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𝐗𝐕𝐈𝐈. 𝐈 𝐅𝐢𝐨𝐫𝐢 𝐝𝐞𝐢 𝐒𝐞𝐩𝐨𝐥𝐜𝐫𝐢


In casa Aguillard, al numero 164Π di Lilac Lane, quartiere rispettabile e inamidato di Mythfield, non si udiva quasi volare una mosca mentre Ellis, il suo sposo River, il figlio Ariel e il fidanzato di questi, Vargos, si guardavano a vicenda in una miscela di imbarazzo e teso nervosismo. In realtà Ellis, più che imbarazzato e teso, sembrava a un passo dal sentirsi realmente male o dall'implodere come un vulcano al contrario.
«Beh... q-questa... questa è... una notizia davvero inaspettata!» disse infine River, cercando di risollevare la situazione. La serata era iniziata splendidamente grazie all'ottimo cibo e all'aiuto di conversazioni via via più sciolte e informali. Il fatto che i signori Aguillard, poi, avessero comunque dato una mano al maggiore dei fratelli Elimar con Ragos, dopo la morte di Farron, tanto da aver rappresentato per lui, a volte, una seconda famiglia, aveva di certo aiutato a eliminare quel sottile velo di formalità nel rapporto fra il giovane governatore della città e i coniugi Aguillard.

Le cose avevano tuttavia preso una piega non proprio ottimale quando lo sceriffo aveva notato un bizzarro movimento da parte di Ariel del tutto involontario e istintivo che subito lo aveva indotto a pensare a una cosa e a una soltanto. Era stato allora che, munendosi di non poca forza di volontà, aveva domandato al figlio se la serata fosse stata organizzata da quest'ultimo proprio per informare lui e River che sarebbero presto diventati nonni.

I due ragazzi, davanti a un tale smascheramento così diretto e dal retrogusto decisamente poliziesco, si erano scambiati un'occhiata e Ariel, stringendo una mano a Vargos, aveva ammesso di esser effettivamente gravido e che fra altri nove mesi, se tutto fosse andato bene, avrebbe avuto un figlio. Ora, dunque, eccoli là, immersi in un denso silenzio, in attesa di qualcosa, qualunque cosa, da parte dei coniugi Aguillard.

Lo sceriffo respirò profondamente e drizzò la colonna contro lo schienale della seggiola, guardando Vargos con i seri occhi tali e quali, nel colore, a quelli di Ariel. Per lui era diventato improvvisamente difficile dover interagire con il ragazzo in questione: lo aveva trattato per tanti anni come un figlio acquisito e poi aveva dovuto moderarsi, imparare a rivolgersi a lui con il rispetto che si doveva a un'autorità importante come quella rappresentata dal figlio maggiore di Farron e Lenore Elimar. Si era sempre dovuto ripetere che Vargos non fosse più già da tempo un ragazzino, che ormai fosse un uomo fatto e finito e che dunque, per tale motivo e anche per via delle circostanze, lui avrebbe dovuto un giorno abituarsi a vederlo nelle vesti di governatore, non più del figlio del suo migliore amico deceduto. In quel momento, però, non sapeva se parlare al governatore di Mythfield o al ragazzo al quale voleva bene e che senza preavviso, tuttavia, volente o nolente, aveva messo suo figlio in una posizione davvero scomoda e sconveniente, per non dire rischiosa, visto cosa minacciava di abbattersi su Mythfield.

Per lui Ariel sarebbe sempre rimasto quel ragazzino impertinente e dal sorriso beffardo che così tante volte lo aveva affiancato nelle passeggiate nei boschi o nel riparare un motore; sarebbe sempre stato un bambino taciturno e immusonito per via della sua prolungata assenza dovuta alla guerra intestina della città, anche se poi, ogni volta che lo aveva visto tornare sano e salvo a casa, sempre era corso a salutarlo e a fiondarsi fra le sue braccia. Più di ogni altra cosa, però... sarebbe stato sempre il suo piccolo, fragile e bellissimo bambino il cui arrivo, all'inizio, lo aveva un po' turbato e messo sotto pressione, indotto a temere che non fosse pronto per diventare genitore o che sarebbe stato un pessimo padre. Le aveva pensate un po' tutte, ma poi Ariel era venuto al mondo e niente di tutto ciò aveva più avuto importanza. Aveva pianto come un infante nel vedere il suo amato River reggere fra le braccia, con aria esausta, il loro primo e unico figlio. Unico per il semplice fatto che poi, qualche anno più tardi, River avesse dovuto sottoporsi a un intervento che aveva richiesto la rimozione dell'utero e una degenza che si era rivelata ben poco piacevole; il loro sogno di dare prima o poi un fratello o una sorella ad Ariel era sfumato dunque per sempre e benché avessero a volte affrontato l'ipotesi di adottare un bambino, per un motivo o l'altro non avevano mai messo in pratica la cosa e si erano infine ritrovati a dover fare i conti con il fatto di essere ormai un po' troppo in là con gli anni per ottenere la custodia di un bimbo. Il prezzo della vita fattosi via via più alto e la volontà di non far mancare niente, ma proprio niente, al loro prezioso Ariel, avevano dato il colpo di grazia ad ogni buon proposito.

Già, il loro prezioso Ariel...

Quello splendido e brillante ragazzo non sarebbe mai veramente cresciuto nel cuore di Ellis e sarebbe rimasto per sempre il suo dolce bambino; adesso, però, doveva affrontare la realtà e qualcosa gli diceva che le cose sarebbero andate molto diversamente rispetto a quando Ariel aveva scelto di non sposare più l'uomo che lui e River gli avevano fatto conoscere. Lo sceriffo doveva ammettere di aver un po' gioito, dentro di sé, davanti a quella notizia, ma per rispetto nei riguardi del suo dolce River che era di natura un inguaribile romantico aggrappato alla speranza di vedere Ariel felice e accasato con una persona perbene, si era finto deluso e dispiaciuto.

No, non era come quella volta né come le altre relazioni che Ariel aveva prima stretto e poi scelto di interrompere senza troppe remore né lacrime. Conosceva suo figlio e mai lo aveva visto stringere la mano a qualcuno di sua spontanea volontà per cercare un appoggio, un'ancora cui aggrapparsi. Mai, neppure una volta, lo aveva visto guardare una persona come più volte, durante la serata, l'aveva visto guardare Vargos.
Difficile credere che fino a tempo addietro, anzi per anni, avesse ripetuto loro che Elimar fosse un figlio di papà troppo buono e beneducato per lui che invece preferiva una tipologia di uomo più rude e diretta. Non aveva addirittura voluto credere a River quando questi gli aveva raccontato della nascente relazione fra i due, ma eccoli lì, ora, a dirgli che presto sarebbero stati in tre.

Un pochino lo faceva sentire vecchio la prospettiva di diventare nonno a soli quarantasei anni, ma a pensarci bene non era così infrequente e in ogni caso doveva accettarlo.

Aprì e richiuse la bocca diverse volte, non sapendo come esprimersi nel migliore dei modi, ma alla fine trovò le parole adatte: «Solo... solo una cosa pretendo da te, giovanotto: che riservi a mio figlio, al mio dolce Ariel, lo stesso trattamento che riserveresti a un principe. Che non lo veda mai e poi mai piangere e star male per causa tua. Un litigio può essere comprensibile, ma nient'altro. Dovrà essere la persona più disgustosamente felice del pianeta perché altrimenti potrei dimenticare accidentalmente l'affetto e la stima che nutro per te, Vargos, e tu potresti vedermi davvero arrabbiato». Annuì tra sé come chi si stava ripetendo di aver detto tutto quello che aveva da dire. «Un consiglio per il futuro, comunque» borbottò poi, burbero. «Usate quei maledetti profilattici. Costano poco e impediscono a poveri padri e futuri nonni come me di rischiare un bell'infarto. Ecco.» Divenne leggermente colorito sulle gote quando River, commosso dalle sue parole, si sporse e gli stampò al volo un bacio sulla guancia. «Oh, Ellis!»

Ariel, cercando di non farsi vedere, si passò le mani sotto entrambi gli occhi e guardò il fidanzato che sembrava in preda a una marea di emozioni. «Non abbiate paura: mi ha sempre trattato più che bene» assicurò poi ai genitori. «Spesso molto meglio di quanto avrei meritato.» Rivolse a Elimar una strizzata d'occhio e Vargos fece del proprio meglio per non arrossire come una scolaretta. «I-Io... farò del mio meglio, signor Aguillard» disse poi ad Ellis. Non si era mai permesso di chiamarlo per nome o di trattarlo come un suo pari sia perché lo vedeva come una figura paterna, sia perché lo rispettava come uomo in sé per sé, troppo per ricordare che era lui ad avere l'autorità su ogni singolo cittadino di Mythfield, compreso lo stesso sceriffo. «Ariel è davvero speciale per me. Non oso dare un nome, per ora, a ciò che provo per lui, ma le assicuro che è forte e che continua a crescere di giorno in giorno, secondo dopo secondo. Avrò cura di lui e del piccolo se Ariel, a distanza di mesi, vorrà ancora che io faccia parte della vita del bambino. Finché lui mi vorrà con sé, io rimarrò al suo fianco.»

Non negava di aver davvero avuto paura che Ellis si infuriasse con lui o, peggio ancora, con il figlio che in fin dei conti di colpe non ne aveva affatto. Ad aver interpretato la perfetta parte dello scemo incosciente e inesperto era stato lui, Vargos, e nessun altro, ma ormai quello era un capitolo chiuso visto che Ariel aveva già fatto una scelta ben precisa.
Aveva soltanto temuto di venire letteralmente castrato da un furibondo Ellis Aguillard. Affetto o meno, quell'uomo a volte sapeva davvero come incutere timore reverenziale o apparire minaccioso. Qualità che aveva trasmesso al figlio, tra parentesi.
Beh, è andata meglio del previsto, si disse sollevato, ricambiando la stretta di mano di Ariel che, sportosi, lo baciò sulle labbra. «Te lo dicevo che non sarebbe stato un totale dramma» sussurrò il giovane Aguillard, appositamente per punzecchiarlo e per il gusto di ribadirgli chi fra loro due avesse avuto infine ragione.

Vargos soffocò una risata. «E tu eri talmente sicuro di questo da esserti rosicchiato le unghie per semplice passatempo, suppongo» ribatté a tono, passando in rapida rassegna le dita del fidanzato lievemente martoriate. «Sai che danneggia i denti?» aggiunse, stavolta parlando sul serio.

«Sei proprio un secchione fatto e finito.» Ariel lo spinse via per scherzo e roteò gli occhi. «Beh...» disse poi, rivolgendosi a tutti. «Ora potrò mangiare per due senza essere guardato da tutti come se venissi da Marte, se non altro!»

River incrociò le braccia e lo squadrò con aria furbesca. «Ti consiglio una crema per le smagliature, tesoro. Quelle sono comprese nel pacchetto, temo.»

