CAPITOLO 24
Mi risvegliai con un dolore pulsante al collo, alla testa e ad ogni vertebra. Mi sentivo gonfia e tremavo terribilmente. Avevo la lingua impiastricciata con la saliva e non riuscivo a spiccicare parola. Le palpebre non volevano aprirsi, ma le costrinsi con tutta la mia buona volontà.
Mi ci volle un po' per abituarmi alla luce accecante che mi annebbiava i sensi ma, non appena i miei occhi si furono abituati, riconobbi il volto di una persona che mi guardava da dietro un tavolo che prima non c'era. Per poco non sobbalzai per la sorpresa.
Mi domandai per quanto avessi dormito, ma non volevo davvero una risposta.
«Hai dormito per tre giorni, se te lo stai chiedendo.»
Tre giorni?! Che cosa mi avevano fatto questi mostri?!
Siccome non rispondevo, riprese a parlare: «In realtà mi ha sorpreso molto questa cosa. La droga nella siringa avrebbe dovuto stenderti per massimo un giorno, ma evidentemente a te ha fatto più effetto.»
Droga?! Questi tizi mi avevano drogata?!
Feci una faccia scandalizzata e arrabbiata. Ancora non riuscivo a parlare o a muovermi ma, non appena ne fossi stata in grado, avrei squartato questo tizio.
Fece una risatina sommessa. «So che cosa stai pensando. Non potrai squartarmi vivo perché non ne avrai la possibilità. So anche che non puoi ancora parlare, ma non preoccuparti. L'effetto del siero svanirà fra qualche minuto, anche se continuerai a sentirti debole e lenta nei movimenti. Questo effetto collaterale dovrebbe andare via in un paio di giorni.»
Ero disgustata. Avrei tanto voluto sputargli in faccia e vedere la sua reazione. Naturalmente non riuscivo ad aprire la mascella per farlo.
Restammo in silenzio mentre l'uomo scorreva con attenzione i fogli che aveva davanti.
Dopo circa dieci minuti, cominciai a sentirmi decisamente meglio: riuscivo ad aprire la bocca, il dolore al collo sembrava quasi del tutto scomparso, la mente non era più così tanto annebbiata e non tremavo più. Mi sentivo ancora un po' gonfia ed ero molto rallentata.
Rincuorata che almeno questo individuo non mi avesse mentito, aprii la bocca e feci per parlare. Al posto delle parole, mi uscii un verso strozzato.
«Vedo che stai cominciando a parlare.»
Con molta fatica, misi insieme alcune lettere e per mia grande sorpresa riuscii a fare una frase coerente: «Chi siete?»
«Oh, finalmente! Credevo che gli effetti su di te fossero irreversibili!» si schiarii la voce e io avevo voglia di vomitare.
«Sono il dottor Wilson che si occupa degli esperimenti sui pazienti nelle prigioni reali.»
Ingoiai un grumo di saliva. «Non... capisco... cosa ci faccia io qui.»
«Tu sei, signorina Allen, una mia sottoposta. Ho ideato personalmente questo siero che blocca momentaneamente alcune facoltà del cervello.»
Ero stremata e avevo bisogno soltanto di un po' d'acqua. Non capivo perché stessero succedendo tutte queste cose a me. Non ero neanche una ribelle! E in ogni caso, questi esperimenti non li avrebbero potuti fare a nessuno senza autorizzazioni da parte del paziente.
«Non mi avevate detto niente.»
Man mano che parlavo, la rigidità che avevo trovato all'inizio stava scomparendo.
«Non ce n'era bisogno. Tu sei stata selezionata per gli esperimenti perché sei una ribelle.»
«Non lo sono! Non potete farmi niente senza che io acconsenta!»
«E invece possiamo. Le leggi sono cambiate dopo i primi attentati e adesso i prigionieri accusati di tradimento sono ecco... sacrificabili per gli esperimenti che porteranno una svolta nell'ambito medico.»
«È una barbaria! Siete tutti pazzi!»
«Seguo solo gli ordini, signorina. Dovresti prendertela con le leggi, non con me.»
Lo guardai con disprezzo.
«E comunque i miei esperimenti sono assolutamente sicuri. Non causeranno danni irreversibili a nessuno.»
«Prima avevate detto che non eravate sicuro che potessi parlare.»
«Ma adesso parli. Non è successo niente.»
Ero orripilata. Come potevano fare questi esperimenti sulle persone? Alcuni di loro erano terroristi, ma non era giusto comunque! Tutto questo andava contro la morale!
«Non sono una terrorista e non lavoro per nessuno. Sono qui soltanto per un equivoco.»
Fece un sorriso sghembo. «Qui sulla mia cartella c'è scritto che tu sei una ribelle che non vuole ammettere le sue colpe.»
Strinsi i pugni così forte che le nocche mi divennero bianche.
«Che cosa mi farete?»
«Per adesso continueremo i test e poi ci sarà un processo che decreterà definitivamente se tu sei o no una ribelle.»
«E se non lo fossi?»
«Verrai rilasciata e ti verranno risarciti i danni con una bella somma di denaro.»
Ero così disgustata che non riuscivo a guardarlo in faccia senza vomitare. Il principe lo sapeva di queste barbarie?
«E se fossi decretata colpevole?»
«A quel punto le strade sarebbero due. O saresti condannata a morte oppure esiliata. Questi esperimenti vengono fatti solamente selezionando i pazienti. Non li facciamo a tutti.»
E menomale.
«Ora che succederà?»
In risposta, il tizio si alzò, rivelando una statura molto più alta di quella che mi aspettavo e un corpo molto più robusto. «Adesso ti inietterò questa soluzione che ti aiuterà a dormire.»
«Che cosa c'è lì dentro?!» cercai di allontanarmi con tutta la sedia.
«Non ti preoccupare. Non ti farò del male.»
L'uomo si chinò su di me così tanto che sentii il suo fiato caldo sul collo. Urlai, mi dimenai, ma non riuscivo a liberarmi dalle catene. Come avrei fatto adesso? Cosa mi sarebbe successo?
