Poi mi faceva bere un sorso della sua birra, il sorriso sornione di chi è soddisfatto, ma non lo vuole far vedere. Troppo rigido e disciplinato per mostrare anche solo un briciolo di tenerezza.

- Questa è per i veri uomini. - mi diceva annuendo con la testa e io prendevo soddisfatto il suo boccale, con le due mani, attento a non farlo cadere e felice di poter fare le cose dei grandi, come bere alcolici.

Papà era il mio eroe quando ero piccolo: il porto sicuro, quando mi sbucciavo un ginocchio cadendo dalla bicicletta; il mio appiglio, quando avevo gli incubi la notte; il mio miglior amico, quando gli raccontavo di un'avventura particolarmente coinvolgente che mi era capitata con i miei amici; il mio consigliere, quando giocavo a basket.

Credo che il papà sia il primo eroe di ogni bambino, così come diventa il primo amore delle figlie, prima che scoprano veramente l'altro sesso, iniziando a frequentare i ragazzi.

Andrew era per me, allo stesso tempo, il mio eroe e il mio primo amore, credo. Non esisteva nessun altro se ero con lui; la mamma diceva di essere gelosa, ma io sapevo che scherzava. Lo si leggeva nei suoi occhi che era innamorata dei suoi due uomini di casa e che era contenta del nostro legame. Una madre sa sempre quando deve farsi da parte per non intromettersi e lei era così, riguardo il rapporto tra me e mio padre: una presenza costante e discreta.
E sapeva sempre come mettere una pezza, se c'erano delle mancanze. Ecco, se proprio mio padre aveva una mancanza, era quella di non lasciarsi mai andare, mai un bacio, mai una carezza. Ora è cambiato, È meno rigido e più sereno. Credo sia stanco, la vita usura le persone, ne smussa il carattere e ne cambia il fisico. È ingrassato papà, ma il portamento fiero, quello è rimasto.

Alle coccole ci pensava mamma e forse, è anche per questo che in quel periodo, non la sopportavo.
Volevo bene anche a lei, ma era diverso. Con mio papà c'era qualcosa che era difficile da spiegare. Intesa, forse la parola giusta è proprio quella. Per questo dopo quello che avevo combinato, era cambiato. Credo l'avessi deluso. Non ha mai detto niente, ma lo vedevo quando passava a trovarmi. Non c'era più quella luce nei suoi occhi. Erano spenti, senza scintilla, come quando giocavo male la mia partita di basket.

Veniva comunque a trovarmi, anche se non spesso, credo gli facesse male vedermi in tuta arancione. E quando veniva non rimaneva mai molto, giusto il tempo di assicurarsi che stessi bene e che mangiassi abbastanza da non dimagrire troppo. Non ha mai mollato, e io di questo gliene sarò eternamente grato. Delle volte il suo carattere testardo serviva a qualcosa.

Mia madre mi raccontò che per conquistarla fece di tutto. Una volta si presentò sotto la finestra della sua camera, con alcuni amici dell'università con cui aveva creato un gruppo rock, gli "Sleepers". Si misero a suonare nel cuore della notte, svegliando tutto il quartiere universitario dove era alloggiata mia mamma; un vero controsenso, se si considera il nome che avevano dato al loro gruppo. Suonarono per mezz'ora canzoni d'amore strappalacrime, mentre mia mamma guardava esterrefatta alla finestra insieme alle sue amiche, che non la smettevano un secondo di fare strilletti e battere le mani. Alla fine arrivarono due pattuglie della polizia a far sbaraccare il concerto improvvisato.

Gli "Sleepers" passarono la notte in carcere, mentre mia madre passò tutta la sera nella piccola sala d'aspetto della centrale per attendere che uscissero. Se la cavarono con poco, giusto una strigliata e la minaccia che se ci avessero riprovato, gli agenti sarebbero stati ben contenti di portarli direttamente davanti al giudice.
Non me lo immagino mio padre a fare una cosa del genere, eppure mia madre continua a ripetermi che è tutto vero.

Quell'episodio fece scattare il "click" dell'amore nel cervello di mia madre. Si fidanzarono mentre entrambi frequentavano l'università e appena finito il college si sposarono con il benestare della famiglia di mia mamma. I genitori di papà erano morti quando lui era piccolo ed era cresciuto con lo zio Mark e la zia Jane, che adoravano il viso dolce e gentile della mamma. Mio nonno invece, era uno all'antica e mio padre fu costretto a chiedere il suo permesso di sposare la mamma, durante una cena formale organizzata apposta.

Da quel che mi ha sempre raccontato mia madre, la cena era stata un vero supplizio per lei, agitata e preoccupata che il nonno non desse il proprio benestare. Qualunque ragazzo aveva frequentato prima di conoscere Andrew, non avrebbe mai superato il giudizio del nonno, ma mio padre era troppo testardo per mollare; così alla cena restarono tutta la sera a parlare e bere, bere e parlare, senza mai accennare il vero motivo per cui si trovassero lì insieme.

Mia nonna li trovò il mattino seguente, entrambi addormentati sul tavolino del salotto, i bicchieri ancora mezzi pieni di bourbon e le bottiglie mezze vuote. Non fecero alcun cenno alla notte appena passata, e anche nel corso degli anni, nessuno dei due ha mai tirato fuori l'episodio della cena. Ma quando al mattino mio padre si avvicinò alla porta per andare via, mio nonno lo scrutò con i suoi occhi, piccoli e penetranti, socchiusi come due fessure; gli strinse forte la mano e pronunciò solo due parole:

- Sta bene! -

Mio padre aveva vinto, aveva tenuto testa al nonno e si era conquistato la sua approvazione.
I miei si sposarono appena mio padre finì l'università e trovò un lavoro, otto mesi dopo. Così mia madre divenne Ann Marie Tompson, moglie del chirurgo Andrew e futura madre di Ryker Tompson, il sottoscritto.