«E a te, ragazzo», rincarò la dose Ellis, parlando a Vargos, «di essere paziente, davvero paziente. Specialmente quando qualcuno inizierà a chiederti se sia ingrassato o meno e se potrebbe avere delle albicocche alle tre di notte e in pieno autunno. Lasciatelo dire: gli ultimi mesi saranno i peggiori!»

«Oh, Dio, piantatela!» Ariel, imbronciato, si coprì le orecchie coi palmi delle mani per non stare a sentirli. «Questo è terrorismo psicologico in piena regola!»

Vargos, invece, pareva davvero inquieto dopo il quadro che Ellis gli aveva un po' perfidamente presentato. «P-Perché saranno i peggiori?» balbettò, fissando poi Ariel come se si aspettasse da un momento all'altro di vederlo tramutarsi in puma per ringhiargli addosso. Il giovane Omega gli rifilò un'occhiataccia risentita. «Cosa?» lo apostrofò con aria di sfida.

Ellis, sempre ridendosela sotto i baffi, incrociò le braccia e si strinse nelle spalle. «Oh, niente di che! Solo tanti falsi allarmi e nervosismo a non finire! Senza contare la preparazione della camera per il piccolo, poi! Una verra guerra che ti consiglio di perdere volutamente e a priori!»

Ariel, più immusonito che mai, posò i gomiti sul tavolo e adagiò il mento sulle mani sollevate. «Non mi allarmo per una cazzata, mai fatto in vita mia» bofonchiò. «E comunque...»

«Oh, dimenticavo il corredo per il bambino e le tante, troppe notti insonni!» concluse River.

Vargos deglutì. «S-Stiamo ancora parlando di un neonato o di un piccolo demonio?» biascicò.

«Come osi parlare così di nostro figlio?» sbottò Ariel, inducendo i genitori a ridersela di gusto. Dire che guardare quei due interagire fosse a quel punto comico sarebbe stato riduttivo. «Stai forse suggerendo che io, allora, sarei una reincarnazione di Satana? Eh?»

«Un po', a volte» replicò d'impulso Vargos, fissandolo con tanto d'occhi. «C-Cioè... non intendo dire che... però...»

River sghignazzò e si alzò in piedi per recarsi in cucina a prendere il dolce. «Basta, voi due» li apostrofò con dolcezza. «L'unica cosa che dovrete davvero tenere a mente, ragazzi, è questa: nessuno nasce con la scienza infusa e aver a che fare con un neonato è arduo, a volte. È dover comprendere linguaggi che abbiamo dimenticato e saper riconoscere le risposte che l'istinto cerca di sussurrarci. Crescere un figlio è un'avventura, se si impara come viverla nel migliore dei modi.» Nel passare accanto ad Ariel gli accarezzò con le nocche uno zigomo, come faceva sin da quando era un bambino, e gli sorrise teneramente. «Amore. È tutto ciò di cui avrà sempre un disperato bisogno. È ciò che mai dovrete dimenticarvi di donargli. Il resto verrà da sé.» Non aggiunse altro e lasciò la sala da pranzo.

Ariel, stanco com'era, si era infine recato al piano di sopra della casa dei genitori per riposare un po' nella sua vecchia camera da letto. River era andato con lui, perciò Ellis e Vargos, rimasti da soli, decisero di accomodarsi in salotto.

Il capofamiglia fece per alzarsi e per andare a nutrire le fiamme del caminetto con della legna, ma il ragazzo gli disse di non scomodarsi e che ci avrebbe pensato lui; mentre consegnava all'ardente abbraccio del fuoco un ultimo ciocco di legna, tuttavia, ricordò la seconda ragione per cui lui e Ariel avevano scelto di recarsi a cena dai signori Aguillard, quella sera.

Esitò, tornò a sedersi e cominciò dicendo: «Signor Aguillard...»

«Ellis» lo corresse l'uomo. «Chiamami così. Ormai certe formalità possono pure cadere in prescrizione, perdona la battuta da consumato piedipiatti.»

Elimar annuì. «E-Ellis, io... c'è una cosa di cui vorrei parlarti.»

«Spara, allora.»

«Fiore dei Sepolcri» continuò dunque Vargos. «Un tempo è così che veniva chiamato dai nostri antichi antenati l'asfodelo.»

Lo sceriffo lo fissò interdetto, incapace di fingere di non sapere a cosa si stesse riferendo il giovane. «Tu... tu come fai a sapere di...»

«Ho trovato delle informazioni in un libro presente nella casa dei miei genitori. Era di mio padre e lì... beh... alla fine ho trovato la conferma a ciò che sospettavo e temevo sin da quando io e gli altri abbiamo iniziato a intravedere un preciso disegno nei piani di Olegov. Tutti gli Aguillard, quando ancora erano visti come degli aristocratici, venivano soprannominati ‟Fiori dei Sepolcri" e la ragione va individuata nello stemma araldico della loro famiglia: un campo scarlatto nel quale risaltava un teschio argentato dalle cui orbite fuoriuscivano tanti fiori di asfodelo, se ricordo bene. Ecco perché venne abbandonato e dimenticato da tutti, compresi i discendenti degli Aguillard stessi. La tua reazione di poco fa, però, mi spinge a credere che non sia propriamente la verità.»

Aguillard deglutì e fece un cenno di assenso. Trovava inutile e offensivo nei riguardi dell'intelligenza di Vargos cercare di negare tutto quanto. «Un orrendo stemma, se vuoi la mia opinione. Tremendo e di cattivo gusto. Fiero di essere un borghese, se il premio consiste nel non esser mai stato associato a un tale, ripugnante simbolo di sfortuna.» Una pausa. «Qui a Mythfield e non solo... veniva praticato un rituale un po' diverso da quello che tanto ossessiona Olegov e i miei antenati, da che ne so, furono gli unici ad aver fedelmente rispettato l'usanza anche dopo che era stata decretata immorale e fatta decadere, anzi bandita e additata come illegale. In segreto continuarono a seguirla, lo fecero per generazioni intere. Pare che proprio grazie ad essa evitarono di andare in bancarotta e di svanire dalla circolazione, dopo esser stati declassati. Il sacrificio degli Indigo e dei loro nascituri non è la sola e unica macchia sulla reputazione della specie Alphaga. Ci sono... ci sono tante altre cose orribili che il tempo è riuscito infine a nascondere da occhi indiscreti.»

Vargos lo guardò e lo fece senza l'ombra di severo giudizio negli occhi. Le colpe dei padri non appartenevano ai figli. «Che cosa accadeva, Ellis? Fino a quando è stata portata avanti questa... insomma, questa tradizione?»

Lo sceriffo, ora, aveva lo sguardo lucido. «P-Perché lo vuoi sapere, Vargos? Cosa sta succedendo?»

«Ho paura che Ariel potrebbe essere in serio pericolo e anche se gli ho donato un amuleto protettivo, potrebbe non esser sufficiente a salvargli la vita. Aiutami a proteggerlo, ti prego. Aiutami a capire, a risolvere tutti questi enigmi. Senza delle risposte non posso far niente per evitare che Olegov arrivi a minacciare tuo figlio. È importante, perciò... ti prego, dimmi tutto.»

«Oh, Dio» si lamentò Ellis, davvero angosciato. «Sapevo che prima o poi Olegov avrebbe scoperto ogni cosa. È ovvio che ci sia riuscito, anche se non so come né chi sia stato così idiota da spifferarglielo.»

«Ogni cosa? Ovvero?» insisté Elimar, cercando di non sembrare invadente. «Per favore, dimmelo.»

Aguillard gesticolò. «R-Risale a... ad ancora prima che Mythfield venisse fondata. Dicono che... che un patto venne stretto fra Lykos e un nostro antico avo il cui nome, ormai, si è perso nella memoria. Il patto esigeva di sacrificare il primogenito di ogni generazione; il poveraccio di turno, come prova tangibile del destino che lo attendeva, sarebbe venuto al mondo in inverno, proprio come il primo di loro che fu un tempo offerto a Lykos, e sempre presentando un segno di riconoscimento, una specie di voglia o meglio... una cicatrice, a giudicare dalla descrizione che mi venne riferita: tre linee simili ad autentici graffi inferti da artigli. Si dice che si trattasse proprio di quelli di Lykos che, secondo la leggenda, soleva sempre segnare i prescelti prima ancora che nascessero. Questo marchio poteva trovarsi in qualsiasi parte del corpo e quando questa specie di eletto veniva alla luce si capiva subito che fosse un giorno destinato a venire reclamato da Lykos come pegno non solo di fedeltà, ma anche come merce di scambio per potere e ricchezza. E c'è chi si stupisce nell'udire che in antichità i padri vendevano i propri figli Omega al miglior offerente in circolazione, come sposi di gente ricca e potente, barattandoli con oro, gioielli altre cose di valore. Alcuni facevano di peggio e cedevano i figli all'abbraccio mortale di Lykos, convinti che loro avrebbero ricevuto in dono da quella divinità fortuna e benestare e i poveretti, invece, sarebbero diventati a loro volta delle divinità minori e amanti di quel demonio. Chiamavano coloro che sarebbero andati incontro a questo destino ‟Sposi Scarlatti" perché sin da bambini venivano fatti vestire di rosso per far capire a tutti che nessuno all'infuori di Lykos avesse il diritto di sfiorarli ed era sempre di rosso che si vestivano quando andavano incontro alla tremenda sorte che li attendeva.»

Ellis rabbrividì. Lo disgustava estrarre simili scheletri dall'armadio della propria famiglia e del loro popolo in generale, ma sentiva di dover dire tutta la verità.

«Chi nasceva portando su di sé il marchio in questione, nasceva sempre come un Omega, uno di rara bellezza che altro non era che l'ennesimo segno, secondo i parenti, del fatto che fosse degno delle attenzioni di Lykos; la divinità, si narrava, se lo sarebbe tenuto per sé in eterno non appena la sua famiglia avesse ricevuto un segno dall'alto che indicasse loro che era giunto il momento propizio in cui compiere il sacrificio, anche se veniva reputato molto di più un'ascensione divina verso il mondo degli dèi e degli spiriti ancestrali della natura. Non chiedermi di quali fantomatici segni avessero bisogno per sapere quando e come agire, perché non lo so e non ho mai voluto sapere nient'altro della faccenda. So solo che questa disgustosa tradizione è stata mantenuta sempre, nel caso della mia famiglia, fino... fino a...»
Lo sceriffo serrò le palpebre e si passò due dita sugli occhi. Come poteva raccontare il resto? Come si faceva a parlare di una cosa del genere senza che vecchie ferite venissero immancabilmente riaperte?

Vargos esitò. «Ho visto il certificato di nascita. Era nascosto negli archivi dell'ospedale e ho poi trovato dei riscontri in quelli dedicati alle persone svanite nel nulla o presunte morte: Aster Clover Aguillard, nato il dieci ottobre del millenovecentosessantadue e, secondo la versione ufficiale dei fatti, scappato di casa nel cuore della notte il due dicembre del millenovecentosettantotto. Giusto?»