«Buonanotte, signorina.»
Chiusi gli occhi, aspettando di sprofondare nelle tenebre, ma invece sentii delle voci agitate nel corridoio.
Il medico si allontanò quando la porta si spalancò di botto.
«Non potete stare qui, Altezza!» disse una donna fuori dalla porta.
Non riuscivo a vedere quasi niente. Davvero il principe era qui?
Alcuni uomini gli sbarrarono la strada, ma lui riuscii a mandarli al tappeto subito. Entrò come una furia dentro la stanza e prese per il colletto il cosiddetto medico e lo sbatacchiò al muro.
«Vostra Altezza...» tossì.
«Che cosa state facendo, dottore?!»
«Se prima poteste lasciarmi andare.»
«Certamente» lo lasciò cadere per terra e gli dette un pugno che lo fece svenire.
Man mano che si avvicinava potevo distinguere i tratti inconfondibili di Theodore. Aveva i capelli spettinati ed era preoccupato ma anche sollevato. Occhiaie profonde gli solcavano il viso e mi ricordai che erano tre giorni che non mi facevo sentire. Di sicuro era quasi morto di paura!
Lo avrei voluto abbracciare per rassicurarlo e dirgli che era solo grazie a lui se stavo bene, ma sapevo che non potevo farlo senza compromettere la mia identità.
Mi fece un sorriso e mi guardò attentamente.
Mi morsi un labbro. Non è che mi aveva riconosciuta?
Abbassai lo sguardo cercando di nascondere il viso e allora lui si inginocchiò davanti a me e si mise a slegare le corde alle caviglie.
Non appena passò ai polsi, iniziò a parlare: «State bene, signorina?»
Feci un respiro enorme. Non mi aveva riconosciuta, dopotutto.
«S-sì, sto bene.»
Finalmente potevo muovermi! I polsi e le caviglie mi facevano malissimo, ma almeno non erano più legati.
Theodore mi aiutò ad alzarmi, ma le gambe mi tremavano e non riuscivano a sostenere il mio peso. Per fortuna il principe mi tenne stretta senza farmi cadere.
La testa mi girava e avevo tutta la gola secca. La vista mi si appannò e persi l'equilibrio. A quel punto, il principe mi prese in braccio e mi portò fuori dalle segrete.
...
Avevo caldo, sudavo, ma se mi fossi scoperta avrei avuto freddo e il sudore mi si sarebbe appiccicato alla pelle, causandomi ancora più freddo. Tremavo e tutto il corpo pulsava di dolore. Le palpebre erano pesanti ma si aprirono comunque. Avevo paura di essere ancora rinchiusa nella cella senza cibo né acqua oppure in quella stanza dalla luce accecante con quel dottore che mi faceva test su test. Tuttavia, non appena la vista si abituò alla luce, mi resi conto che non mi trovavo né in cella né nella stanza. Ero in una camera enorme, su un letto morbidissimo. Mi guardai intorno, riconoscendo le pareti e vedendo le mie cose sui mobili. Ero nella stanza del principe che, come bodyguard, usavo anche io.
Mi sedetti sul letto ancora frastornata. La testa mi pulsava in un punto preciso. Controllai e con le dita sentii un cerotto che mi copriva metà testa.
Accanto a me c'era il principe profondamente addormentato su una sedia.
Teneva il gomito sul letto e con la mano sorreggeva la testa. Lo fissai per alcuni minuti e poi gli detti alcuni colpetti al braccio per svegliarlo.
«Signorina!» vedendomi sveglia, si destò e si precipitò a controllarmi.
«Buongiorno, Vostra Altezza.»
O era buonasera? Non sapevo per quanto avessi dormito.
«Come state, signorina?»
«Meglio, grazie.»
Provai ad alzarmi e a mettere i piedi a terra, ma la testa mi girava ancora troppo e avevo un po' di nausea. Ma per il resto mi sentivo davvero meglio.
«C-che cosa è successo?»
Il viso gli si indurì e la sua espressione divenne una maschera d'odio. «Quelle persone vi hanno fatto degli esperimenti non autorizzati.»
Non capivo. Il dottor Wilson aveva detto che le leggi erano cambiate.
«Ma un dottore ha detto che-» mi interruppe.
«Vi ha detto che le leggi erano cambiate e che adesso test sui prigionieri erano autorizzati?»
Accennai un sì.
«Mentiva. I miei genitori non li avrebbero mai acconsentiti, neanche sui traditori.»
A quella parola, la paura mi attanagliò. Ero accusata di tradimento ed ero scappata dalle prigioni. Cosa mi sarebbe successo?
Lui, notando il mio cambiamento sul viso, puntualizzò: «Mi dispiace per quello che hai dovuto passare. Quei falsi dottori e i loro complici sono stati arrestati e imprigionati. Andavano di stato in stato con la scusa di controllare una volta al mese la salute dei prigionieri e la condizione nelle prigioni. Invece, facevano quegli abomini.»
Questo mi rincuorò un pochino, anche se ero ancora devastata dal sapere che, se il principe non fosse intervenuto, probabilmente sarei stata a un passo dalla morte.
«Vostra Altezza... vi avranno detto che sono una ribelle.»
«Ho sentito qualcosa a proposito.»
«E allora perché mi avete salvata?»
Lui dovette pensarci un secondo. «Ho scoperto che eravate stata imprigionata dopo che Alexandra vi aveva accusata e così ho provveduto a far cadere le accuse.»
«Sapete chi sono?»
«Siete la sorella della mia guardia del corpo. Se non sbaglio vi chiamate Alisa...»
Sentendolo pronunciare il mio nome per la prima volta, non potei reprimere un sorriso. Detto da lui, il mio nome aveva un suono così vellutato e morbido.
«Esatto... Alisa Allen.»
«Ora che ci penso... sapete dove sia vostro fratello? Sono giorni che non lo vedo e l'ultima volta che è scomparso, l'ho ritrovato gravemente ferito.»
Trasalii e divenni bianca come un lenzuolo. Cosa mi sarei inventata? Dove poteva essersi cacciato Ethan mentre io ero nelle segrete?
