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𝐗𝐈𝐗. 𝐈𝐧𝐠𝐫𝐚𝐧𝐚𝐠𝐠𝐢 𝐢𝐧 𝐦𝐨𝐯𝐢𝐦𝐞𝐧𝐭𝐨


Vargos posò il telefono accanto a sé sul divano e trattenne una lieve smorfia quando, ancora una volta, il batuffolo d'ovatta retto da un paio di pinze sterili e imbevuto di disinfettante venne picchiettato con meticolosità e delicatezza sui profondi segni di artigli ancora freschi e sanguinanti. Erano così profondi da render possibile intravedere oltre di essi i tessuti di solito protetti dall'epidermide. 

«So che brucia, ma la buona notizia è che abbiamo quasi finito» lo rassicurò il buon samaritano che lo aveva soccorso circa una ventina di minuti dopo l'incontro a dir poco spiacevole e non così tanto inatteso con Stefan Olegov in persona; era accaduto poco dopo che aveva ricevuto la chiamata di Ariel, proprio mentre era in viaggio in auto con Irene per far ritorno a Mythfield. Irene, da donna impavida, coraggiosa e carica di spirito di vendetta, era andata su tutte le furie vedendo Stefan attaccarlo e ferirlo, si era fatta avanti e aveva ingaggiato una lotta con il criminale in questione, ma lui si era rivelato troppo forte anche per lei.
Vargos, sapendo di dover rimandare a un'altra volta lo scontro, specialmente viste le condizioni di Irene, aveva preso fra le braccia l'amica d'infanzia, era corso perdifiato fino alla propria macchina ed era riuscito a sfuggire a Olegov. Per via delle ferite, tuttavia, e del sangue che aveva perso, il controllo del mezzo era venuto meno e per un soffio era andato vicino all'andare fuori strada e allo schiantarsi contro gli alberi che costeggiavano la carreggiata extraurbana.

Era stato allora che aveva scorto un'auto giungere da una direzione opposta e aveva deciso di scendere e di provare a fermare il conducente per ricevere i dovuti soccorsi. Fortunatamente era andata così ed era certo di avere dalla propria parte il favore di una buona stella, dato che era incappato in nientemeno che un medico di ritorno dal proprio turno dall'ospedale locale. Il giovane seguace di Esculapio in questione, dopo le brevi e frettolose spiegazioni di Vargos, aveva deciso di scortare tutti e due i giovani Alfa presso il pronto soccorso e, terminati gli accertamenti e le medicazioni, di ospitarli per un paio di giorni per assicurarsi, da bravo dottore che teneva alla salute altrui, che ambedue i ragazzi stessero davvero bene e fossero fuori pericolo. Fino ad allora si era dimostrato inappuntabile e ospitale e, naturalmente, aveva prestato assistenza a Vargos e ad Irene senza batter ciglio cambiando loro i bendaggi e occupandosi delle ferite.

Solo in seguito al ritorno dal pronto soccorso e al termine dell'emergenza si era presentato come il dottor Jordan Forst, per gli amici più stretti Jordi. Brevemente aveva raccontato ai due inattesi ospiti di aver iniziato a esercitare la professione di medico da poco e di esser riuscito a conseguire gli studi di medicina contro il parere dei genitori che avrebbero voluto vederlo portare a casa un genero e un nipotino, anziché una laurea. Nulla di nuovo sotto il sole, purtroppo, ed era per tale divergenza d'opinioni che Jordan si era discostato dalla famiglia e aveva scelto di trasferirsi a Boulême: per accettare il posto di lavoro offertogli nell'ospedale della città in questione e vivere la propria vita in santa pace.

Ariel, con il quale Vargos aveva appena smesso di parlare al cellulare, aveva tempestato Elimar di domande e lo aveva sottoposto a una doccia di rimproveri dettati più dalla preoccupazione e dal sollievo di sapere che Olegov non fosse riuscito a far secchi lui e Irene, più che dalla collera. Lo aveva pregato, ancora una volta, di tornare presto a casa e, per quanto grato a Forst per il tempestivo e salvifico intervento, di non farsi sfuggire informazioni vitali con il dottore. Eroe o meno della situazione, era comunque una persona esterna agli affari di Mythfield e alla questione di Olegov e di quei tempi non ci si poteva fidare troppo di nessuno.

Vargos, dopo aver ascoltato le raccomandazioni di Ariel e le sue ramanzine, si era limitato a sorridere tra sé e a dirgli che non vedeva l'ora di riabbracciarlo. Per un attimo era stato sul punto di dirgli che lo amava, ma all'ultimo aveva ripiegato su parole foriere di sentimenti più sfumati e meno costrittivi. Fino ad allora né lui né Ariel avevano parlato apertamente di amore e detto di amarsi e in ogni caso Vargos non pianificava di farsi avanti con Aguillard attraverso la cornetta di un cellulare. Se doveva dirglielo, allora lo avrebbe fatto a voce, guardandolo dritto negli occhi e tenendo le sue mani strette fra le proprie.

Una dichiarazione importante imponeva circostanze altrettanto speciali, dopotutto.