Ellis, per quanto fosse un uomo pacato e mansueto, raramente era fra coloro che si concedevano il lusso per nulla scontato di piangere di fronte al prossimo. Ora, però, versava lacrime come un bambino. Lacrime di dolore, di senso di colpa e rabbia. Da quando aveva saputo tutta la verità non c'era stata volta in cui non avesse provato tutto ciò nel sentir dire da questo o l'altro tizio di come Aster Aguillard, improvvisamente colto dalla follia propria degli adolescenti o forse dalla voglia di vedere posti nuovi, avesse fatto fagotto e se ne fosse andato da Mythfield. Come se un ragazzino di sedici anni, in pieno inverno, senza un soldo in tasca né senza averi di prima necessità appresso, potesse realmente cavarsela e sopravvivere in un mondo così spietato che non risparmiava chi osava spiccare il volo prima ancora di aver imparato degnamente a volare. Si era domandato per tanti anni come avesse potuto lo sceriffo dell'epoca lasciar perdere la questione e non insistere nel ritrovare Aster o, ancora, non allarmarsi nel venire a sapere che Aster non avesse dato alcun segno di vita neppure con i parenti che vivevano altrove. Un sedicenne responsabile e con mille motivi per restare dov'era si era dileguato verso l'ignoto e non era importato a nessuno, se non a pochissime persone, che fine avesse potuto fare o meno.

«Nessuno parla più di lui. All'inizio era sulla bocca di tutti, ma pian piano è stato dimenticato. Avevo sei anni quando mio fratello scomparve nel nulla, senza un motivo apparente. Ero solo un bambino e non potei fare molto per ritrovarlo di mia spontanea volontà, ma come già sai, in città correva voce che fosse scappato di casa, forse con qualcuno che aveva conosciuto e del quale i suoi amici erano sempre stati all'oscuro. I miei genitori, all'epoca, sembravano disperati e si adoperarono per cercarlo dappertutto, ma senza successo. Mi dissero di smettere di pensare a lui perché non sarebbe mai tornato e dovunque fosse andato, si trovava talmente bene altrove da aver dimenticato la propria famiglia. Arrivarono addirittura a eliminare tutte le fotografie presenti in casa che lo ritraevano. Da adulto, appena entrai a far parte delle forze dell'ordine, tentai di indagare per conto mio nel tempo libero, ma poi dovetti lasciar perdere: era arrivato Ariel e con lui responsabilità e preoccupazioni alle quali non volevo né potevo sottrarmi. Avevo una famiglia alla quale pensare e non potevo vivere per sempre nel passato. Mi dissi solo che speravo che Aster avesse trovato la felicità, dovunque fosse andato a cacciarsi.»

Lo sguardo di Elimar luccicava. Era terribile udire il racconto dello sceriffo e sapere che Aster, il membro di quella famiglia relegato nel dimenticatoio, considerato un incosciente e un ingrato per esser fuggito di casa per seguire chissà quali ambizioni, molto probabilmente avesse fatto una fine ben diversa e più macabra. «Hai mai scoperto qualcosa dietro alla sua scomparsa?» domandò, anche se non era sicuro di volerlo sapere, di voler ricevere una conferma ai suoi sospetti.

Con le mani che tremavano estrasse dalla tasca dei pantaloni il portafogli e da uno degli scomparti trasse fuori un piccolo riquadro di carta ripiegato. Lo spiegò e mostrò a Vargos l'unica fotografia che all'epoca aveva fatto in tempo a salvare dall'epurazione indetta dai genitori: era un'immagine a colori che ritraeva un bambino e un ragazzo, entrambi coi capelli bruni e gli occhi della medesima sfumatura acquamarina; quello che sicuramente doveva essere Aster era oggettivamente un giovane di rara e raffinata bellezza e teneva sopra le ginocchia il piccolo Ellis stringendolo a sé in un abbraccio fraterno e amorevole. A dirla tutta, se non fosse stato chiaro il loro reale legame di sangue, qualcuno avrebbe addirittura potuto azzardare che si trattasse di un ragazzo-padre in compagnia del figlioletto, tanto sembravano uniti e in sintonia. Lo splendido sorriso sfoggiato da Aster, per un solo istante, ricordò un po' a Vargos un'espressione molto simile che ultimamente era solito vedere spesso sulle labbra di Ariel.

Iniziava seriamente a comprendere lo scherzoso modo di dire che circolava a Mythfield da un bel po' di tempo: quando una persona era particolarmente avvenente, di una bellezza quasi irreale, c'era sempre quel buontempone di turno che, giocosamente, affermava che dovesse avere un qualche legame di sangue con gli Aguillard.
Tutto si sarebbe potuto aspettare, però, da una delle famiglie fondatrici di Mythfield le cui radici risalivano, secondo tanti, fino ad antenati nativi della Francia e, ancor prima, della regione della Grecia antica denominata Arcadia, tranne che un segreto così mostruoso e da far venire la pelle d'oca.

Tornò a concentrarsi sulla fotografia e a rammaricarsi al pensiero di cosa potesse esser realmente successo al povero Aster. All'epoca dei fatti un ragazzo Omega di sedici anni era reputato da tanti sì e no un adulto, una persona pronta a creare una nuova famiglia e a gestire una casa. Negli anni Settanta anche a Mythfield gli Omega erano sì e no costretti ad abbandonare la scuola, nella maggior parte dei casi, e a sposarsi, ad avere figli e a prendersi cura dei consorti, perciò riusciva a immaginare il tenore delle chiacchiere che si erano ritrovate al centro della misteriosa fuga di Aster Aguillard. Un autentico scandalo. Chi si era azzardato a fare una cosa del genere era poi stato visto come un ingrato, una pecora nera, e di solito i genitori si erano ritrovati di fronte a due opzioni: ritrovare il fuggiasco e riportarlo a casa, con le buone o le cattive, oppure bandirlo per sempre dalle mura domestiche e da ogni conversazione. Era ovvio che i genitori di Aster avessero scelto di seguire la seconda strada, ma dovevano averlo fatto per ragioni ben diverse dalle solite. Ragioni che, Vargos ne era certo, presto sarebbero state rivelate.

«Non è andata davvero così, vero? Aster non è mai fuggito da Mythfield» suppose col cuore in gola.

Ellis strinse le labbra e annuì. «Vorrei poter dire di esser rimasto nell'ignoranza fino ad ora, ma sarebbe solo una menzogna e non insulterò la memoria di mio fratello come ho continuato a fare per ventiquattro lunghi anni. Sapevo e ho taciuto, non avendo altre prove concrete, togliendo i vaneggiamenti di due mostri e una storia troppo assurda che nessun altro, a parte me, aveva udito. Non ho mai potuto far nulla per dare giustizia ad Aster, ma ora... ora basta mentire. Vada come vada, sarà come aver finalmente posato un fiore sulla sua tomba che mai sono riuscito a rintracciare.»
Si sentiva terribilmente in colpa e complice del crimine che aveva reciso per sempre la vita di suo fratello, un ragazzo di soli sedici anni con la testa sulle spalle e un carattere tutt'altro che frivolo e capace di giustificare una sparizione a dir poco bizzarra. Talmente serio e coscienzioso, nonché avvenente, da aver catturato l'attenzione proprio del padre di Vargos e Ragos. Così, almeno, gli venne raccontato dallo stesso Farron quando lui, Ellis, aveva detto di voler ritrovare in qualche modo Aster. Curiosa la vita: se Aster non fosse mai svanito nel nulla forse, nel presente, lui non si sarebbe ritrovato mai a parlare con Vargos di quella faccenda, perché né quel ragazzo né il fratello minore sarebbero esistiti. Lenore era sopraggiunta solamente in seguito e aveva riportato il sole nella vita di Farron dopo che a tutti era stato chiaro che Aster non sarebbe mai tornato a Mythfield. Il resto era storia, ma Ellis non disse niente di tutto ciò a Vargos. Non solo perché sarebbe stato davvero troppo strano, visto che Elimar e Ariel si frequentavano, ma anche perché sarebbe stato un po' imbarazzante rivangare quell'argomento. C'era ben altro di cui discutere, dopotutto.
«I miei genitori... loro... sapevano perfettamente cosa fosse successo davvero ad Aster. Sapevano a cosa era stato destinato sin dalla nascita e per questo inscenarono la sua fuga dalla città. Non solo per nascondere cosa avevano fatto, ma anche perché almeno non avrebbero dovuto piangere per forza su una bara vuota. Piangere per quel che consideravano alla stregua di un animale da macello, di un oggetto che valeva la pena di sacrificare. Recitare la parte dei genitori afflitti andava oltre ogni loro capacità di convincere il prossimo che fossero e siano tutt'ora dotati di un briciolo di cuore o di empatia.»

Eccola lì la conferma, pensò Vargos, scosso.
I genitori di Ellis, pur sembrando persone un po' rigide e poco espansive, mai avevano dato segno di essere crudeli e gretti come li stava invece descrivendo il figlio. Avidità, ecco qual era il nome di ciò che aveva spinto quella famiglia a sacrificare i primogeniti in cambio di ricchezza e potere. La loro avidità, tuttavia, gli si era ritorta contro e la superbia era stata punita con la retrocessione sociale. «Lo uccisero, quindi» commentò sospirando. «E giustificarono la sua uscita di scena con una fuga giovanile. Davvero astuta come risoluzione.»

«Ricordo che una settimana prima del fatto... i nostri genitori vollero andare in vacanza insieme a me e a mio fratello. La chiamarono così. Ricordo, anche, che malgrado fossero stati sempre rigidi e poco permissivi con tutti e due, in quei giorni furono insolitamente affettuosi, specialmente con Aster; lo furono fino al punto da concedere a mio fratello tutto ciò che lui desiderasse di volere. Andammo a mangiare nei posti migliori, ci divertimmo, fu davvero bello e per motivi che all'epoca mi parvero bizzarri, ma che solo dopo tanto tempo compresi, insistettero sempre perché mio fratello indossasse almeno un indumento di colore rosso. Gli dissero, mi pare, che quel colore gli donava molto.»
Quanta subdola crudeltà, pensò lo sceriffo con ribrezzo e astio. Come avevano fatto quei due a guardare negli occhi suo fratello e a non provare per se stessi neanche un briciolo di vergogna e disgusto per ciò che già da tempo avevano deciso di fare al loro primogenito? Come si poteva ingannare sangue del proprio sangue e fargli credere di essere più amato di quanto avesse mai pensato? Non lo sapeva, mai lo avrebbe saputo. Non lui che non aveva mai avuto il coraggio di rifilare ad Ariel un semplice ceffone o metterlo in punizione. Alcuni gli avevano detto di esser stato troppo permissivo e docile con lui, che avrebbe dovuto viziarlo di meno, ma li aveva ignorati e basta. Lo aveva fatto sin da quando aveva saputo della crudele e ingiusta fine di suo fratello e si era ripromesso di essere un padre il più presente e amorevole possibile con Ariel, visto che di esempi da non seguire ne aveva ricevuti a iosa, da bambino.