Raccontargli la verità era impensabile. Ero da poco uscita dalle segrete e di certo non volevo ritornarci così presto!
«Lui... be'... prima di essere arrestata mi aveva detto che si sarebbe assentato per un paio di giorni a causa di un problema con... un suo amico.»
«Un suo amico?»
Perché mi guardava così?
«E perché non me lo ha detto?»
«Probabilmente lo avrà fatto, ma la comunicazione sarà andata persa oppure semplicemente si sarà scordato di avvisarvi.»
Ero veramente patetica a mentire.
Lui, però, sembrò non accorgersene. «Può darsi...»
«Comunque, mi ha anche detto che ritornerà presto.»
«Lo spero bene! Dovei punirlo per essersene andato via senza dire niente!»
Non aggiunsi nulla.
«Vi ringrazio di cuore, Altezza, per avermi aiutata.»
Allungò gli angoli della bocca e gli vidi negli occhi un velo di tristezza. «Non dovete ringraziarmi. Che cosa mi avrebbe fatto Ethan se sua sorella fosse rimasta anche solo un secondo in più lì dentro?»
«Avete paura di mio fratello?»
Adesso nella voce aveva un tono divertito. «Be' è pur sempre un campione nelle arti marziali!»
Scoppiammo tutte e due a ridere di cuore. Era la prima risata sincera che gli sentivo fare da giorni, da quando suo padre era stato avvelenato.
«Le mie ferite sono tanto gravi?» tornai seria.
«Il dottore ha detto che ti è andata bene. Il taglio alla testa non ha avuto bisogno di punti e nel giro di qualche giorno guarirà. Ha detto anche che il siero che vi hanno somministrato non era pericoloso e gli effetti nell'organismo dureranno al massimo per altri due giorni. Niente di preoccupante.»
Tirai un sospiro di sollievo. Per un secondo avevo creduto che Wilson mi avesse mentito pure su quello.
«Adesso sarà meglio che vada. È già abbastanza tardi e ho delle questioni urgenti da sbrigare. Voi riposatevi.»
«Oh no, no. Vado anch'io. Non posso rimanere nel vostro letto.»
«Certo che potete. Non vi disturberà nessuno e non appena vi sentirete meglio, ve ne potrete andare.»
«Non sarà necessario, davvero...»
«Insisto.»
Non avevo per niente voglia di rimanere nel letto del principe, ma non potevo neanche reclinare la sua offerta.
Di malavoglia acconsentii.
«Grandioso. Allora vado.»
«Aspettate!»
Si girò a guardarmi incuriosito.
«Mi sono scordata di chiedervi per quanto tempo ho dormito.»
«Per un giorno circa. Nel frattempo, vi ho fatta bere e tra poco passerà qualcuno a portarvi da mangiare.»
«Vi ringrazio, Altezza. Avete fatto molto più di quello che dovevate.»
Mi sorrise e senza aggiungere altro, uscii fuori dalla porta, lasciandomi da sola.
Ora che ci pensavo avevo una fame enorme. Erano giorni che non mangiavo e lo stomaco mi doleva talmente tanto che quasi non riuscivo a respirare o a parlare. Dovevo mangiare qualcosa all'istante ma non volevo rischiare che la persona incaricata di portarmi del cibo mi riconoscesse. Così, decisi di alzarmi e di sgranchirmi un po' le gambe, da troppo tempo ferme.
All'inizio non volevano saperne di mantenermi in equilibrio, ma dopo alcuni passi la cosa andò meglio e raggiunsi il bagno.
Mi feci una doccia, togliendomi di dosso tutta la sporcizia delle segrete e il ricordo di quei momenti che mi sarebbero rimasti impressi per sempre. Be'... avevo visto di peggio di un dottore pazzo che faceva esperimenti, ma il solo fatto di essermi ritrovata impotente mi devastava.
Strinsi i pugni e ripromisi a me stessa che una situazione del genere non l'avrei mai più ripetuta.
Dopo la doccia, mi districai i capelli e li raccolsi per permettere alla parrucca di coprirli. E menomale che tenevo una parrucca di riserva! Lo feci piano, in modo da non spostare il cerotto.
L'avevo messa dentro un cassetto chiusa a chiave per evitare che qualcuno potesse trovarla. Mi infilai dei vestiti comodi e le lenti a contatto. Nascosi i vestiti sporchi nel solito cassetto e poi lo chiusi a chiave. La mia trasformazione in Ethan era conclusa. Sembrava che non fossi mai stata nelle segrete, ad eccezione del colorito pallido. Ora veniva il momento di andare nelle cucine a sgraffignare qualcosa da mangiare.
...
Finalmente a pancia piena, mi diressi verso la stanza di Theodore per prendere alcune cose e poi squagliarmela per quel giorno, possibilmente senza incrociare il principe.
Non avevo voglia di dargli ulteriori spiegazioni sulla mia scomparsa. Oggi ne avevo avuta abbastanza.
Ovviamente la fortuna non era mai dalla mia parte perché incrociai Sua Altezza nel corridoio. Mi guardai intorno alla ricerca di un posto dove nascondermi, malgrado ciò, a causa dei miei movimenti rallentati, non andai lontana.
«Ethan?»
Chiusi gli occhi, inspirando a fondo. Dovevo affrontare anche questo.
«Vostra Altezza! Che piacere rivedervi! So che non vi ho avvertito, ma avevo un'ottima ragione per non farlo e-»
Interruppe la mia valanga di scuse con un tenero abbraccio. Mi avvolse con le sue braccia e mi accarezzò i capelli delicatamente, come se avesse paura di farmi male.
«Vostra Altezza! Siamo in un corridoio!»
«E quindi? Non posso abbracciare la mia guardia del corpo?»
«No... è che è un po' strano. Cioè... non che io non voglia. È solo che-»
Interruppe le parole che mi stavano uscendo come un fiume in piena con un lungo bacio. Mi lasciò senza fiato.
«Vostra Altezza!»