Il governatore di Mythfield guardò Forst. «Sono un po' fifone quando si tratta di medicazioni e quant'altro, non lo nego» disse tra il serio e il faceto. «Scherzi a parte... ti sarò debitore a vita per aver aiutato me e Irene. Non so se sarei riuscito ad arrivare da solo fino all'ospedale, se tu non fossi passato di lì proprio in quel momento.»

Jordan distolse i grandi e felini occhi cerulei dalle ferite di Elimar e li trasferì su quelli grigi di quest'ultimo, abbozzando un lieve sorriso. «Per così poco! È il mio lavoro prestare soccorso al prossimo, no? Non sentirti in debito con me. Onestamente ad avermi preoccupato di più, lì per lì, è stata la tua fidanzata. Era conciata piuttosto male, ma per fortuna Boulême può vantare un servizio sanitario impeccabile. Ha l'aria di essere una ragazza forte e questo l'ha sicuramente aiutata a tornare in piedi senza problemi.»

Vargos arrossì vistosamente. «L-Lei non è... s-siamo amici sin da bambini, e-ecco tutto» biascicò. «La persona con cui ho parlato poco fa era il mio compagno» aggiunse, notando l'espressione confusa di Forst.

Il medico, comprendendo di aver commesso un errore di giudizio, si fece mortificato. «Perdonami» replicò imbarazzato. «Ho pensato che foste una coppia di fidanzati che era stata aggredita da qualche malvivente nei paraggi. Ultimamente... beh, stanno accadendo cose molto strane e inquietanti in questa zona e la gente ha iniziato a circolare per le strade armate e a barricarsi in casa non appena cala il buio. Ho supposto che tu e Irene foste una coppia di forestieri di passaggio e che aveste avuto un brutto incontro.»

Elimar sospirò. «Su questo non sbagli» ammise cupo. «Siamo stati aggrediti, in effetti, e siamo arrivati a Boulême proprio per sapere qualcosa in più circa i recenti delitti verificatisi in città.»

Jordan annuì, facendo oscillare lievemente le lunghe ciocche di capelli biondo-ramati e ricci raccolti in un nodo di fortuna. Era un Omega la cui avvenenza avrebbe potuto benissimo concorrere con quella di Ariel, anche se si parlava, nel caso di Forst, di una bellezza maggiormente eterea e fredda, quella di qualcuno le cui ascendenze risalivano ai freddi fiordi norvegesi, alle brughiere d'Irlanda oppure, magari, alle Highlands scozzesi. Se solo Vargos non fosse stato un uomo notoriamente leale, nonché invaghito perso del figlio dello sceriffo di Myhfield, probabilmente avrebbe trovato l'aspetto esteriore del giovane medico un'autentica tentazione difficile da ignorare e da non cogliere al volo. Vargos, però, era una persona ciecamente fedele e dedita al rispetto incondizionato nei riguardi dei propri partner e ciò lo aveva fino ad allora reso pressoché immune al fascino di Forst. «Dunque sapete del cosiddetto mostro di Boulême» sentenziò il dottore, riponendo nella bacinella di lucido metallo pinze e ovatta. «Forse lo avete incrociato, stanotte, e questo vi rende i primi superstiti in assoluto da quando queste orrende mattanze sono iniziate» concluse.

Vargos sapeva bene di non dover rivelare contenuti sensibili circa questioni ben precise, ma non se la sentiva di mentire a Jordan proprio riguardo alla questione del cosiddetto mostro di Boulême. «Non credo si trattasse dello stesso mostro di cui parli tu» replicò vago. «Aveva l'aspetto di una persona comune, solo... si trattava di un autentico delinquente matricolato.»

Forst lo squadrò confuso. «Come puoi esserne sicuro? Chiunque potrebbe trovarsi dietro ai delitti di Boulême.»

Stavolta Elimar non ribatté. «Non lo so» disse infine. «È una sensazione, mettiamola così.»

Il giovane medico lo scrutò con una buona dose di scetticismo. «Sei forse un sensitivo?» incalzò ironico.

«Può darsi» scherzò Vargos. 

Jordan inspirò tra sé con l'aria di chi aveva ben compreso di dover farsi gli affari propri e di trovarsi di fronte a una causa persa. «Sia come sia, tu e la tua amica avete avuto una fortuna sfacciata a uscire incolumi dall'aggressione che avete subito. Chiunque sia stato ad attaccarvi... beh, sembrava avere tutta l'intenzione di farvi a pezzi.»

«Non sbagli» si concesse di ammettere il governatore di Mythfield. 

Forst abbozzò un debole sorriso. «Beh, se mai avrò dei figli, potrò raccontare di quella volta in cui prestai soccorso a nientemeno che Vargos Elimar, il pezzo grosso Alphaga di tutta la Louisiana e non solo!» 

Vargos lo fissò interdetto. «C-Come sai che sono...»