«A-Aster non era mai stato uno di quei fratelli maggiori che ti tormentavano con degli scherzi o ti scansavano perché eri piccolo e a loro dire lagnoso o insopportabile. Era un fratello eccezionale e attento. Si prese cura di me meglio di quanto abbiano mai fatto quei due bastardi nel resto della mia infanzia e giovinezza, lo fece fino al punto che arrivai a volergli bene come se fosse stato anche mio padre. Era intelligente e aveva preteso di continuare gli studi malgrado i nostri genitori avessero storto il naso a questa decisione. Era un asso nelle materie scientifiche e prendeva lezioni di pianoforte. Un figlio del quale qualsiasi altro genitore con del sale in zucca si sarebbe vantato, ma non quei due bastardi. Per loro il pianoforte era una perdita di tempo e dicevano che la scienza non avrebbe aiutato affatto Aster a dover vedersela con un marito e uno stuolo di marmocchi. Li sentivo sempre rimproverarlo per una condotta che all'epoca era reputata bizzarra e preoccupante, e lui si limitava a stringersi nelle spalle e a riderci sopra, a continuare per la sua strada. Mi rivelò che sperava di diventare un giorno un medico, ma non penso avesse osato dirlo ai nostri genitori. Gli avrebbero riso in faccia o l'avrebbero fatto internare, poco ma sicuro. Lo avrebbero visto come un pazzo per aver voluto semplicemente cercare di emanciparsi e di costruirsi una carriera.»

Ellis ripose nel portafogli con cura la fotografia. «Comunque... tornammo a casa domenica sera e mercoledì mattina della settimana successiva mi svegliai e non trovai Aster a colazione. Chiesi dove fosse e i miei genitori dissero che se n'era andato e, poco ma sicuro, mai sarebbe tornato. Piansi, feci un scenata e urlai a entrambi che non era vero, che Aster non se ne sarebbe mai andato perché mi voleva bene, perché ne voleva a tutti e aveva degli amici. Venni messo in punizione per una settimana intera e accusato di ingratitudine per essermi comportato male dopo aver goduto di una splendida vacanza per la quale loro avevano speso tempo e denaro pur di compiacere me ed Aster. Dissero, testuali parole, che ero un piccolo ingrato tanto quanto mio fratello che aveva preso e se n'era andato con chissà quale poco di buono.»

Il governatore di Mythfield, con discrezione, si asciugò le guance e inspirò profondamente. Quella storia lo aveva colpito in fin troppi modi e per tante, troppe ragioni: la nostalgia che aveva dei suoi, di genitori, sempre stati amorevoli con lui e con Ragos, e il fatto che di lì a poco lui stesso sarebbe diventato padre. Come si poteva far del male a un figlio, addirittura ucciderlo consapevolmente e compiere tale gesto dopo averlo fatto letteralmente pascere e averlo trattato con ogni riguardo per una settimana, proprio come accadeva a un comune tacchino prima del Giorno del Ringraziamento? Non lo concepiva. Era mostruoso, disumano.

E lui che dopo aver saputo cos'era successo a Casey, a Crystal e a Caelan pensava di averne sentite di cotte e di crude. Aveva quasi l'impressione di essersi gettato a capofitto in un nero pozzo ricolmo di terribili segreti troppo a lungo taciuti. «Quella settimana fu una sorta di preparazione, immagino. Come quando si calma e accarezza un animale prima di portarlo al ceppo dove verrà abbattuto.»

«Proprio così» concordò sfinito Ellis. Sembrava invecchiato di dieci anni dopo aver finalmente parlato di quella storia. «Non so cosa ne fecero del suo corpo, anche se con una metafora mi fecero intendere che i suoi resti fossero stati relegati sotto terra e chissà dove. So solo che fu l'unica volta, quella in cui finalmente mi venne detta la verità, in cui volentieri avrei reciso due vite tutt'altro che innocenti e senza provare alcun rimorso» quasi ringhiò subito dopo, tirando su col naso. «Si presentarono per conoscere Ariel solo un anno dopo che era nato. Non vollero farlo subito perché disapprovavano che avessi sposato River, visto che veniva da una famiglia di umili origini, quindi puoi ben immaginare cosa pensassero di nostro figlio.» Fece una lunga pausa. «Avevo... avevo notato quegli strani segni sul braccio sinistro di Ariel, ma mi dissi che forse si era fatto male da qualche parte, dato che gattonava ovunque ed era già abbastanza esuberante e incapace di star fermo un secondo. A un anno già aveva iniziato a chiacchierare come un albero pieno di uccelli e il problema era farlo star zitto, il più delle volte!»

Lo sceriffo sbuffò una risata nel ripensare a quanto Ariel fosse stato buffo a quell'età.

«Un giorno, però, quei due finalmente si degnarono di venire a casa nostra per conoscerlo e mentre River portava Ariel a fare il riposino pomeridiano, mia madre e mio padre, dopo tanti anni di silenzio e di bugie, mi dissero la verità e aggiunsero che Ariel era stato marchiato e che se non avessi seguito le tradizioni alla lettera, un giorno me ne sarei pentito. Ai loro occhi il mio bambino non era che il nuovo agnello da seviziare in cambio di chissà quale premio. Dopo aver saputo di mio fratello e di tutto il resto, dopo che mi venne detto che avrei dovuto uccidere mio figlio, pena non so quali gravi effetti collaterali in caso di una mia inadempienza, mi infuriai e non volli più aver a che fare con loro. Giustificai tutto con River dicendo che avevamo litigato e la cosa terminò lì, ma da quando Ariel è cresciuto e ha iniziato a uscire, a conoscere persone all'infuori di me e River, a frequentare magari degli sconosciuti... sin da allora ho sempre temuto che un giorno sarebbe stato rapito e ucciso proprio come gli altri membri della nostra famiglia misteriosamente scomparsi nel nulla. Lo guardavo crescere, diventare sempre più ammaliante agli occhi dei coetanei e conteso, e in cuor mio pregavo che potesse diventare adulto e ora... ora prego che possa invecchiare, avere una vita lunga e felice, lontana dagli orrori che non ho mai avuto il coraggio di rivelargli sul conto degli Aguillard.»

Dunque, si disse Vargos, era quella la verità. Aveva avuto ragione a insistere, a preoccuparsi per Ariel e a scavare negli affari della famiglia di quest'ultimo. Il suo sesto senso, ancora una volta, non lo aveva tratto in inganno.
Il solo pensiero che Ariel avesse sin dalla nascita corso il serio rischio di scomparire nel nulla, di venire assassinato come un agnello sacrificale, lo riempiva di orrore e apprensione. La minaccia, per quel che poteva saperne, poteva essere ancora plausibile, ma non era solo questo a inquietarlo. «Olegov potrebbe esser venuto a risapere di tutto questo, Ellis, e ho paura che potrebbe aver incluso Ariel nei suoi folli piani. Tuo figlio potrebbe essere la sua punta di diamante, forse quel mostro ha parlato addirittura con i tuoi genitori e ora... ora che Ariel aspetta un bambino da me, considerando cos'è successo alle altre vittime di Olegov, il rischio non può che essersi triplicato.»

«È ciò che temo anch'io» mormorò con voce ora flebile lo sceriffo. «Per questo, all'inizio, ho invano provato a scoraggiare Ariel dal prender parte attivamente alle indagini su Olegov e i suoi piani. Non volevo che si esponesse, ma credo che sia esposto sin dal giorno in cui è nato.»

Ricordava le minacciose parole dei suoi genitori: se non fosse stato Ariel a recarsi da Lykos, allora sarebbe stato Lykos a venire a prendersi quel che gli spettava. Parole di due folli, ovviamente: Lykos non esisteva, mai era esistito, e tutto non era che un semplice delirio. Ariel aveva venticinque anni e nessuno si era ancora presentato dal cielo per condurlo chissà dove, diamine, ma Olegov era a sua volta un convinto seguace della divinità in questione e forse aveva davvero scoperto della terribile tradizione di famiglia degli Aguillard e intravisto in essa un'opportunità di qualche tipo. Tale prospettiva lo nauseava e terrorizzava. Sicuro come l'oro, se fosse successo qualcosa a suo figlio avrebbe preso una pistola e se la sarebbe puntata alla tempia. E River... buon Dio, non osava immaginare la reazione di River se fosse successo qualcosa di male ad Ariel. Il dolore, probabilmente, lo avrebbe ucciso.

«Io... io penso che Olegov voglia sacrificare anche Ariel e farlo come ultimo atto di un'offerta immensa e sontuosa» decretò Vargos, cupo, dando voce alle paure più recondite e atroci dello sceriffo. «Credo sia convinto che Lykos, adirato per gli accordi non mantenuti, potrebbe rifiutarsi di concedergli i propri favori e quindi, per ingraziarselo bene, intenda fare quel che non è stato fatto anni fa dalla tua famiglia. Lisciare il pelo al suo sedicente dio, come si suol dire. Ora sì che c'è un nesso.»

«Stronzate da maniaco» sputò fuori Ellis, asciugandosi le guance. «Nient'altro che quelle!»

«Lo penso anch'io, ma lui è convinto del contrario. Olegov crede fermamente che Lykos sia reale e che otterrà qualcosa evocandolo o facendo chissà quale bizzarro rituale» gli ricordò amareggiato Elimar. «Non c'è niente di più pericoloso delle convinzioni di chi è succube dei propri vaneggiamenti.» Si sistemò meglio sulla poltrona. «Sia come sia... se dovesse anche solo osare avvicinarsi ad Ariel, giuro sulla mia vita che io sarò lì pronto ad azzannarlo alla gola» aggiunse, spaventosamente serio e deciso. Non era solito parlare in termini del genere, professare di voler ricorrere alla violenza estrema, ma il solo pensiero che Ariel potesse incappare in un destino così tremendo e crudele lo faceva, semplicemente, imbestialire. «Proteggerò lui e mio figlio, Ellis, non importa fin dove dovrò spingermi per farlo. Quel mostro non avrà Ariel. Prima dovrà passare sul mio cadavere.»

Di sicuro Olegov era partito approfondendo la questione del misterioso stemma degli Aguillard e scoperto, di certo con non poco giubilo, che quella famiglia fosse effettivamente stata, un tempo, di estrazione sociale aristocratica e potente che con orgoglio aveva sfoggiato, come simbolo del proprio casato, il macabro teschio traboccante di asfodeli, i fiori sacri a Lykos.

Doveva averlo visto come un segno del destino e scavato più avidamente negli affari degli Aguillard prima di prendere una decisione.