Arrossii. Non poteva baciarmi in mezzo a un corridoio!
«E se qualcuno ci avesse visti?»
«Hai ragione, ma non ho resistito. Sono giorni che non ti vedo e non rispondevi ai miei messaggi o telefonate. Pensavo che qualcuno ti avesse fatto del male. Ho letteralmente messo a soqquadro ogni stanza di questo enorme palazzo.»
Aveva ragione. Qualcuno mi stava davvero facendo del male ed ero stata più vicina di quanto pensasse. Questo però non glielo dissi.
Stavo per controbattere, quando mi prese dolcemente per mano e mi portò fino in camera sua. Adesso avrebbe scoperto che Alisa, cioè io, non c'era più. Pensai ad una possibile scusa da rifilargli.
Si guardò intorno come se si fosse smarrito. «Signorina?»
«Vostra Altezza... devo dirvi una cosa a proposito di mia sorella.»
Si voltò a guardarmi incrociando le braccia. «E sarebbe?»
«Lei... be'... voleva ritornare a casa dopo quello che è successo e così mi sono offerto di accompagnarla. Non volevo recarvi un ulteriore disturbo, Altezza.»
«Non sarebbe stato un disturbo aiutare tua sorella.»
«Vi devo ringraziare per quello che avete fatto per lei. Non eravate in dovere di aiutarla, eppure lo avete fatto lo stesso. Non potrò mai ripagarvi.»
«Che sciocchezze! Non voglio che mi ripaghi e poi ho voluto con tutto il cuore aiutarla.»
«Vi ringrazio moltissimo. Tutta la mia famiglia vi sarà riconoscente in eterno. Adesso se avrete bisogno di una qualsiasi cosa, non indugiate a chiedere. Cercheremo di aiutarvi in tutti i modi.»
La sua espressione si adombrò. Prima di dire questo, non avevo pensato che l'unica cosa che il principe voleva al momento fosse aiutare suo padre a guarire, ma nessuno, men che meno un membro della mia famiglia, avrebbe potuto aiutarlo.
«Grazie, ma adesso quello che voglio e che ti chiedo è di non sparire così all'improvviso.»
«Ve lo prometto» anche se non dipendeva da me.
Il suo viso ritornò felice e sorridente mentre mi prendeva di nuovo per mano e mi dava un bacio sulla fronte.
Il contatto delle sue labbra sulla mia pelle mi regalò un brivido che mi congelò tutta la schiena.
A ogni tocco che mi concedeva, ad ogni bacio, ad ogni abbraccio, non potevo evitare che una sensazione di colpevolezza mi pervadesse fin dentro l'anima, come se un macigno mi opprimesse il cuore.
Lui era stato così sincero con me per tutto questo tempo, mentre io non avevo fatto altro che mentirgli. Si era messo a nudo davanti a me ed io gli avevo nascosto una cosa così importante. A volte rimpiangevo il fatto di esserci innamorati l'uno dell'altra. Una piccolissima parte di me, che stava proprio in fondo al mio cuore, diceva che forse era meglio se per tutto questo tempo avessimo continuato a odiarci. In quel caso, non sarebbe stato più facile mentirgli?
Certe volte non sapevo per quanto tempo ancora sarei stata in grado di mantenere il segreto.
Questa consapevolezza mi accompagnava ovunque, ma sempre di più nei momenti più intimi tra me e il principe, come a ricordarmi che tutto quello che avevamo costruito era basato su una menzogna.
Mi avrebbe perdonata? Questa era la domanda che mi facevo più spesso e alla quale, purtroppo, non sapevo dare una risposta.
...
Qualche giorno dopo, io e il principe eravamo in camera e lui si stava togliendo la maglietta. Sgranai gli occhi.
«Che state facendo?!»
Mi guardò perplesso. «In che senso?»
«Vi state togliendo la maglietta!»
«Che cosa c'è che non va in questo? Non posso togliermi la maglietta per andarmi a fare una doccia?»
La sua finta ingenuità mi stava mandando il sangue al cervello. «So bene che non potete entrare in doccia vestito, ma non capisco perché dovete togliervi la maglietta qui in camera.»
«Non posso? Sono in camera mia. Pensavo che potessi togliermi i vestiti qui.»
Sapeva benissimo cosa intendessi. Voleva solo farlo dire a me.
«Ma non davanti a me!»
Curvò gli angoli della bocca in un sorrisino soddisfatto. Aveva ottenuto ciò che voleva.
«È di questo che si tratta? Non vuoi che mi io mi tolga i vestiti davanti a te?»
«Non è decoroso farlo.»
Speravo davvero che ammettesse che io avevo ragione e che se ne andasse in bagno.
Ovviamente mi illudevo e basta.
«Non vedo dove sia il problema. Siamo due uomini qui dentro. Credevo che avessi già visto un petto nudo, prima d'ora. Forse però mi sbagliavo.»
Non gliela avrei data vinta. «E invece ne ho visti tantissimi in vita mia, Altezza.»
«Per quanto sia divertente immaginarmi la scena, stento a crederti.»
«Non ho detto che voglio che voi mi crediate. Potete fare come più vi aggrada.»
«Benissimo. Allora continuerò a spogliarmi qui sopra il mio letto, ma se vuoi dimostrarmi che effettivamente stavi dicendo la verità, puoi sempre rimanere e magari condividere il momento.»
Le mie guance avvamparono talmente tanto che pensavo di bruciare viva. Davvero aveva detto questo?
«V-voi v-volete che io mi spogli insieme a voi?!»
«Non ho usato questi termini, ma il senso era questo. Dopotutto non ci sarebbe niente di male.»
Il sorriso si allargò, mostrando un briciolo di perfida aspettativa.
«Siete un mostro!» esplosi.
Alzò le sopracciglia. «Non userei questo termine per definirmi, ma sicuramente può essere.»
Infuriata con me stessa per essere rimasta ad assecondare il suo gioco perverso, mi dileguai senza salutarlo e sbattendo la porta.
Ero stata impulsiva nel gesto ma non me ne pentivo neanche un po'.