«Non rammento di aver mai sentito nominare altri uomini con il tuo stesso, identico nome. È piuttosto difficile non ricollegare la tua identità a quella del famoso governatore di Mythfield che si batte per la tutela di quelli come me e degli emarginati» spiegò con cristallina semplicità Jordan. «Non mi hai rivelato il tuo cognome, ma fino a prova contraria leggo i quotidiani, tanto per dirne una.» Si fece sfuggire una lieve, sincera e musicale risata vedendo l'espressione di Elimar. «Deduco tu non sia abituato a lavorare sotto copertura, dico bene?»

«In effetti di solito è mio fratello a occuparsi di indagare direttamente sui luoghi dove sono avvenute determinate cose» biascicò Vargos. 

«Beh, ora si spiega la tua presenza qui a Boulême» sentenziò Forst, per poi esitare. «Girano delle voci preoccupanti su Mythfield e... i-insomma... su Stefan Olegov. Dicono che potrebbe rappresentare una seria minaccia per la tua città e non solo. È vero?» 

La palpabile tensione che sconfinava nella paura presente negli occhi cerulei di Jordan spinse Vargos ad aprirsi un minimo, quel che bastava a rassicurare il giovane medico: «Non temere, me ne sto occupando insieme ad altre persone alle quali affiderei la mia stessa vita. Olegov, presto, non sarà più un problema né di Mythfield né di altre città. Non so quanto fossero allarmanti le voci che hai sentito, Jordan, ma credimi: andrà tutto bene. Abbi fede in questo».

Jordan fece un debole cenno con la testa. «Cercherò di averne» concesse. «Spero solo che quell'essere ignobile la smetta per sempre di dare problemi a tutti. È da quando ero un ragazzino che vivo con il suo spauracchio, proprio come tanti altri miei coetanei, e gradirei finalmente poter vivere in santa pace senza che il nome di Stefan Olegov di tanto in tanto torni a saltar fuori e a far tremare tutti quanti.» Il ragazzo storse le labbra. «I miei genitori la pensano tutt'ora come lui su molte questioni. Sono dei conservatori fatti e finiti e continuano a denigrarmi per aver scelto di avere una carriera, anziché una monotona vita fra quattro mura trascorsa a correr dietro a dei marmocchi urlanti e a un marito che a malapena mi considera.»

Vargos sospirò. «Purtroppo alcuni tendono a voler per forza vivere nel passato e non sempre si ha la possibilità di far cambiare loro idea. Alcuni sono ciechi per scelta e vedono solo ciò che vogliono vedere.» Fece una pausa. «Anche il mio compagno la pensa come te, ma spero di farlo ricredere. Ho sempre pensato che quando si è una coppia la cosa fondamentale sia avere un rapporto paritario. Le persone vanno amate, non esibite come trofei.»

Forst sbozzò un sorriso amaro e malinconico. «Il tuo compagno è una persona davvero fortunata, Vargos. Magari la pensassero tutti come te. Sai... anch'io avevo qualcuno al mio fianco, tempo fa, ed era... beh... una brava persona. All'inizio non mi fidavo un granché di lui perché temevo che volesse ingabbiarmi, ma poi sono andato oltre le apparenze e ho scoperto un autentico tesoro. Stare con lui mi rendeva libero, paradossalmente. Il periodo più felice di tutta la mia esistenza, se devo esser onesto.»

Elimar sbatté le palpebre. «E cos'è andato storto?» chiese cauto. Il medico aveva parlato al passato del proprio partner e ciò lo induceva a supporre che qualcosa si fosse frapposto fra Jordan e la felicità.

«È morto» ribatté Jordan, forzando un mesto e nostalgico sorriso che, naturalmente, non provvide affatto a riscaldare il suo sguardo ceruleo che riecheggiava di perdita e cordoglio. 

Vargos esitò. «È per questo che in realtà ti sei allontanato dalla tua famiglia e dalla città in cui sei nato?»

«Anche» replicò Forst, trattenendo un lungo sospiro. «Cosa non si farebbe pur di dimenticare, giusto?»

«Mi dispiace, Jordan. Davvero.»

Il giovane dottore mosse una mano e scosse la testa. «È successo un sacco di tempo fa e, bene o male, ho ritrovato un po' di stabilità e pace. Certo, come ben sai il marchio che porto con me mi spinge a formulare tremendi pensieri, di tanto in tanto, ma suppongo sia normale avere delle brutte giornate, specie quando perdi l'amore della tua vita.»

Elimar sentì il cuore stringersi e non poté non ripensare a Ragos e anche al povero Jesse, e ancora a suo padre, a tutti coloro che si erano visti sottrarre la persona amata anzitempo e in tragiche circostanze. Quell'argomento, inevitabilmente, lo aveva spesso sfiorato e reso partecipe da molto vicino delle conseguenze negative del legame fra due Alphaga uniti dal fantomatico marchio. Lo addolorava sapere che anche Jordan avesse dovuto assaporare il terribile retrogusto dell'amore, per giunta in giovane età. Aveva detto di avere ventinove anni, infatti, e da Omega sarebbe vissuto almeno per altri due, tre o, se fosse stato fortunato e non fosse incappato nei soliti problemi di salute noti al suo genere, quattro decenni con quel peso sul cuore e nell'animo. Quarant'anni di dolore e notti trascorse a soffocare le lacrime in un cuscino erano quasi un'eternità per chi era condannato a sentirsi solo anche nel bel mezzo di una stanza affollata.