Ariel sarebbe stato l'ultimo, ragionò Elimar, il suo cervello che continuava a macinare informazioni e congetture alla velocità di una locomotiva alimentata al massimo.

A prescindere dalla gravidanza o meno, dettaglio in quel caso irrilevante per Olegov, Ariel sarebbe stato il sacrificio finale, quello più simbolico. Quello che probabilmente, secondo lui, avrebbe attirato senza dubbio l'attenzione di Lykos e lo avrebbe indotto a prestare l'orecchio alle sue preghiere, alle sue richieste, quali che fossero.
Quella divinità aveva sempre preteso il meglio e secondo Olegov si sarebbe leccata i baffi vedendosi giungere davanti un'offerta simile, una che, tra l'altro, gli era in origine stata negata.
Gli Indigo erano destinati a essere i primi doni stuzzicanti e tutti coloro che erano stati uccisi di recente, invece, avrebbero rappresentato il rimanente bottino per un dio che considerava le anime una valida merce di scambio, un lasciapassare. Come se non bastasse Ariel, ultimo discendente di una famiglia che mai aveva abbandonato le vecchie credenze, la Fede Antica, avrebbe presto unito la propria linea di sangue a quella degli Elimar, il clan più potente di Mythfield e conosciuto persino oltre i confini della città.

Ma cosa c'entra, in tutto questo, Demetrius?

Fu lì che le elucubrazioni del giovane governatore si videro tirare le briglie con ben poca grazia. Ecco dov'era l'elemento disturbante, la variabile impazzita. Che Olegov lo volesse dalla propria parte per assicurarsi la collaborazione di un Alphaga dotato di poteri magici tali da aver tramutato il famoso Principe Negromante in un Lich? Oppure erano risposte che Olegov pretendeva da Demetrius? Risposte su che cosa, però?

C'era dell'altro dietro? Qualcosa di ancora peggio di quel che fino ad allora erano riusciti a trarre dagli indizi accumulati fino a quel momento?

Non riusciva a collegare le due questioni. C'era qualcosa che gli sfuggiva, lo sapeva, ed era snervante.

Cercò di pensare, di riflettere con maggiore attenzione. Su Demetrius sapevano questo: che si fosse reso responsabile di uno fra i peggiori massacri perpetrati da un Alphaga contro dei propri simili; che avesse avuto dalla propria parte dei poteri magici tutt'altro che benigni e che lo avevano portato a perseguire la via del male e del potere, fino a desiderare l'immortalità e a sputare in faccia alla Natura, alle sue leggi e alla pace dopo la morte, scegliendo di diventare un Lich, un morto tornato dalla tomba, uno stregone che non poteva essere battuto se non in un unico modo tutt'altro che semplice da metter in pratica. Sapevano che era potenzialmente malvagio e che quasi sicuramente fosse tornato in libertà dopo esser rimasto chiuso in una cripta per secoli.

Sapevano tutto questo, così come che Olegov sperasse di poter comandarlo a bacchetta alla stregua di un cane rabbioso da scagliare contro chiunque si fosse opposto ai suoi piani, ma mancava qualcosa.

Magari quel pazzo si sarebbe servito di Demetrius anche per compiere quell'ecatombe di innocenti, di vittime sacrificali?

Tutto era possibile, ecco la verità.

Il fiume di pensieri nel quale era sprofondato si dissipò nell'attimo in cui lui ed Ellis udirono dei passi e videro infine River raggiungerli tenendo un braccio avvolto attorno alle spalle di un Ariel un bel po' assonnato e intorpidito. Sorrise di sbieco. «È tardi, ragazzi, e qualcuno qui ha un disperato bisogno di un bagno caldo e di una dormita come si deve.»

«Stavo già dormendo di sopra, infatti» biascicò Ariel, un po' risentito. Si stropicciò un occhio e si accoccolò contro Vargos quando questi gli si avvicinò e gli baciò la fronte. Avrebbe voluto chiedere ad Elimar se fosse riuscito a far parlare suo padre, ma non era il momento adatto per farlo e comunque, a onor del vero, era stanco morto e aveva sul serio bisogno di riposare. Sperava solo che presto o tardi la nausea mattutina gli sarebbe passata, visto che era la principale responsabile di levatacce antelucane e improponibili.

River scosse la testa e guardò Vargos. «So che forse dirlo non serve, ma guida con prudenza. È tardi e... beh, penso che tu sia distrutto quanto Ariel.» Non poteva far a meno di preoccuparsi, almeno un poco, per quel ragazzo. Non aveva affatto una bella cera e presentava per giunta delle occhiaie piuttosto marcate.

«Non si preoccupi, signor Aguillard» lo rassicurò Elimar. «Non sono fra quelli che guidano spericolati, mi creda.»

«Suvvia, River, è un adulto» intervenne Ellis, scherzoso, anche se era difficile per lui apparire disinvolto dopo la conversazione avuta con Vargos e aver disseppellito così tanti ricordi tremendi. River doveva sapere, si disse amareggiato. Ne aveva il diritto e ormai era inutile lasciarlo fuori da quella faccenda. Ariel era figlio di entrambi, dopotutto, e se conosceva Vargos, sapeva che avrebbe rivelato ogni cosa ad Ariel per pura correttezza e per metterlo in guardia.

Un quarto d'ora dopo, in macchina, Vargos si assicurò che Ariel si fosse allacciato la cintura prima di infilare le chiavi nel cruscotto. Quando stava per mettere in moto l'auto, tuttavia, si bloccò udendo Ariel chiedergli cosa si fossero detti lui ed Ellis.

Il giovane Elimar sospirò. «Te lo dirò domani mattina» ribatté. «È un discorso lungo e tutt'altro che piacevole, credimi.»

Qualcosa nella sua espressione convinse Ariel ad accettare il compromesso. Deglutendo, però, domandò ancora: «Quanto è grave la situazione? Quanto è coinvolta la mia famiglia in questa storia?»

«Più di quanto credessimo, temo.» Vargos sospirò. «Spero solo che l'amuleto possa bastare a proteggerti, Ariel. Lo spero davvero.»

Aguillard esitò. «Te lo dico sin da ora: se Olegov dovesse solamente azzardarsi ad avvicinarsi a me, alla mia famiglia o a uno dei miei amici, non esiterò ad agire. Magari non posso sbranarlo con le mie zanne, ma voglio proprio vedere come farà a fare lo stronzo con un foro di proiettile nel cranio.»

«Ariel...»

«Davvero pensi che rimarrò fermo come uno stoccafisso, in panchina, mentre tu e gli altri siete là fuori a rischiare l'osso del collo? È anche affar mio, Vargos.»

«E se dovessi sbagliare a sparargli? E se lui riuscisse a toccarti eccome e a farti del male? Nel minore dei casi perderesti il bambino che sei così deciso a voler far nascere e nel peggiore, Ariel, perderesti la tua stessa vita. Olegov non ha pietà di niente e di nessuno e se ho capito il suo gioco, allora anche tu sei compreso nei suoi folli piani.»

Ariel sbuffò. Davvero Vargos pensava che non avesse considerato quei dettagli?

«Se tu e gli altri cadrete, sarò comunque condannato» replicò cupo. «Tanto vale rischiare.»

Vargos lo guardò, realmente disperato. «Ti prego, lascia che sia io a occuparmene.»

«So badare a me stesso e quel figlio di puttana non mi fa nessuna paura.» Quelle furono le ultime parole di Ariel che, da allora sino alla fine del tragitto, si chiuse in un impenetrabile silenzio.

«Di' un po', Aguillard, non stai lavorando un po' troppo?» Ragos occhieggiò dubbioso Ariel che sembrava realmente indaffarato nel veleggiare a destra e a manca per servire i clienti del diner.
Ariel, fermo accanto a un tavolo lì vicino, si concentrò sul fratello del suo fidanzato. «Se non lavoro, Elimar, rischio di diventare scemo, perciò vedi di non scocciare» lo rimbeccò senza troppe infiorettature. Scosse la testa e tornò a prender nota dell'ordine del cliente che stava servendo.

Crystal osservò l'Omega in lontananza, poi guardò di nuovo Ragos. «Lascialo in pace» si permise di consigliargli. «Non lo biasimo per volere a tutti i costi evitare di pensare a quel che abbiamo scoperto grazie alla confessione di suo padre. Insomma... è davvero roba pesante da portare sulle spalle e il peggio è che per il momento non si possa far niente su nessuno dei fronti in questione. Riguardo a quel povero disgraziato di suo zio, poi...!»

Ragos sospirò. «Che tu ci creda o meno, mi preoccupo per lui. Insomma...»

«Ascolta, lo capisco: si tratta di tuo nipote e posso capire che tu voglia in qualche maniera tutelare il benessere suo e di Ariel, nonché quello di tuo fratello, ma Ariel è fatto in una maniera ben precisa e fidati quando ti dico che avrebbe potuto reagire decisamente peggio di così. Se non altro sembra essersi convinto ad andarci piano con la storia del voler partecipare allo scontro contro Olegov e questo è già un progresso.»

Elimar incrociò le braccia e rilassò la colonna contro lo schienale del divanetto color menta pastello. «Non ci spererei troppo» replicò cupo. «Non mi fido più di tanto di Ariel. Insomma... è stato fin troppo semplice per Vargos convincerlo a non combattere nel caso Olegov dovesse presentarsi qui quando ormai la gravidanza è in stato avanzato. Ariel Aguillard non molla mai l'osso così su due piedi, fidati.»

Crystal lo squadrò, aguzzando lo sguardo. «Non ci posso credere» sentenziò, non sapendo se ridere o meno. «Ecco perché sei voluto venire qui: per tenerlo d'occhio!»

«Abbassa la voce, Blondie» lo pregò Ragos, gesticolando con una mano. «È qui vicino e se ti sente poi sono cazzi!»

«Non avrebbe tutti i torti ad arruffare le penne, sai? Ma andiamo! Lo tratti come se fosse un ragazzino irresponsabile!»

«Dopo quel che si è scoperto sui suoi adorabili nonni assassini, credimi sulla parola, non sono il solo a esser diventato paranoico e ad aver paura che quei due stronzi stiano macchinando qualcosa o abbiano addirittura facilitato il compito a Olegov di conoscere i loro scheletri nell'armadio. E se loro vedessero in modo tutt'altro che negativo quel che Olegov intende fare? E se fossero dalla sua parte?»

«Non lo possiamo sapere con certezza.»

«Ellis pensa lo stesso e nessuno meglio di lui conosce quelle canaglie.»

«Si tratta comunque di qualcosa che non possiamo provare al resto della città e alle autorità in generale. Se Vargos per ora ha deciso di non far niente contro di loro, allora un motivo dovrà pur esserci.»

Ragos sbuffò. «Li sta facendo tenere sott'occhio da un paio di tizi di cui si fida, per ora, ma neppure lui è tranquillo e ha paura che i nonni di Ariel giochino al nipote un tiro mancino. Insomma, parliamo di due tizi che hanno ammazzato uno dei loro figli. Quelli là non hanno una coscienza, Crystal.»