Camminai risoluta per i meandri del castello senza niente da fare. Mi affascinava rimanere a guardare i vari domestici che andavano da una parte all'altra senza fermarsi. Mi domandavo sempre come facessero a tenere il ritmo con le assurde richieste della famiglia reale.
Io non riuscivo a stare al passo con il principe, figuriamoci loro!
Mi sistemai su una poltroncina di velluto rosso estremamente morbida e confortante e chiusi gli occhi per un secondo.
«No. Aspetta. Fammi tornare nel mio ufficio e ne parliamo con calma. D'accordo. Sì... ci sono quasi.»
Aprii gli occhi di scatto. Questa voce mi ricordava tanto quella della signora Johnson. Di Patricia Johnson. Non la vedevo da tantissimo tempo.
La guardai scomparire dietro una colonna di marmo e mi affrettai a pensare alle parole che aveva detto al telefono. Non erano per niente sospette, ma il vero mistero era il suo tono di voce che sembrava spaventato e terribilmente agitato. In più mi ricordai di un episodio simile che era successo quando ero andata a cercare il fascicolo di Robinson. In quell'occasione aveva parlato dei file del concorso. Li rivoleva indietro e ancora non ne capivo il motivo. Che cosa voleva farci? A chi voleva darli? Al misterioso tizio della telefonata?
In quell'occasione non ero riuscita a scoprire niente, presa com'ero dal rintracciare Robinson, ma adesso sarei arrivata fino in fondo alla questione.
Mi affrettai a seguirla dietro la colonna e per fortuna la vidi camminare a passo spedito verso il suo ufficio.
Prima che richiudesse la porta, mi intrufolai dentro senza che mi vedesse. Mi nascosi dietro un mobile antico stracolmo di libri.
«Sono qui... Sì. Ho capito.»
E dopo una pausa che secondo me durò anche troppo: «Cosa?! Perché? So che non sono riuscita a trovare la persona che ha rubato il fascicolo di Liam Robinson, ma non potete revocarmi il ruolo! Vi sono troppo utile perché vi possiate permettere di mollarmi! Il capo... Ho capito. Va bene. Mi darete una posizione differente? Va bene. Non vi preoccupate. Questa stanza è abbastanza silenziosa e di qui non passa mai nessuno».
Di che posizione stava parlando? Perché non voleva che qualcuno potesse sentirla? Che cosa stava nascondendo?
«Sì... Ethan? Che cosa c'entra quel ragazzo? No... È tanto che non lo vedo. Non credo vi possa essere utile. Nemmeno al capo. Segue costantemente il principe e da quello che ho sentito, Sua Altezza e il signor Allen sono molto uniti. Il principe ha quasi mobilitato l'esercito per ritrovarlo.»
Perché stavano parlando di me? Che cosa volevano? Se avessero voluto usarmi per arrivare a Theodore, si sarebbero sbagliati di grosso. Non avrei mai permesso che potesse succedere qualcosa a Sua Altezza.
Adesso la signora Johnson stava bisbigliando qualcosa. Mi sporsi un po' per sentire tutta la frase, ma nel farlo urtai un libro e quello cadde per terra con un tonfo sonoro.
Chiusi gli occhi pregando che Patricia non mi avesse sentita, ma naturalmente lei aveva sentito benissimo.
«Aspettate. Ho sentito qualcosa alla libreria. Vado a vedere».
Mentre si avvicinava, il cuore mi batteva così forte nelle costole che avevo paura che potesse sentirmi.
Ad ogni passo, la mia agitazione aumentava. Avevo il tremolio nelle mani e nelle gambe. Mi appiccicai ancora di più alla parete nel tentativo di diventare invisibile.
«Cosa?! Adesso?»
Si fermò di colpo.
«Va bene. Arrivo. Datemi qualche minuto per arrivare.»
Detto ciò, si dimenticò totalmente del libro e si affrettò alla porta.
Non potevo di certo perdermi un'occasione di questo genere. Dovevo assolutamente seguirla e scoprire che cosa nascondesse.
La rincorsi fuori dal suo studio fino al di fuori del castello. Non correva, ma comunque faticavo a tenere il passo.
Stavamo per attraversare il cancello quando una figura si mise di fianco a me. Presa alla sprovvista, gli scagliai contro un pugno, ma mi fermai giusto in tempo per vedere il volto di Connor.
«Che cosa ci fai qui?!» gli dissi, ricomponendomi.
«Potrei farti la stessa domanda.»
«Sto seguendo la signora Johnson. Tu invece perché sei qui?»
L'unica cosa che mi ci voleva era una distrazione.
«Ho visto che uscivi di corsa dal castello e così ti ho seguito. Non ti facevo un investigatore. Perché stavi seguendo quella donna?»
«Perché penso che abbia informazioni sugli attentati.»
Il suo viso divenne impassibile. «Perché lo credi?»
«Ho sentito una telefonata» mentre parlavo non distoglievo l'attenzione da Patricia che intanto aveva svoltato in un vicolo stretto.
«E perché una telefonata dovrebbe farti venire questi dubbi?»
Gli raccontai brevemente il contenuto della telefonata sperando che si accontentasse e se ne andasse.
Mi piaceva la compagnia di Connor, ma adesso ero troppo impegnata per prestargli davvero attenzione.
«Capisco...» rimase in silenzio per alcuni istanti. «Lo vuoi un consiglio, Ethan?»
Lo incitai a continuare.
«Non credo che tu debba invischiarti in questa faccenda.»
Mi fermai di colpo, prestandogli tutta la mia attenzione. «Che vuoi dire?»
«So che lo stai facendo per aiutare il principe, ma secondo me non dovresti immischiarti in questioni pericolose. Ci siamo già io, Oliver e altri investigatori che cercano informazioni e sono più preparati di te.»
«Non lo sto facendo solo per Sua Altezza. Voglio aiutare Solaris acciuffando il capo di questo gruppo» il mio tono era stizzito e più acido di quanto avrei voluto.
Ecco un'altra persona che non voleva che indagassi!