«Perdonami se ho chiesto troppo» disse infine il giovane Alfa, quasi in un sussurro. Temeva di aver sfiorato corde che non avrebbe dovuto mai toccare e ridestare nel suo salvatore un dolore di tale calibro era stato un pessimo modo di ringraziarlo per l'aiuto che aveva prestato a lui e ad Irene. «Le mie condoglianza, comunque. Anche io ho perso molte persone che mi erano care e anche se non è proprio la stessa cosa, in parte so come ci si sente. Hai tutta la mia comprensione e vicinanza, per quel che vale, e... se ti andasse di parlarne o di sfogarti, io sono pronto ad ascoltarti, Jordan. Sul serio, non farti problemi. Questo e altro per te, dato che ti devo la vita.»

Jordan si morse il labbro inferiore, indeciso se porre fine alla conversazione e pensare piuttosto a ripulire la bacinella e gettarne via il contenuto oppure, invece, restare e togliersi un peso ben preciso che, silenzioso, campeggiava come un'ombra nei suoi occhi. Alla fine optò per la seconda scelta: prese posto accanto al governatore di Mythfield e giunse le mani fra le ginocchia, la schiena sempre ben diritta e lo sguardo puntato sul tappeto. «Non l'ha mai saputo nessuno, eccezion fatta per... beh, naturalmente i miei genitori e un paio di parenti stretti. Assurdo che proprio ora voglia confidarmi con te che sei a dir poco uno sconosciuto, ma... dicono che a volte gli sconosciuti siano le persone perfette alle quali raccontare un segreto. Non corri alcun pericolo perché sai che non li rivedrai più e che probabilmente finiranno per dimenticarsene, a patto che tu non dica loro che hai ammazzato qualcuno e lo hai seppellito sotto un'aiuola del tuo giardino!» Sbuffò una debole risata. «Non è solo per via della morte del mio compagno che me ne sono infine andato. La sua scomparsa... beh... non è stata altro che la famosa goccia dentro un vaso che di crepe ne aveva già troppe da tempo. C'è una cosa che mi porto dentro da anni e anni, anzi... una colpa. Sarebbe molto meglio chiamarla così. Una colpa che rimpiangerò sempre.»

Vargos esitò, poi gli posò una mano su un avambraccio per mostrargli vicinanza e silenziosa solidarietà. «Qualunque cosa sia, non la riferirò a nessuno, Jordan. Sono bravo a mantenere i segreti, credimi.»

Jordan fece un respiro profondo. «Prima di incontrare l'uomo di cui mi sono innamorato e che poi ho avuto l'onore di avere come marito... incappai in una situazione della quale continuo a portare i segni. Avevo quindici anni quando conobbi un ragazzo di qualche anno più grande di me e iniziai a frequentarlo e... sedici quando scoprii di aspettare un bambino e lui... lui non volle saperne niente. Fece finta di nulla, rinnegò addirittura il proprio legame con quella creatura e con me. Disse che ero stato io a vedere nel nostro rapporto qualcosa che mai c'era stato. Fu capace di dirlo anche davanti ai miei genitori e loro, da bastardi qual erano, gli credettero. Non mi avevano mai stimato granché, mai ero stato abbastanza per loro. Mio padre avrebbe voluto tanto un figlio Alfa capace di mantenere il cognome di famiglia e di essere l'orgoglio di tutti, ma nacqui io e per svariati motivi lui e mia madre dovettero accontentarsi. Puoi ben immaginare, dunque, cosa accadde quando rivelai di essere gravido e venni per giunta trattato da idiota dalla persona per la quale avevo perso la testa. Gli avevo dato tutto di me, ogni cosa, ma a lui non importava. Andò per la sua strada e io venni tenuto segregato in casa per mesi. Che volessi o meno il bambino, lo avrei dato alla luce in ogni caso perché in famiglia aborti e quant'altro erano fuori discussione. Lo sbaglio era stato mio, dicevano, e dovevo avere il coraggio di espiarlo fino all'ultimo giorno.»
Una pausa.
«Era un maschio e arrivò in perfetto orario. Ricordo che era notte e faceva freddo, fuori dalla finestra vedevo la neve danzare nell'aria. Udivo il vento sospirare contro il vetro mentre davo alla luce il mio bambino. Dovetti farlo da solo. Mio padre non voleva un medico perché temeva che potesse rivelare in giro a qualcuno dell'onta della nostra famiglia, quindi... ero spaventato, un focolaio vivente di dolore e fatica. Fu traumatico, ma poi, quando lo vidi sulle lenzuola mentre si dibatteva e vagiva così forte da sfondarmi i timpani, sorrisi e piansi. Ero felice e... orgoglioso, in un certo senso. Malgrado tutto, malgrado detestassi suo padre per avermi abbandonato e rinnegato, ero felice perché sapevo di non essere più solo in quel vortice di vergogna. Ero convinto che lo avremmo attraversato e sconfitto insieme, io e quel piccolo miracolo. Lui avrebbe dato forza a me e io mi sarei preso cura di lui, lo avrei cresciuto e amato. Ero solo uno sciocco ragazzino di sedici anni, però, e feci appena in tempo a stringerlo a me prima di vedere mio padre entrare in camera mia, raggiungere il letto e strapparmi dalle braccia il piccolo. Ricordo il pianto disperato di quella povera creatura e anche il mio. Ricordo le mie suppliche, la crisi isterica che ebbi in seguito e dalla quale a stento riuscii a riprendermi dopo settimane di vuoto e senso di perdita.»
Forst serrò le dita di entrambe le mani sulle ginocchia. Lo fece con una dose di rabbia mai sopita, con rancore e sofferenza. 
«Mi tennero rinchiuso in camera per giorni e quando finalmente mi concessero di uscire... seppi che avevano deciso di affidare il bambino a uno dei miei cugini e alla sua compagna che, purtroppo, non riuscivano ad avere figli loro. Abitavano lontano, ma non si erano fatti pregare due volte prima di raggiungere casa nostra e accettare la custodia di mio figlio. Non mi venne mai permesso di rivederlo e quando, da adulto, cercai di farlo, di avere un contatto qualsiasi con lui, quei due bastardi fecero di tutto affinché ciò non avvenisse. Non volevano che lo incontrassi né che gli rivelassi chi ero davvero. Lo vidi a stento una sola volta e proprio quando stavo discutendo con mio cugino e sua moglie. Aveva otto anni ed era bellissimo, sano e forte, ma il modo in cui mi guardò mi spezzò il cuore: non aveva la più pallida idea di chi io fossi e in più, a causa della sceneggiata cui stava assistendo, forse doveva avermi preso per un matto. Era a disagio, aveva paura, glielo leggevo negli occhi, e fu questo a farmi gettare la spugna. Capii che era troppo tardi e che non sarebbe stato un bene per mio figlio sapere la verità. Pensava che la sua famiglia fossero mio cugino e sua moglie e... dirgli il contrario lo avrebbe solamente disorientato e messo in difficoltà. Quindi... me ne andai e non tornai mai più su quel sentiero. Il resto è storia, come si suol dire.»