«Sì, ne so qualcosa di gente che in teoria dovrebbe amarti e proteggerti, ma invece si rivela il tuo peggior incubo» commentò Hawthorn, sciabolando le sopracciglia. Trattenne un sospiro e si ficcò in bocca una cucchiaiata di gelato al cioccolato guarnito in cima da un soffice fiocco di panna montata spolverata di granella di caramello salato. Di nuovo aveva parlato a sproposito e non si sorprese affatto nell'avvertire su di sé lo sguardo scrutatore del giovane Alfa. Appena ebbe la bocca nuovamente libera si schiarì la voce. «Come già sai mio padre morì quando avevo dieci anni, quindi... finii prima in orfanotrofio o come chiamano oggi quelle dannate strutture e poi venni preso in custodia da una famiglia che in apparenza sembrava del tutto normale. Lui, però, alla fine si è rivelato un pervertito al quale piaceva importunare ragazzini inermi come il sottoscritto. Si è infilato nel mio letto sì e no per quasi tutti e sei gli anni che ho trascorso in quella maledetta casa. Alla fine ho preso e me ne sono andato nel cuore della notte, guardandomi molto bene dal farmi riacciuffare poi dalla polizia o dagli assistenti sociali. Tra il fuggire di casa e il dover vivere per strada o aspettare che lo stronzo si presentasse nella mia camera da letto per sgozzarlo come un animale, ho scelto la soluzione più indolore.» Ormai aveva imparato a conoscere almeno un po' Ragos e uno dei più grandi pregi di quell'uomo era senza dubbio il saper mantenere un segreto. Sapeva che non l'avrebbe raccontato in giro, ecco perché aveva deciso di parlargliene. Lo aveva fatto anche con Gray e con Casey, ma in entrambi i casi, per un motivo o l'altro, aveva cercato di essere il meno crudo possibile, di glissare su gran parte dei dettagli più crudi. Ragos, invece, aveva abbastanza pelo sullo stomaco da esser capace di tollerare certe questioni senza che esse venissero filtrate.

«Porca puttana» mormorò tra sé Elimar, ragionevolmente scosso e disgustato. «E sua moglie non ne sapeva niente?»

«Lo sapeva eccome: una volta provai a dirle cosa stava accadendo e lei si infuriò, disse che ero un bugiardo e che in realtà ero stato io a corrompere in qualche maniera suo marito. Disse che lo avevo fatto perché in fin dei conti non ero normale. Una coppia perbene, vero?»

«Non ci posso credere.»

«Eppure è la verità.» Crystal fece un respiro profondo. «Beh, ora sai perché faccio lo stronzo per la maggior parte del tempo e come mai ho una marea di complessi.»

Ragos lo squadrò. «Non pensavo l'avrei mai detto, ma ti rispetto, Crystal. Cazzo, al tuo posto non so come avrei reagito a una situazione del genere.»

«Probabilmente gli avresti mollato un cazzotto causandogli una morte cerebrale sì e no istantanea» replicò Hawthorn per sdrammatizzare. «Beh, ormai è andata e si tratta di un capitolo chiuso. Sappi che anche io ti rispetto, in fondo in fondo. Insomma, se ho ben capito cosa si prova a perdere qualcuno con cui si condivideva un legame come quello che c'era fra te e Rory, allora dev'essere un inferno e visto che anche io ho conosciuto una piccola fetta di esso, sappi che te la stai cavando bene, Ragos. Probabilmente dovrei scusarmi per averti fatto rinsavire con un calcio nelle palle, ma sono un pessimo bugiardo.»

«Fottiti» sogghignò Ragos, pur rincuorato dalle sue parole. «Spero davvero che tu ti sia goduto quel momento, perché non si ripeterà.»

«Mai dire mai.»

«Provaci e ti stacco a morsi la gamba. Sei avvertito.»

«Sto già tremando, credimi. Voglio proprio sapere come faresti a staccarmi una gamba, visto che sarei lesto a sbatterti il piatto della spada sul muso.»

«Sono veloce anch'io da lupo, Hawthorn.»

«Fammi un favore e va' a divorare Cappuccetto Rosso, anziché sparare puttanate.»

Ragos storse le labbra. «Non farei mai una cosa simile!»

Crystal ghignò soddisfatto. «Come al solito, Elimar, ho vinto io.»

«Spero che il gelato ti vada di traverso, Goldie, insieme alla tua tanto adorata ultima parola su ogni cosa.»

Lo strego soffocò una risata e nel mentre, incuriosito, volse lo sguardo a destra, udendo degli scalpiccii inequivocabilmente infantili arrestarsi proprio a poca distanza da dove sedeva lui. Vide un bambino sui tre anni dai capelli biondo-rossicci e due innocenti occhi cerulei. «Ehi, Jamie» lo salutò, riconoscendolo subito come il figlioletto di Jesse, anch'egli presente al lavoro, quel giorno.

«Ciao, Crys!» esclamò entusiasta il piccolo. «La mamma mi ha portato al lavoro!» aggiunse, elettrizzato. Doveva essere quasi un'avventura per lui trovarsi lì e osservare Jesse mentre lavorava, in effetti, ma Crystal non riusciva proprio a spiegarsi come mai il ragazzo avesse dovuto ricorrere a un piano di emergenza simile. Aveva avuto modo di interagire e conoscere meglio Gardner e da quel che sapeva, quando egli doveva recarsi al lavoro si rivolgeva sempre a una baby-sitter di nome Marguerite, "Peg" per gli amici. «Capisco» replicò, non sapendo bene cosa fare. Da un lato provava l'istinto di caricarsi dell'onere di tener d'occhio quello scricciolo, visto che non si poteva mai star troppo sereni quando si parlava di bambini che potevano anche correre seri rischi, quando non erano supervisionati dagli adulti, ma dall'altro continuava a ripetersi che Jesse fosse in fin dei conti lì e, bene o male, potesse comunque badare da solo al figlioletto.

Alla fine, tuttavia, vinse la parte di lui che proprio non ce la faceva a essere indifferente, quando si trattava dei bambini, di creature innocenti e inermi di fronte ai pericoli del mondo: si spostò di lato e picchiettò un paio di volte sul posto sul quale prima era stato lui a sedere. «Dai, Jamie, salta su. Così almeno la tua mamma saprà che sei con me.» Dal non avere un gran istinto genitoriale all'esser indifferenti nei riguardi di un genitore evidentemente in difficoltà di acqua sotto il ponte ne passava, pensò.

Jamie, sotto lo sguardo comicamente perplesso di Ragos, non se lo fece ripetere e subito si arrampicò sul divanetto, non senza l'aiuto dello strego che soffocò una risata e gli scompigliò i capelli per gioco. «Hai tre anni e ancora non ti sai arrampicare? Che storia è questa, ometto?» lo prese affettuosamente in giro.

Jamie mise su un buffo broncio. «Non è vero, mi arrampico molto bene. È questo coso che è troppo alto, ecco!» protestò, riferendosi chiaramente al divanetto.

«Tutte scuse» lo provocò a bella posta Hawthorn, vedendo nel frattempo Jesse fermarsi al loro tavolo e rivolgergli un'occhiata di pura gratitudine. «Io... i-insomma... grazie, Crystal. N-Non ero molto convinto di portare Jamie con me, ma non sapevo come altro fare» ammise, lasciando una carezza sul capo al figlio.

«Non potevi chiamare Peg come sempre?» gli chiese perplesso il giovane strego.

Jesse sospirò. «Purtroppo oggi aveva un impegno e non poteva aiutarmi. Dovevo presentarmi al lavoro e non ho avuto il tempo materiale per trovare un'alternativa.»

Crystal avrebbe voluto domandargli perché non avesse semplicemente chiamato un'altra baby-sitter, ma credeva di sapere già la risposta e in minima parte di poter comprenderla: prima di affidare il proprio bambino a qualcuno bisognava esser certi della competenza della persona in questione e di poter realmente fidarsi. Jesse era un genitore troppo attento e apprensivo per lasciare tutto al caso. «Se vuoi penso io a lui, oggi. Così tu puoi lavorare senza pensieri e io posso rendermi utile» propose, stringendosi nelle spalle. Badare a Jamie sarebbe stato molto meno complicato di quando aveva dovuto destreggiarsi con tre neonati esigenti come solo i gemelli di Casey e Noah sapevano essere. Quei demonietti, quando sceglievano di render la vita maledetta al prossimo, lo facevano a regola d'arte. Giusto Gwyn poteva esser definito tutto sommato tranquillo, ma i suoi fratelli erano due terremoti.

Jesse esitò. «Io... non vorrei disturbare e poi... beh, magari siete venuti qui per rilassarvi e...»

«Non è un problema per me» intervenne Ragos, stringendosi nelle spalle. Non era del tutto vero e sinceramente non si sentiva fino in fondo a proprio agio quando si parlava di marmocchi e compagnia cantante, ma visto e considerato che avrebbe dovuto per forza farci i conti di lì a qualche mese con il suo futuro nipote, trovava stupido e insensato non imparare almeno un po' ad abituarsi ad aver a che fare con i bambini. Ogni volta che gli capitava di vederne uno, specialmente se aveva al massimo un paio d'anni o poco più, irrimediabilmente tornava a pensare a suo figlio e a come sarebbe stato trovarsi al posto di questo o l'altro padre e accompagnare in un luogo qualsiasi lo scricciolo. Pensava a tutto quel che sarebbe potuto essere e che mai sarebbe stato, alla vita che avrebbe potuto avere nel presente, e sentiva quel dolore sordo, quel senso di vuoto, tornare a picchiettare sulla sua spalla, ma faceva di tutto pur di non voltarsi e non guardarlo negli occhi. Lo rifuggiva sapendo che se non lo avesse fatto, avrebbe ceduto al richiamo, conscio che il vuoto avrebbe avuto il viso di Rory.
Notando l'occhiata un po' dubbiosa di Crystal, si strinse di nuovo nelle spalle. «Davvero, è okay» assicurò sia allo strego che al giovane Omega.

Jesse sembrò convincersi e annuì, sorridendo appena, ma con reale gratitudine. «Grazie a tutti e due. Vi devo un favore enorme.» Si chinò e baciò la fronte al figlio. «Fa' il bravo, Jamie, capito? Comportati bene, mi raccomando.»

«Sì, mamma» rispose docilmente il piccolo. «Mamma?»

Jesse si voltò. «Dimmi.»

«Posso avere anche io il gelato?» implorò Jamie.

Gardner sospirò e scosse la testa, cercando di celare un sorriso. «E va bene, ma uno piccolo.»

«Sì!» Trepidante il bambino osservò il genitore allontanarsi, pregustando già il dolciume che gli era stato promesso.