Ann Marie Colabello, ora Tompson è mia madre. Chiare origini italiane, che ho ereditato nei lineamenti e nei colori caucasici di mio nonno Giuseppe, per tutti Joseph.

Il nonno venne a stare in America appena prima che scoppiasse la seconda guerra mondiale. In Italia il clima non era dei migliori, Mussolini e il fascismo stavano prendendo il potere, così Giuseppe decise di prendere sua moglie, Antonietta Arcuri e di partire da uno sperduto paesino della Calabria per cercare fortuna nel nuovo mondo.

Mio nonno è sempre stato uno dal carattere burbero e risoluto. Era lui che comandava in casa, e quando parlava, poco a dire il vero, non volava una mosca. Ricordo ancora quando da piccolo, forse all'età di 5 o 6 anni, durante una cena interruppi un suo discorso, per lamentarmi con mia mamma sul fatto che non volevo mangiare la verdura (credo fossero spinaci, li ho sempre odiati). Mio nonno smise di parlare, si girò verso di me e disse in tono secco e duro:

- Fuori! In camera tua! Stasera niente cena! -

Rimasi così spaventato che mi si gonfiarono gli occhi di lacrime e corsi al piano superiore.

I miei genitori, non dissero niente, mia madre troppo abituata durante la vita a non contraddire il nonno, mio padre troppo rispettoso nei suoi confronti per obiettare. Si somigliavano papà e nonno. Forse è per questo che non li vidi mai litigare. Avevano creato un loro rapporto unico, speciale, fatto di frasi non dette, di intese di sguardi. Il rispetto che avevano sempre avuto, uno nei confronti dell'altro, non venne mai meno, fino alla fine dei giorni di mio nonno, un anno fa circa.
Penso che mio padre lo vedesse come il genitore che non ha mai avuto, una figura di riferimento che stimava e apprezzava.

Mia mamma era l'angolo del focolare, lo è tutt'ora. Una donna dalla mente aperta, lucida. Mai una parola fuori posto, mai un gesto fuori dal comune. La classica donna che vive per la famiglia, credo che il suo carattere rispecchi molto la mentalità del sud Italia. Donne forti, che stanno al fianco del proprio marito per tutta la vita, una presenza costante e mai invadente. Qualcuno potrebbe definirle donne remissive, ma sono tutt'altro. Nel loro microcosmo, sono loro a far andare avanti il mondo, che è la famiglia.
Lavorava presso il museo delle arti di Baltimora, si occupava di mostre, curava l'esposizione di pittori e scultori.
Ora lavora in biblioteca. Dice che è meno stressante del museo. E io gli credo. In fondo il lavoro più duro dentro una biblioteca, deve essere quello di consegnare un libro a un avventore. Non deve esserci chissà quale stress.

I giorni chiuso in casa dopo l'arresto, li ricordo piuttosto duri.
Non era tanto il fatto di non poter uscire che mi disturbava. Era il clima che c'era, il silenzio che riempiva le stanze. Un silenzio che veniva rotto ogni tanto dai pianti di mia madre e dalla voce baritonale di mio padre, che provava a consolarla.

- Dove abbiamo sbagliato? - si domandava lei, ricevendo parole di conforto da papà.
Ma non avevano sbagliato nulla. Ero io a essere sbagliato.

Non ricordo nemmeno il motivo per cui feci quella rapina. Potrebbe esser stata la noia. Ma la verità era che mi sentivo sbagliato. La persona sbagliata, nel momento sbagliato, nel posto sbagliato.
Eppure fino a quel momento non avevo mai dato problemi di comportamento. Avevo i miei amici, andavo bene a scuola. Avevo anche una fidanzatina, Cherryl, alla quale giuravo amore eterno.
Ma la vita è come una scatola di cioccolatini, diceva Tom Hanks nel film "Forrest Gump":

- Non sai mai quello che ti capita! -

Il giorno del processo era stato tutto così strano. Il clima torrido dell'estate ci faceva sudare anche in aula, nonostante il climatizzatore acceso.
Ero vestito in giacca e cravatta. Mamma aveva comprato l'abito apposta per l'occasione. Dovevo sembrare un bravo ragazzino consapevole di aver commesso un errore. Pronto a fare mea culpa e a prendermi le mie responsabilità.

La sentenza era arrivata nel giro di poche ore.
Avevano testimoniato i due agenti della polizia che mi avevano preso e poi era stato il turno della commessa, "Rose Pendelton con le caviglie a melone".
Io non ero salito a testimoniare. L'avvocato sosteneva che sarebbe stato controproducente.
Alla fine mi ero beccato 5 anni in una struttura statale di correzione. Un carcere minorile in parole povere.

- Ci è andata di lusso. - aveva detto subito dopo la sentenza pronunciata dal giudice Robinson, il nostro avvocato. - Il giudice è stato magnanimo, ha riconosciuto che si è trattato solo di una bravata, vedrai che se ti comporterai bene, in 2 anni potremo richiedere la libertà condizionale. - aveva proseguito.
Io di lusso vedevo solo la sua cravatta di Valentino e il suo completo di Armani, stirato impeccabilmente, probabilmente da una donna pagata apposta.
Oltre ai 27 mila dollari, che i miei avevano dovuto versare sul suo conto, per prendere le mie difese.

Game over! Fine dei giochi!
Il giovane Ryker Tompson era colpevole. Aprite le porte, un nuovo giovane difettato, entrerà a far parte di una nuova famiglia.
La famiglia carceraria!

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