Vargos era scosso e incredulo. Malgrado si fosse fatto le ossa dopo aver saputo della reale fine che lo zio di Ariel aveva fatto per mano dei genitori, ancora si stupiva di fronte alla crudeltà alla quale potevano arrivare una madre e un padre pur di correr dietro alle proprie idee, alle proprie convinzioni provinciali e bigotte; per non parlare, poi, del cugino di Jordan che si era mostrato altrettanto distaccato di fronte a un ragazzo disperato e alla ricerca di un contatto, seppur minimo, con il figlioletto. «Forse non hai commesso un errore allontanandoti da loro» commentò, non sapendo cos'altro dire. «Neppure io avrei più rivolto la parola a quelle persone, dopo una cosa simile.»

«Beh, combinarono per me un matrimonio riparatore, chiamiamolo così, e fu una fortuna per me quando realizzai che mio marito non fosse poi così male. Era una persona buona e gentile, mi concedeva i miei spazi e non ha mai cercato di cambiarmi, anzi incoraggiava la mia fame di conoscenza e la mia ambizione di fare qualcosa per cambiare il mondo che mi circondava. Fu un balsamo dopo tanta sofferenza, non lo nascondo.» Forst tacque e con la coda dell'occhio vide Vargos scuotere piano il capo e posare una mano sulla fronte come se fosse stato appena colto da un giramento di testa. Non batté ciglio e scoccò una rapida occhiata alla tazza di caffè ormai vuota che aveva offerto al ragazzo prima di medicare le sue ferite. Si ricompose e scacciò i ricordi dalla propria mente mentre, senza scomporsi, si tirava su dal divano e continuava ad osservare, paziente, Vargos. Quest'ultimo, strizzando gli occhi, ricambiò il suo sguardo. «Io... c-credo che... n-non mi sento bene...» Si chiese se per caso fosse stato il caffè a fargli qualche brutto scherzo, ma reputava tale opzione discutibile. Non era mai successo nulla del genere. «J-Jord... Jordan...»

Il giovane medico gli posò gentilmente una mano dietro alla nuca, una sorta di carezza. «Shh» lo apostrofò con calma. «Lasciati andare e basta. Va tutto bene.»

«N-No... no, io... t-tu... q-qualcosa non va...»

«È un semplice sonnifero, Vargos, non temere. La belladonna per noi Alphaga non è letale. Presto sarà tutto finito.»

Elimar lo fissava attonito e sempre meno capace di restare lucido e cosciente. «Perché?» biascicò a stento. «T-Tu ci hai aiutati!»