«Ehi» mormorò Crystal a Elimar. «Sicuro di voler restare? Insomma...» Qualche istante prima aveva visto Ragos osservare Jamie con aria sì teneramente divertita, ma non gli era comunque sfuggito un sospetto e amaro luccichio nei suoi occhi, quello che sempre presagiva l'arrivo di lacrime che era poi arduo ricacciare indietro.

Ragos inspirò profondamente e raddrizzò la schiena, schiarendosi la voce. «Spero solo che il bell'addormentato si decida a svegliarsi, tutto qui» borbottò. «Voglio dire... ha delle responsabilità alle quali far fronte, giusto?»

«Beh...» Crystal alzò gli occhi al cielo. Sapeva bene che Ragos stava solamente accampando scuse, ma decise di reggergli il gioco e rispose, sistemando nel frattempo un tovagliolino dentro il colletto della felpa di Jamie per evitare che si sporcasse col gelato: «Non è che dipenda esattamente da lui. È in coma e finché la situazione rimarrà invariata non penso possa fare granché. Quel tizio avrà tutte le colpe di questo mondo, d'accordo, ma lo stato comatoso non rientra nell'elenco».

«E se non... capisci cosa intendo, no?»

«Fino ad ora Jesse se l'è sempre cavata, Ragos. Se la caverà anche se...»

«Casey mi ha detto che lui e Dominic sono legati, Crystal. Fidati quando ti dico che non è facile fare il genitore e intanto resistere alla voglia smodata di porre fine a una sofferenza di quel calibro. Hai visto cosa accade.»

«Lo so, ma non c'è niente che possiamo fare per dare una spinta agli eventi.» Crystal sospirò. Era chiaro che Ragos, a modo suo, avesse preso un po' sul personale la situazione precaria di Gardner, ma aveva ragione lui a dire che non c'era modo di aiutare Dominic o Jesse. Se Dominic fosse morto, allora a quel punto tutti loro avrebbero dovuto tenere d'occhio quel ragazzo e stargli vicino, aiutarlo a superare la batosta nel migliore dei modi e sperare che mettesse davanti al proprio dolore il benessere di Jamie. Lo angosciava il solo pensiero che quel povero bambino potesse dover fare in conti con quel che era un tempo successo a lui: completamente orfano e lasciato a se stesso, dato in pasto al mondo che aveva sempre fame di innocenti. E Jesse, poi, era un tesoro. Di solito non era solito considerare a questa maniera il prossimo, ma era impossibile non affezionarsi a un ragazzo come Gardner. Nonostante tutto sembrava, per certi versi, innocente e inerme quanto il figlioletto che stava cercando di tirar su con le proprie forze, e questo lo preoccupava.

Se Ragos che era tutto sommato un tipo tosto aveva appena ricominciato a raccattare i pezzi di se stesso, cosa sarebbe accaduto a una persona chiaramente fragile come Jesse? C'era molto da temere, a pensarci bene.

«Parlate del mio papà, vero?» intervenne Jamie, guardandoli a turno con aria triste e imbronciata.

«Uhm... sì» replicò cauto Crystal. «Però...»

«La mamma ha detto che si sveglierà» continuò il bambino, meditabondo. «Però ho sentito la zia Rinnie e la nonna, ieri. Secondo loro papà non sta bene. La nonna ha parlato anche di una spina, ma non so che vuol dire. Papà non è come la tivù e non ha una spina da staccare» concluse perplesso, ignaro di cos'avesse appena rivelato, senza volerlo, a Hawthorn ed Elimar che si scambiarono un'occhiata tesa. Ragos, in realtà, sembrava a un passo dal piangere come un ragazzino e per tale ragione volse altrove il capo, cercando di celare le guance ora bagnate e le labbra contratte dal pianto che faticava a tenere a bada.

Crystal, con molta cautela, cercò di concentrarsi sul bambino. «Lo hai detto alla tua mamma, Jamie?» domandò con tutta la calma di cui era capace. «La mamma lo sa cosa hanno detto la zia e la nonna?»

«Non dovevo sentire, penso, però sì, l'ho detto anche alla mamma. La mamma ha pianto e l'ho abbracciata perché era triste per colpa mia.»

«No, Jamie. Non piangeva per colpa tua» gli assicurò Crystal, capendo subito che era importante che il bambino capisse di non aver fatto niente di male. Aveva solamente ripetuto le parole di Irene e di Cora mentre le due donne pensavano che lui non ci fosse o non potesse udirle. «Non è colpa tua» ripeté, guardandolo negli occhi. «E sono sicuro che il tuo papà si riprenderà presto.» Ignorò con convinzione l'occhiata cupa e quasi accusatoria che Ragos gli lanciò. Cosa si aspettava che dicesse a un bambino di tre anni, esattamente? Che Dominic, per mano dei medici che avrebbero forse staccato la spina o per mano di qualche complicazione, sarebbe presto andato sottoterra? Avrebbe dovuto sapere quanto lui cosa potesse fare la morte di un genitore, di un parente qualsiasi, a un bambino. Era doppiamente devastante perché non tutti i bambini erano in grado di capire la morte e di accettarne le conseguenze. Non tutti i genitori erano in grado di spiegar loro con calma cosa significasse e altri, invece, pensavano di proteggerli da quella triste verità rimandando a un'altra volta, un'altra e un'altra ancora, un discorso di per sé inevitabile.

La morte di una persona cara, però, portava via tutto a un bambino. Lo privava dell'innocenza, per certi versi, e della capacità di vedere il mondo attraverso occhi costantemente meravigliati e traboccanti fantasia e immaginazione.

Non sarebbe stato lui a privare della speranza Jamie. Ci voleva un cuore di pietra per fare una cosa così crudele, dopotutto.

Ragos ricacciò indietro un lungo sospiro mentre svoltava a sinistra, dopo essersi assicurato che nessuna macchina fosse in circolazione all'incrocio che aveva raggiunto.
Crystal aveva ricevuto una telefonata da Gray che lo aveva invitato a mangiare una pizza fuori assieme e lui, dunque, aveva incoraggiato Hawthorn ad accettare l'invito, assicurandogli che avrebbe continuato a tener d'occhio Jamie nell'attesa che il turno di Jesse terminasse.

All'inizio non era stato semplice, ma nelle tre ore seguenti al congedo di Crystal, un po' alla volta, la situazione era migliorata e non era stato un enorme dramma aver a che fare con Jamie. Quel marmocchio, d'altronde, non era una peste e si era comportato bene fino a quando Jesse non li aveva raggiunti.

Ragos non sapeva bene cosa lo avesse spinto a offrire un passaggio a Jesse che, in teoria, di solito per spostarsi usava i mezzi pubblici, non avendo ancora soldi a sufficienza per procurarsi un'auto; non se l'era sentita di lasciar perdere, visto che si era fatto buio, e probabilmente era stata la coscienza ad agire al suo posto.

Gettò un'occhiata alla propria destra e vide che Jamie si era assopito in braccio a Gardner. Esitò. «Qualche ora fa... ha detto a me e a Crystal di... insomma... della situazione di Dominic. Di aver sentito Irene e Cora, ecco.»

Vide Jesse irrigidirsi un poco e limitarsi a non replicare.

«Mi dispiace» aggiunse Elimar, sincero. «Non è giusto e vorrei davvero poter fare qualcosa.»

Jesse sistemò meglio fra le braccia Jamie, ben attento a non svegliarlo. «A meno che tu non sia capace di compiere miracoli, non penso che esista qualcuno capace di rimediare alle condizioni di Nic» replicò, fallendo nel suonare ironico. Difficile esser presi sul serio quando si aveva la voce incrinata e ridotta quasi a un flebile sussurro. «Sinceramente... quando mi hanno detto cosa gli era accaduto, non sono rimasto stupito. Nic era così, almeno finché siamo rimasti insieme. Era quel tipo di persona che volentieri si sarebbe preso una pallottola per qualcuno. Quel che invece mi ha fatto star male e tolto il sonno è stato sapere cos'aveva fatto a Casey. Quel ragazzo mi raccontava degli abusi che aveva dovuto sopportare e io, intanto, dentro di me andavo ripetendo che non poteva trattarsi di Dominic, non della persona che avevo conosciuto e che amavo. Mi sento in colpa, adesso, a sperare ancora che lui possa rimettersi. Ha fatto cose orribili a una persona innocente, cose che io stesso non posso perdonargli.»

Ragos deglutì. «Suo padre gli ha fatto il lavaggio del cervello. Non è una scusa vera e propria, ma Simon ci ha comunque messo del suo per trasformarlo in quel che è diventato. Non devi sentirti in colpa se lo ami ancora. Amare non è mai una colpa, Jesse.»

«Peccato che io ami un mostro» si lasciò sfuggire Gardner, passandosi velocemente il dorso di una mano sotto entrambi gli occhi. «Un mostro che non sono certo che riuscirei a guardare negli occhi, se riuscisse a rimettersi dal coma. Credo che tutti o quasi meritino il perdono, una seconda possibilità, ma poi penso a Casey e mi rispondo che non tutto è perdonabile. Potevo esserci io al suo posto.»

«Non credo» lo rimbeccò Ragos. «Lo hai detto tu che era diverso, no?»

«L'ho detto, ma spesso e volentieri le persone finiscono per diventare quel che sono state sin dal principio. Quel che nel profondo sono davvero. Il Dominic che conoscevo non mi avrebbe mai picchiato o maltrattato, è vero, ma non posso sapere che sarebbe stato così anche dopo due anni, cinque o dieci.» Il giovane Omega si sfiorò il retro del collo e invano cercò di celare una smorfia. «Mi sono davvero convinto a tornare a Caverney Town quando ho avvertito qualcosa di strano e solo dopo aver parlato con Vargos e Cora ho saputo dare un nome alla sensazione di dolore atroce che avevo avvertito una sera. Era stata così intensa da svegliarmi nel cuore della notte e strapparmi un grido. Jamie era persino corso in camera mia, spaventato a morte. E ora... ora lo sento mentre lentamente si avvicina alla morte. So che sta morendo e ormai non ha più importanza cosa dicono o meno i medici.»

Elimar strinse le mani sul volante. Le dita gli tremavano. «È il marchio.»

«Casey ha detto di non aver sentito nulla del genere e anche lui è stato marchiato.»

«Casey non ama Dominic, Jesse. Lo odia tutt'ora, anzi. Ecco perché non sente niente. Il vincolo non funziona come dovrebbe perché Casey non è stato morso di sua spontanea volontà ed è successo mentre provava dolore, mentre era terrorizzato. C'è tutta la differenza del mondo, credimi.»

L'Omega esitò. «Io... Io ho saputo di... insomma...»