«So quello che vuoi fare, ma ti dico che questo individuo, chiunque sia, è molto pericoloso e non aspetterebbe un minuto ad ucciderti qualora pensasse che sei d'intralcio.»
Connor aveva perso ogni colorito in faccia. Sembrava molto stanco.
Nella sua voce non ci lessi nessuna reale preoccupazione per me. Mi stava mettendo in guardia come se davanti a lui ci fosse chiunque. In effetti, non eravamo amici e ci consideravamo poco più che conoscenti ma comunque questo mi provocò un brivido di inquietudine.
«Questo misterioso tizio non mi fa paura e posso dirti che non mi fermerà. So che può essere pericoloso, ma ti assicuro che starò attento e che mi limiterò a cercare qualche indizio.»
Sapevamo entrambi che non era vero.
Guardandolo, vidi alcune rughe solcargli il volto e potevo assicurare che l'ultima volta che l'avevo visto, non c'erano. Mi chiesi che cosa avesse fatto in tutto quel tempo.
«Io ti ho avvertito. So che farai come ti pare ma, se avrai bisogno di aiuto, non ti vergognare a chiedermelo.»
Fece un sorriso che non arrivò agli occhi, i quali rimasero impassibili e freddi.
Mi procurò brividi che mi congelarono ogni parte del corpo; tuttavia, mi sforzai di apparire felice come se non mi fossi accorta di niente.
«Ti ringrazio.»
E se magari c'entrava qualcosa con quello che stava succedendo? E se fosse stato la talpa del castello?
No. Probabilmente mi stavo condizionando.
Forse gli era successo qualcosa che lo rendeva triste e perciò appariva freddo e distaccato all'esterno.
In ogni caso in una situazione del genere c'era poco da essere felici.
«Adesso devo andare» distolse lo sguardo. «Ho delle cose urgenti da fare.»
«Ciao, Connor» lo salutai con la mano, mentre si allontanava.
Quando fui sicura che se ne fosse andato via e che non potesse ritornare, mi guardai intorno in cerca della signora Johnson. L'avevo vista svoltare l'angolo, ma quando controllai, non la vidi più. Sembrava che si fosse volatilizzata.
Mi ero distratta a parlare con Connor e l'avevo persa di vista! Avevo perso l'unica occasione che mi ero guadagnata!
La cercai per un po' in alcune strade, nella speranza di vederla comparire ma, non vedendola, decisi che era inutile rimanere in giro con questo freddo e così ritornai al castello.
Mentre ripercorrevo la strada che avevo fatto all'inizio, la mia attenzione fu colta da una donna che correva in direzione opposta alla mia. Assomigliava tantissimo a Patricia. Volendo scoprire l'identità della donna, la inseguii.
«Ferma!» urlai.
Lei però aumentò la velocità per seminarmi.
Avevo le gambe intirizzite dal freddo, ma questo non mi fermò. In breve, la raggiunsi, prendendole un braccio e girandolo verso di me.
Era proprio lei. Su questo non c'erano dubbi.
Portava un cappotto strappato da un lato, dove si vedeva chiaramente il maglione bianco macchiato di sangue. I pantaloni erano rotti all'altezza delle ginocchia e quest'ultime erano sbucciate; era ricoperta di graffi e l'occhio destro era cerchiato di nero. Uno zigomo rotto e grondante sangue le colava sulle guance. Stava tremando e mi guardava con un misto di paura e sorpresa.
Era più bassa e molto più gracile di me, ma durante la competizione questo non le aveva impedito di trasudare fierezza e importanza. Quel giorno mi ero sentita sotto pressione davanti a lei. Oggi pareva l'opposto.
Non l'avevo mai vista così disperata e spenta, come se le sue forze si fossero prosciugate tutte in una volta.
Mi chiesi che cosa fosse successo mentre io parlavo con Connor.
«Signora Johnson.»
«Lasciami!» cercò di divincolarsi, ma la mia presa le serrò ancora di più il braccio.
Alla fine, si arrese.
«Che cosa vuoi, Ethan?!»
Mi guardava con disprezzo e credo che se avesse potuto, mi avrebbe incenerita con lo sguardo. Feci finta di non accorgermene.
«Vi stavo cercando. Dobbiamo parlare» la guardai senza mostrare alcun'espressione in volto.
«Non credo proprio!» cercò nuovamente di scappare.
«Non volete che riveli a qualcuno che aiutate quegli attentatori, vero?»
I suoi occhi si riempirono di terrore.
«Non lo faresti.»
«E chi me lo impedirebbe? Le telefonate che ho sentito nel vostro studio sono una prova molto interessante.»
Roteò gli occhi in cerca di una scappatoia ma, non trovandola, si rivolse di nuovo a me: «Mi hai spiata?!»
Il mio silenzio era già sufficiente per far crollare tutte le sue difese. «Ho capito. Va bene. Che cosa vuoi?»
«Dobbiamo parlare. Non qui ovviamente. Conosco un posticino discreto che fa proprio al caso nostro.»
La lasciai andare sapendo che non sarebbe potuta scappare neanche se lo avesse voluto. Ce l'avevo in pugno e questo lei lo sapeva benissimo.
Ci sistemammo in tavolino al coperto di un bar molto grande. Eravamo in un'ala abbastanza isolata e lì nessuno ci avrebbe disturbate.
«Volete ordinare?» ci domandò una cameriera che si soffermò un attimo sulle ferite di Patricia.
Lei si coprì, ma la cameriera si era già voltata verso di me.
«Per me un caffè lungo. E per voi, signora?»
«Un bicchiere d'acqua naturale.»
«Arrivo subito» se ne andò.
Non aprimmo bocca finché la cameriera non ritornò con le nostre ordinazioni.
Presi un sorso di caffè bollente che mi riscaldò e poi iniziai a parlare: «Come vi siete procurata quelle ferite?» arrivai dritta al punto senza tanti convenevoli.
Non avevo molto tempo prima di dover rientrare al castello e poi fremevo dal desiderio di catturare qualche informazione.