Forst sospirò. «Lui non mi dà altra scelta. Vuole che io faccia tutto questo e purtroppo devo obbedirgli. Non posso sottrarmi al suo volere, capisci? Non voglio farlo, ma devo. Sei un bravo ragazzo, Vargos, lo riconosco e sappi che sono desolato per averti ingannato. Lo sarò per tutto ciò che dovrò fare molto presto, a iniziare da Ariel e il vostro bambino non ancora nato.» Sembrava sincero, davvero dispiaciuto e contrito. Le sue labbra tremavano mentre si piegavano in un sorriso mesto. «Appena ti ho visto ho pensato subito che eri proprio come avrei voluto che il mio piccolo Ahren diventasse da adulto, lo sai? Volevo il meglio per lui e invece ho condannato la nostra intera specie. Ora sono costretto a portare a termine quel che avevo giurato di concedere a Lykos in cambio della prosperità della mia famiglia e del nostro popolo. Stefan Olegov vuole che lo faccia e non sono libero di scegliere. È troppo tardi per quello, ormai.»

Ahren...

Solo allora una terribile e sconcertante consapevolezza piombò su Vargos. Solo allora il giovane governatore di Mythfield comprese chi avesse realmente davanti: Demetrius, il Lich che lui e gli altri tanto avevano temuto. Cosa ancora peggiore di questa, aveva appena confermato che sulla testa di Ariel, così come su quella di fin troppe altre persone, pendeva un'autentica spada di Damocle che presto avrebbe vibrato il proprio fatale fendente.

«N-No...» Invano tentò di alzarsi. Cadde bocconi e non riuscì a raddrizzare la schiena, avvertendo una terribile e pesante stanchezza, una voglia di dormire senza precedenti. Merito della belladonna, purtroppo. «D-Demetrius, t-ti scongiuro» implorò, ma il Lich si limitò a scuotere la testa e volgere altrove quest'ultima. «Mi dispiace. Non era così che doveva andare» mormorò. Nello stesso istante in cui fredde lacrime bagnavano il suo viso udì Vargos, nel frattempo, accasciarsi con un debole fruscio sul tappeto, inerme e profondamente addormentato.  Si terse le guance e uscì dal soggiorno, salì al piano superiore e, affacciatosi nella camera da letto padronale, vide che anche Irene giaceva sotto le coperte priva di sensi. Anche a lei aveva somministrato l'infuso di belladonna.

Richiuse la porta, mosse qualche passo lungo il corridoio e recuperò quell'aggeggio infernale che la gente odierna denominava cellulare. Di tempo per abituarsi a tutti quei cambiamenti, specialmente a quanto accaduto al suo popolo in seguito alla sua morte, a quella di suo figlio Arhen e dei suoi discendenti di Svezia, ne aveva avuto assai poco e Olegov non gli aveva risparmiato nulla, scendendo in dettagli spiacevoli e terribili. Tutto pur di farlo sentire responsabile fino in fondo della miseria attraversata dagli Alphaga per via dei patti con Lykos che lui avrebbe dovuto rispettare e che invece erano andati in malora perché, a un certo punto, aveva avuto dei ripensamenti, nonché rimorsi in seguito al massacro dei Rozenheim.

Alcune chiacchiere da comari sostenevano che si fosse fatto sfuggire da sotto il naso l'amante di Johan, il giovane sguattero con in grembo il figlio bastardo di quell'uomo, ma non era così. Durante l'assedio e la battaglia sanguinosa, l'ultima prima della caduta definitiva dell'antico casato Rozenheim, aveva visto il ragazzo in evidente stato di gravidanza fuggire assieme a una piccola scorta di guardie dal palazzo dato alle fiamme e ormai in rovina. Lo aveva visto, ma anziché dare l'ordine ai propri uomini di inseguirlo, aveva scelto di fare finta di niente, di concedere allo sguattero di vivere e di dare alla luce il figlioletto. Se era vero quanto detto da Olegov, allora la sua pietà aveva in un certo senso rimediato, in minima parte, alle violente e mostruose conseguenze della sua ambizione, ma non aveva importanza. 

Il giovane Hawthorn era condannato proprio come gli altri e lui avrebbe presto dovuto fare quel che non aveva fatto secoli addietro. Lo confortava solamente sapere che il suo discendente, Casey, fosse al sicuro. Olegov, sorprendentemente, non era a conoscenza di un piccolo dettaglio sui Lich: non potevano toccare chiunque avesse nelle vene il loro stesso sangue. Demetrius era felice di non aver rivelato a Stefan tale compromesso, perché mai e poi mai avrebbe osato far del male a tutto ciò che rimaneva della discendenza del suo dolce e perduto Sigrik, il figlio che non aveva potuto crescere e che era stato costretto a definire, davanti a tutti, nient'altro che un nipote, un parente qualsiasi e figlio di suo cugino Axel. Axel l'Infertile, come era stato definito per anni quell'uomo prima di presentare ai propri sudditi, miracolosamente, l'erede tanto atteso.

Poteva anche dover macchiarsi di atti crudeli e ignobili una seconda volta, visto che non gli era concesso di scegliere, non quando Olegov aveva con sé quanto serviva a controllarlo e a renderlo il suo personale mastino, ma avrebbe protetto con le zanne e con gli artigli quanto rimaneva della sua famiglia e non appena tutto fosse terminato avrebbe dato a quell'insolente che aveva osato disturbare il suo riposo quel che meritava. Olegov non sarebbe vissuto abbastanza a lungo da cogliere i frutti della propria opera. 