Ragos sospirò. «Cosa si prova, giusto?» Vide Jesse annuire. «È atroce e non migliora col tempo. È come se una parte di te andasse perduta per sempre in una voragine oscura e fredda. Se la persona alla quale sei legato se ne va, ti trascina in un certo senso con sé per sempre.» Trovava stupido e irrispettoso indorare la pillola a Jesse. Era uno schifo totale vivere a quel modo e non lo avrebbe augurato a nessuno, se non a Olegov, pur sapendo che per soffrire come un cane occorresse prima esser dotati di un cuore e quel bastardo, purtroppo, non ne possedeva alcuno. «Lascia che ti dica una cosa, però: qualunque cosa possano dirti il dolore e il senso di vuoto, non devi starli a sentire. Se Dominic dovesse morire, Jesse, tu non ascoltare quella voce che ti ripete di seguirlo. Pensa a tutto, tranne che a quello. Pensa a tuo figlio e concentrati su di lui. Vivi per lui.»

Jesse era giustamente sconvolto davanti al quadro che Ragos gli aveva appena presentato. «Ma... io credevo che...»

«Provarlo sulla propria pelle è un altro paio di maniche, Jesse. È tremendo, ecco perché ti sto mettendo in guardia. Se Dominic dovesse peggiorare fino al punto di non ritorno, tu dovrai essere pronto ad assorbire il colpo. Arriverà e farà male. Davvero male. Per me è stato come vedere ogni colore sparire dalla faccia del pianeta.»

Gardner strinse a sé per semplice istinto il figlioletto addormentato che continuava a sonnecchiare alla maniera di un cucciolo di koala aggrappato alla madre. «Allora spero solo che un giorno io riesca a guardare avanti. Non per me, ma per Jamie. Vorrei solo che crescesse in una famiglia completa, con un padre degno di questo nome. Alcuni bambini dell'asilo nido, l'anno scorso, non gli parlavano più dopo che i genitori avevano detto loro di evitarlo. La madre di uno di loro, quando le ho chiesto come mai avesse proibito al figlio di parlare con Jamie, visto che erano persino diventati amici, mi rispose che non voleva che il suo bambino crescesse pensando che fosse normale avere un solo genitore, uno per giunta che non si era neppure sposato prima di avere un figlio. È anche per questo che ho accettato subito di seguire Dominic qui. Non ce la facevo più a vedere Jamie tornare sempre in lacrime dalla scuola materna perché gli altri bambini si rifiutavano di parlargli o di giocare con lui.»

Elimar sentì lo stomaco contrarglisi. Jesse sperava in qualcosa di impossibile, purtroppo. Per quanto potesse esser in buona fede, le sue erano speranze malriposte. «Come se al giorno d'oggi fosse ancora fondamentale esser sposati per avere dei figli» commentò sdegnato, scegliendo di tacere, anziché sbattere in faccia a Jesse la verità peggiore di tutte. «Lo avessero detto a me, tempo due secondi e si sarebbero ritrovati con la faccia rivoltata a suon di cazzotti. Crescere un figlio da soli non è una bazzecola e chiunque ci riesca andrebbe rispettato. Cristo, io non saprei dove mettere le mani.»

Jesse sbuffò una debole risata. «Non sono il tipo capace di rivoltare la faccia a chicchessia» ammise. «E non so quanto rispetto io possa meritare. In un primo momento ho pensato di dare in adozione Jamie. All'inizio credevo di poter farcela, ma poi ho iniziato a dubitare di me stesso: mi trovavo in una città che non conoscevo e avevo dovuto lavorare fino alla fine della gravidanza per avere un tetto sopra la testa. Pensavo che non sarei riuscito a gestire un neonato e a guadagnarmi da vivere, quindi... ho davvero pensato di affidarlo a una famiglia che potesse prendersi cura di lui, ma poi... quando me lo hanno messo fra le braccia non ce l'ho fatta a separarmi da Jamie. Sentivo che se lo avessero portato via da me, probabilmente ne sarei morto.» Posò un baciò sui soffici capelli del figlioletto. «Non è stato semplice, ma preferirei tagliarmi un braccio piuttosto che separarmi dal mio piccolo raggio di sole. Ero a pezzi per aver dovuto rifiutare tutte le chiamate di Dominic, dopo che me n'ero andato senza preavviso. Mi rifiutavo di parlargli, di spiegargli tutto, e intanto suo figlio cresceva dentro di me, ignaro che suo nonno avesse minacciato di seppellirci entrambi nel cemento se avessi fatto parola della gravidanza con Dominic. Quando Nic ha smesso di chiamarmi, convinto che non volessi più aver a che fare con lui, è stato allora che il mondo mi è crollato addosso completamente. Sapere che aveva smesso di cercarmi mi fece sentire completamente solo. Le mie mamme cercavano disperatamente di capire come mai me ne fossi andato e solo quando sono tornato a casa hanno saputo di Jamie, di ciò che Simon mi aveva detto.» Scosse la testa e forzò un sorriso. «Non volevo scaricarti addosso la triste storia della mia vita. Scusami.»

Ragos, tuttavia, era ben lungi dall'esser annoiato dopo aver udito quell'amaro resoconto della vita di Jesse durante e dopo l'imprevista gravidanza che gli era costata un autentico esilio dal luogo in cui era nato e cresciuto. «Casey è stato fin troppo clemente a sparare a semplicemente a Simon. Avrebbe dovuto fracassargli il cranio a suon di pedate» quasi ringhiò, tanto da lasciare un po' interdetto Jesse, il quale fece del proprio meglio per non guardarlo a bocca aperta. «Sembri odiare molto Olegov e Simon Tarren» si permise d'osservare, cauto.

«Mettiamola così», ribatté il giovane Alfa, tenendo gli occhi fissi sulla strada, «quei due hanno rovinato l'esistenza a un bel po' di persone. Stefan l'ha guastata anche al sottoscritto, quindi sì... odio quei due mostri. Non importa che uno di loro sia morto e sepolto. Quel che hanno fatto entrambi per anni continua tuttora a causare un effetto a catena di proporzioni terrificanti. Io non sarò un santo, per carità, ma posso almeno vantarmi di non aver mai fatto intenzionalmente del male ad anima viva.»

Jesse esitò. «Qualunque cosa Stefan abbia fatto, mi dispiace. Se quel che so sul suo conto è vero, allora deve essersi macchiato di colpe terribili. Vorrei solo che Nic, in qualche maniera, non si fosse reso suo complice.»

In qualche maniera aver preso coscienza dell'operato di Dominic lo aveva condotto a sentirsi in un certo senso sporco per il semplice fatto di nutrire nei suoi riguardi sentimenti che, a dire di Casey, quell'uomo aveva dimostrato platealmente di non meritare poi così tanto.
Davvero assurdo che avesse abbandonato Silentwater, la cittadina Alphaga in Florida dov'era andato a rifugiarsi e nella quale aveva messo al mondo Jamie, solamente per far conoscere finalmente a quel bambino il padre biologico, sperando che la morte di Simon avesse posto fine a quella sorta di esilio; assurdo era poi stato tornare a Caverney Town solo per scoprire che Dominic era finito in coma dopo aver reso la vita maledetta al nipote di Milton Leroin, quel burbero vecchietto del quale Sam Evans, un ragazzo che lui al liceo aveva frequentato per un breve periodo, da bambino era stato solito rovinare le aiuole. Ricordava di aver scorto, di tanto in tanto, il nonno di Casey presentarsi assieme alla figlia, Lidia, agli eventi scolastici ai quali Casey aveva preso parte negli anni di scuola.

Jesse non aveva mai avuto modo di conoscere il ragazzo molto bene, se non di vista, e mai si sarebbe potuto aspettare che a unire le loro esistenze sarebbe stato, infine, Dominic stesso nel peggiore dei modi. Non avevano mai affrontato l'argomento riguardante i loro rispettivi figli, fino ad allora, e forse mai l'avrebbero fatto: Casey, a ragion veduta, voleva solamente dimenticare tutto e far crescere i suoi bambini con la convinzione che Noah fosse il loro papà e Jesse, dal canto proprio, trovava che raccontare la verità a Jamie e ai gemelli sarebbe stata un'azione foriera solamente di ricordi brutti e dolorosi. Rivelare ai quattro di essere in realtà fratellastri, di avere lo stesso padre, avrebbe poi portato a dover spiegare come ciò fosse stato possibile e, dunque, a confessare di come Ronan, Elias e Gwyn fossero stati generati nel dolore e nella violenza, anziché dall'amore come invece era accaduto nel caso di Jamie. Forse, per il quieto vivere di tutti loro, era meglio lasciare che ogni cosa venisse fagocitata dall'oblio un po' alla volta.

Si riscosse udendo Elimar chiedergli qualcosa e si rese conto che la macchina si era fermata. «Cosa?» fece spaesato Gardner.

Ragos lo scrutò, poi ripeté e accennò al complesso di appartamenti a schiera di fronte ai quali la sua auto stava sostando. «Vivi qui, giusto?»

«Uhm, sì» rispose Jesse, riprendendosi. «Grazie per il passaggio. Ti devo un favore.» Recuperò la borsa a tracolla e sistemò meglio fra le braccia il figlioletto.

Ragos esitò. «Se vuoi farmi un favore, fa' attenzione, Jesse. Non sono tempi sicuri, questi, quindi tieni gli occhi aperti.» Quell'Omega, in un modo o nell'altro, era comunque coinvolto con i Tarren e forse Olegov lo considerava un bersaglio proprio per via del legame che aveva avuto con Dominic, ovvero la persona che aveva in un certo senso tradito il padre e mandato all'aria i piani del vecchio Tarren e di Stefan. Nessuno di loro era al sicuro, vero anche questo, ma lo erano ancor meno quelli come Jesse che si ritrovavano invischiati loro malgrado in questioni rischiose.

Jesse deglutì, inquieto, e capì che Elimar non stava affatto scherzando né esagerando. «Farò del mio meglio» ribatté, per poi abbozzare un debole sorriso. «Sei davvero un bravo ragazzo, Ragos.»

Il giovane Alfa fece una smorfia, fingendosi stizzito. «Oh, andiamo! Parli come una vecchietta che ho appena aiutato ad attraversare la strada!»

Jesse si lasciò sfuggire suo malgrado una risata accennata. «Sì, in effetti suonava un po' datata come frase, ma a mio parere è sempre bene fare un complimento a chi se lo merita sul serio.» Aprì la portiera e si fermò un secondo, voltandosi nuovamente a guardare Ragos. «Sai... non so come la pensi Vargos, ma io sarei stato felice di avere un fratellino come te.»

Per qualche motivo quell'ultima frase fece tutt'altro che inorgoglire Ragos, il quale, lievemente basito, mosse la mano per salutare Jesse e lo osservò avviarsi verso i gradini dell'appartamento a schiera nel quale abitava.

«Fratellino? Sul serio?» borbottò infine stizzito. E dire che si era fatto crescere la barba proprio per guadagnare qualche anno in più e non esser considerato il "fratellino di Vargos". Prima Crystal che gli dava del marmocchio e ora Jesse. «Che vita grama» continuò a borbottare, rimettendo in moto la macchina e tornando a immettersi nel traffico.

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