«Ho avuto un incontro sfortunato. Pensavo che quelle persone fossero lì per aiutarmi e invece volevano solo ricordarmi che è questo quello che succede a tutti quelli che non riescono a portare a termine un compito» si indicò le ferite in faccia.
«Chi erano queste persone?»
«Non lo so. Erano mascherate.»
«Che maschera avevano in volto?»
«Era bianca e li copriva interamente.»
Mi mordicchiai un labbro. Poteva darsi che i tizi mascherati fossero degli attentatori proprio come l'uomo che avevo visto con Robinson. Portavano tutti la stessa maschera bianca.
Questo non fece che alimentare i dubbi che nutrivo verso la signora Johnson. Mi stava dimostrando che anche lei c'entrava qualcosa.
«In che cosa consisteva il compito che non siete riuscita a completare?»
Divenne paonazza. «Niente di importante. Una stupidaggine» nascose le mani tremanti in tasca.
«Se quelle persone vi hanno ridotta così perché non avete portato a termine il lavoro, non può essere una cosa insignificante. Altrimenti non si sarebbero presi un disturbo tanto impegnativo e pericoloso» la incalzai.
Lei sospirò piano. «Non so dove volete arrivare, signor Allen, ma vi assicuro che non sono cose che vi riguardano. Adesso è arrivato il momento che io me ne vada. Sono rimasta anche troppo qui ad assecondare le vostre fantasticherie» si alzò.
«Sedetevi. Non ho finito di parlare.»
La mia voce era stata così tagliente che avrebbe potuto fendere l'aria. Mi guardò titubante, ma poi si risedette.
Nello sguardo potevo intravedere sgomento e un pizzico di irritazione.
«Oggi, signora Johnson, vi ho portata qui per parlare tranquillamente del vostro coinvolgimento con i ribelli. Vi ho sentita due volte parlare al telefono con un tizio riguardo alcuni fascicoli miei e di Robinson. Non so cosa questo c'entri con i piani e proprio per questo vi sto dando la possibilità di parlare. In più un gruppo di delinquenti vi ha picchiata a proposito di un compito che non avete portato a termine. Ciò fa alimentare ulteriormente i miei dubbi.»
Aspettai che avesse assimilato il mio discorso per poi continuare: «Vi voglio dare un'ultima possibilità di chiarirvi pacificamente. Ma se proverete a dileguarvi nuovamente, non tarderò a parlare con il principe e con le guardie per farvi arrestare. In questo modo sarete costretta a confessare tutto, ma vi posso assicurare che loro saranno molto meno indulgenti di me».
Neanche due secondi dopo che io ebbi richiuso la bocca, scoppiò in lacrime.
Si mangiava le unghie ed era paralizzata sulla sedia.
Non appena si fu asciugata gli occhi con un pezzo di carta che le avevo passato, mi sputò parole piene di veleno: «Non sai un bel niente, Ethan!»
«E allora spiegatemelo. Sono qui per questo.»
Indugiò parecchi minuti, ma alla fine si arrese. Rilassò le spalle e distese le mani sul tavolo.
«Devi promettermi che non farai parola con nessuno di quello che ti dirò.»
«Ve lo giuro. Ma se mi direte che siete coinvolta con gli attentati, non posso promettervi niente.»
Accennò un sì. «Mi sta bene.»
Aspettai che iniziasse a raccontare, ma stette zitta per almeno cinque minuti che mi parvero secoli.
Alla fine, incominciò il racconto: «Circa sette mesi fa, molto prima dell'inizio del concorso per i bodyguard, la mia bambina di quattro mesi si ammalò gravemente. La portai in tutti gli ospedali pediatrici di Solaris, anche le cliniche private, ma nessuno sapeva come curarla. Si scoprì che aveva una malattia rara ai polmoni che non la faceva respirare bene. Ero disperata. Non sapevo a chi chiedere aiuto. Non potevo nemmeno contare su mio marito perché era morto in un incidente stradale tre mesi prima».
Si asciugò una lacrima che le solcava il viso.
Ero rimasta scioccata. Non pensavo che avesse dovuto subire tutte queste disgrazie in così poco tempo. Avrei voluto dirle che mi dispiaceva e che sapevo come ci si sentisse a perdere una persona cara, ma l'unica cosa che mi uscii dalle labbra fu: «Mi dispiace per vostro marito e per vostra figlia».
Queste parole mi sbucarono dalla bocca in maniera fredda.
Erano le classiche parole che tutti rivolgevano a chi aveva perso qualcuno, a volte senza neanche provare un vero dispiacere.
Era la prassi: chi sapeva che un conoscente aveva perso una persona, gli faceva le condoglianze, ma poi finiva lì. Non la aiutava davvero a superare il lutto. La lasciavano al proprio destino.
In quel momento mi sentii molto simile alla signora Johnson, eppure avevo fatto come tutti gli altri.
Mi odiai per questo, ma lei sembrò non accorgersene perché riprese il discorso: «Feci visitare Emely da ogni singolo dottore di tutti i paesi confinanti con Solaris, ma tutti mi dicevano che per lei non c'era molto da fare. Qui uno studio medico mi disse che esisteva un farmaco in sperimentazione che poteva dare una possibilità alla mia bambina. Non era certo che la salvasse, ma di sicuro c'era almeno un 50% di probabilità in più rispetto a non usare niente. Chiesi la cifra e lì mi paralizzai. Volevano 50000 monete d'oro! Una truffa. Gli dissi che per un farmaco salvavita questa cifra era un'assurdità, ma loro risposero che era il prezzo da pagare per una medicina così rara e ancora in fase di sperimentazione. Loro erano gli unici che la tenevano e i miei tentativi di chiederla a qualcun'altro andarono in fumo.»
«Avete acconsentito a sborsare 50000 monete d'oro?»
Mi sembrava orribile che dovesse pagare una cifra così alta ma d'altronde con la crisi che stava crescendo non mi sorpresi più di tanto. La stavano imbrogliando mirando al fatto che loro erano gli unici in grado di aiutarla.