Era una promessa.

«Cosa diavolo dovrebbe significare che né Vargos né Irene rispondono al telefono?» Casey guardò allibito prima Ragos e poi Ariel. «Avevano detto che sarebbero tornati entro un giorno o due e ormai ne sono passati tre!»

«Significa esattamente quel che abbiamo detto, gioia, d'accordo?» gli fece eco Ariel, altrettanto nervoso e impaziente. «E non credere che io non sia preoccupato quanto te per l'uomo che amo, nonché il padre del mio futuro bambino!»

«E lui perché è ancora qui?» chiese allora Casey, brusco, accennando all'altro Elimar.

Ragos inspirò profondamente. «Perché mio fratello mi ha espressamente ordinato di non abbandonare la città per nessuna ragione al mondo. Mythfield non può esser lasciata senza qualcuno che ne organizzi un'eventuale difesa o persino un'evacuazione. È ovvio che sia capitato qualcosa a Vargos e ad Irene, ma io devo rimanere qui, che mi piaccia o meno.»

«Allora fate andare me, per Dio!» esplose Casey. Era furioso, preoccupato e in preda al panico. Niente Vargos, niente spauracchio per quel pazzo assatanato di Olegov e tutti sapevano cosa ne sarebbe uscito fuori da tale equazione. Irene, tra l'altro, era partita insieme a Elimar e questo significava che lei fosse altrettanto in pericolo. Non poteva semplicemente sperare in un miracolo e augurarsi che quei due tornassero sani e salvi. «Se non me, allora qualcun altro, santo cielo, ma dobbiamo aiutarli!»

«È fuori discussione.» Noah, tornato proprio allora dal piano superiore dopo aver messo a letto i gemelli, guardò torvo i tre. «E sareste pregati di abbassare la voce. Ci sono dei bambini che stanno dormendo, sapete?» Era tarda sera e ci aveva impiegato non poco per conciliare il sonno a quelle pesti. «Si può sapere che succede?» 

«Succede che Vargos e Irene sono irreperibili!» sbottò a bassa voce Casey, gesticolando come un matto. «E Ragos non vuole andare a cercarli perché improvvisamente ci tiene a fare il fratello ubbidiente, a quanto pare!»

«Ehi, andiamoci piano, chiaro?» lo rimbeccò il giovane Elimar, torvo. «Non voglio affatto fare il fratellino diligente del cazzo, Leroin. Sto solo provando a non peggiorare una situazione già di per sé tremenda, nel caso ti fosse sfuggito fra uno starnazzo e l'altro!»

«Proprio per questo qualcuno deve partire per ritrovarli e riportarli a casa!»

«Beh, quel qualcuno non sarai tu» intervenne Noah, categorico. Per quanto fosse in ansia per Vargos e Irene, temeva molto di più per la sicurezza di Casey e gli amuleti di protezione non erano stati ancora ultimati. Ci voleva del tempo per certe cose, continuava a ripetergli ogni santa volta Idris, ma di tempo pareva non esserne rimasto granché. Sospirò. «Diciamolo a Crystal. È uno strego cacciatore e ci sguazza in questa roba, giusto? Diamogli del pane per i suoi denti.»

«Crystal rischia la pelle quanto me, Noah! Abbandonando questa città metterebbe se stesso in pericolo e lo sai bene!»

«Fra di noi è quello con maggiori speranze di riuscita. Non è uno sprovveduto e sa il fatto suo.»

«Non possiamo chiedergli di rischiare fino a questo punto! E se Vargos e Irene fossero davvero caduti in mano a Olegov e Demetrius, magari, fosse lì con loro? Tanto vale ammazzarlo di nostro pugno, allora!»

Ragos si passò due dita sugli occhi e fece un bel respiro. Conosceva bene i rischi di un simile piano, ma quale altra scelta avevano? Certe decisioni, per quanto difficili, andavano prese per forza. «Noah ha ragione: dobbiamo lasciare la cosa in mano a Crystal.» Vide Leroin aprire bocca, sicuramente per vomitargli di nuovo addosso improperi e maledizioni d'ogni tipo, ma sollevò una mano per indurlo ad aspettare prima di incenerirlo. «Non vuol dire che andrà da solo, per inciso. Stiamo parlando di mio fratello e se non vi dispiace gradirei esser lì per rifilargli un cazzotto sul muso non appena lo avremo tirato fuori dai casini. Gli avevo detto che era una pessima idea lasciare Mythfield in questo momento e lo ha fatto comunque, mettendo in pericolo Irene. Il minimo che possa fare, adesso, è ritrovarli al più presto e sperare che siano ancora vivi, visto che non sono riuscito a dissuaderli dal ficcarsi in questo casino.»
Un'altra ragione, più sacrosanta delle altre, lo aveva spinto a prendere quella decisione: il suo futuro nipote, quello non ancora nato e già con una possibile condanna alla morte o alla tristezza a pendergli sul capo. Nessun altro Elimar sarebbe cresciuto come un orfano. Se l'era ripromesso sin da quando aveva saputo della gravidanza di Ariel ed era ben deciso a rispettare tale giuramento. Non poteva perdere nessun altro, d'altronde, e Vargos era tutto ciò che gli restava. Non era la casa dei loro genitori e dei loro avi il vero cuore della famiglia; non era una proprietà terriera né erano i soldi a contare. Aveva guardato per tanto tempo nella direzione errata, ma ora che era libero dai paraocchi riusciva a vedere con chiarezza quel che davvero era importante e quel qualcosa rispondeva al nome di Vargos. «Io e Crystal ci guarderemo le spalle a vicenda. Ce la faremo a salvarli, statene certi.»