Fece una risata priva di felicità. «Magari avessi avuto 50000 monete d'oro! Purtroppo, a palazzo non mi pagano così profumatamente e in quel periodo ero veramente a corto di denaro. Non avevo così tanti soldi e perciò cercai un modo per trovarli. Emely stava più male ogni giorno che passava. Una mattina, mentre guardavo dei manifesti attaccati su dei possibili lavori, mi imbattei in un tizio che cercava una persona che gli facesse da aiutante. Guardai la paga e ne rimasi spiazzata: pagava 50000 monete d'oro ad ogni compito portato a termine per l'uomo. Presi il numero e lo chiamai mentre tornavo a casa.»
«E che disse?» la incitai perché la vidi chiudersi in sé stessa.
«Si congratulò con me per aver chiamato e disse che dopo un breve colloquio mi avrebbe assunta. Ero elettrizzata all'idea di guadagnare tanti soldi in così poco tempo, ma da un lato avevo un brutto presentimento. In ogni caso, il colloquio andò bene anche se il tizio non si presentò all'appuntamento oppure lo fece, ma non me lo ricordo. Tutti avevano delle maschere bianche in faccia.»
«Come quelle di prima.»
«Sì... Erano in cinque dietro un tavolo e mi fecero alcune domande basilari: come mi chiamavo, quanti anni avevo, se avevo avuto esperienze di questo genere e il motivo per cui mi rivolgevo a loro. Non mi fidavo fino in fondo, ma poi mi ricordai di mia figlia e mi dissi che valeva la pena rischiare pur di aiutarla. Raccontai a quelle persone tutte le mie difficoltà e loro mi ascoltarono in silenzio. Poi uno di loro, quello al centro, cominciò a parlare con voce tranquilla e dolce: «Sono veramente rammaricato per quello che avete dovuto passare e ci dispiace infinitamente per vostra figlia. I termini dell'accordo sarebbero un compito portato a termine e in cambio 50000 monete d'oro, ma per voi voglio fare un'eccezione di cui sono sicuro saranno d'accordo anche i miei colleghi». La sua voce era talmente tanto rassicurante che non presi in considerazione i rischi. Volevo solo una soluzione che avrebbe portato mia figlia a vivere normalmente.
L'uomo riprese a parlare: «Siamo tutti d'accordo che voi ci sembrate una persona di cui ci si possa fidare e quindi modificheremo i termini dell'accordo in questo modo: voi ci aiuterete a portare a termine alcune faccende mentre noi aiuteremo vostra figlia a guarire. Per ogni compito portato a termine, daremo ad Emely la medicina di cui ha bisogno senza chiedere a voi un solo centesimo. In più ci prendiamo l'impegno di pagarvi 50000 monete d'oro come retribuzione».
In quel momento ero talmente su di giri che non ci potevo credere. Davvero avrebbero fatto tutto questo per me? Mi sembrava di essere in paradiso. Avevo avuto un'opportunità unica nel suo genere. Quando mi sarebbe ricapitato di trovare persona tanto gentili e misericordiose?»
«Non volevano nient'altro?» chiesi scettica.
«Oh, sì che lo volevano. Ringraziai tutti con strette di mano e lacrime sincere, ma loro rimasero senza emozioni. Non una parola o un gesto che ricambiasse il mio affetto, ma io ero troppo emozionata per farci caso. «Tuttavia...» riprese il tizio non appena mi fui risistemata sulla sedia «vogliamo una garanzia su questo accordo. Non possiamo sigillarlo senza ottenerci niente, non vi pare?»
Ero d'accordo. Dopotutto mi avevano già proposto molto.
Gli chiesi cosa dovessi fare per avere la loro piena fiducia e il tizio mi rispose: «Abbiamo pensato che magari voi potreste darci vostra figlia come garanzia. Ad ogni faccenda risolta, gli daremo la medicina che le occorre perché, da quanto ho capito, Emely deve prendere le pasticche per tutta la sua vita. Però, non vi preoccupate: sarà solo per alcuni mesi, nove al massimo.»
Li guardai disgustata. Mi stavano davvero dicendo che avrei dovuto dare mia figlia come garanzia! Non avrei mai accettato. D'altronde, dove avrei potuto trovare un'altra opportunità simile? Non volevo separarmi da Emely, ma almeno così avrebbe avuto una vita. Se non avessi acconsentito, in meno di un mese sarebbe sicuramente morta.
Credetti davvero alle loro parole e mi convinsi seriamente che sarebbe stato per poco. Così, accettai con riluttanza e firmai il contratto che tutt'ora mi vincola» abbassò la testa e vidi enormi lacrime che le cadevano sul tavolo.
«Che impegni vi avevano dato?»
«All'inizio niente di difficile. Fare piccole commissioni, raccogliere alcune informazioni dentro il castello. Non sapevo davvero perché continuassero a insistere sulla famiglia reale.»
«Che cosa volevano che faceste?»
«Solo dargli le novità relative al castello. Che decisioni prendeva la regina su delle questioni private o se il principe mi parlava degli attentati che avvenivano sempre più frequentemente. Io rispondevo che non sapevo niente. Ero solo la segretaria e Sua Altezza non si rivolgeva di certo a me.»
Man mano che la conversazione continuava, la signora Johnson diventava sempre più irrequieta e spaventata.
D'un tratto mi prese le mani e mi guardò dritto negli occhi. Aveva uno strano luccichio nelle pupille. Mi sembrava di determinazione, ma anche di paura e vergogna.
«Ethan... so che quello che ho fatto è stato tremendo, ma devi giurarmi che qualsiasi cosa ti dirò non la userai contro di me. Posso assicurarti che non c'entro niente con gli attentati. Non sapevo che quei tizi fossero ribelli. Mi hanno usata solamente per arrivare a informazioni private della famiglia reale.»
Avevo un po' paura a chiederle di che cosa si trattasse. Pensai che riguardasse i fascicoli miei e di Robinson.
«C'entra con i fascicoli delle telefonate?»
Accennò un sì e mi lasciò andare le mani.
Finalmente avrei saputo la verità.
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