Non aggiunse altro e si allontanò per telefonare a Crystal.

Ariel incrociò gli sguardi di Noah e Casey, poi storse le labbra. «Perché mi guardate in quel modo?» incalzò brusco. Troppo brusco.

Leroin lo fulminò con un'occhiata penetrante. «Perché ti conosco fin troppo bene, ormai, e te lo dico sin da ora: toglitelo dalla testa, Ariel

Noah, a sua volta, colse al volo l'argomento della conversazione e si incupì. «Lascia che siano Ragos e Crystal a occuparsene. È meglio se resti al sicuro qui, Ariel, e lo sai anche tu.»
Le sue parole, anziché venire accolte con ragionevolezza, ebbero l'effetto del cherosene sul fuoco e Aguillard parve sì e no saltare in aria come un petardo di Capodanno: «Stai scherzando, McKay, vero?» sbottò, agitando le braccia. «Quello là è in pericolo e io me ne resto qui a fare la calzetta? Per chi mi hai preso?»

«Non lo dico solo per te, ma anche per Vargos» replicò McKay nel tentativo di farlo tornare alla ragione e di ricordargli che non era più responsabile solo ed esclusivamente della propria, di vita. Se fosse accaduto qualcosa ad Ariel e al bimbo che portava in grembo, poco ma sicuro che si sarebbero giocati sul serio Vargos. Quel povero disgraziato aveva tollerato fin troppi lutti per un'esistenza intera e non avrebbe retto sotto il peso di un altro colpo basso e, oltretutto, si sarebbe sentito anche in colpa dell'accaduto. «So che il tuo istinto ti urla di entrare in azione, ma se non vuoi restare qui per te stesso o per l'uomo che ami, fallo almeno per la creatura che porti dentro di te. Se andrai con loro, Ragos e Crystal saranno distratti, troppo impegnati nell'assicurarsi che non capiti nulla a te, e a quel punto Olegov ne approfitterà, se c'è davvero lui dietro alla scomparsa improvvisa di Vargos e Irene.»

Ariel ammutolì e Casey, dopo aver esalato un profondo respiro, intervenne e, nel farlo, parlò con voce dura, una che non ammetteva mezzi termini: «Hai scelto di portare avanti la gravidanza, Ariel, e questo ti rende doppiamente responsabile della vita di tuo figlio e del suo benessere. Se vuoi questo bambino, allora impara sin da ora a proteggerlo con le unghie e con i denti. Impara a sceglierti bene le battaglie, da bravo genitore.» Ricordava bene quando si era trovato lui in condizioni precarie e in estremo pericolo, come ad esempio durante la prigionia in galera. Ricordava di aver messo di fronte a qualunque altra cosa, qualunque altro bisogno personale e basilare, la sicurezza dei suoi figli. 
Ogni qual volta che aveva subito un sopruso o una violenza, aveva sempre fatto in modo, per quanto possibile, che nulla di tutto ciò potesse nuocere in modo consistente alle vite innocenti che con lui si erano ritrovate a condividere quell'orrendo destino.

Capiva fin troppo bene Ariel e la sua angoscia. Lo capiva e gli era vicino, sperava quanto lui che Vargos e Irene stessero bene e che Ragos e Crystal potessero far ritorno indenni da quel viaggio, ma se si fosse trovato al posto di Aguillard allora si sarebbe guardato bene dall'andarsi volutamente a cercare situazioni pericolose, così come dall'andarsi a ficcare in un bel ginepraio qual era una situazione come quella attuale.

Olegov aveva colpito nel suo stile ormai ben riconoscibile, come solo lui sapeva fare: mettere in crisi tutti quanti, agitare le acque, minacciare qualcuno di portargli via ciò che più amava. Era il punto di forza di Stefan Olegov e la loro debolezza più grande. Amando offrivano a quel mostro un gran bel bastone con cui percuoterli, ma era il prezzo da pagare quando si teneva ad altri, oltre che a se stessi, e si aveva purtroppo a che fare con un bastardo senza cuore disposto a sacrificare ogni cosa per i propri scopi.

Il prezzo era quello e loro erano tenuti a pagarlo, anche se non a subire in silenzio senza reagire. 

La differenza fra il restituire il colpo con tanto degli interessi e l'abboccare a un'esca succulenta era abissale e se Ariel avesse mangiato la foglia, se avesse seguito Ragos e Crystal, sarebbe finito dritto nella rete che Stefan Olegov aveva gettato appositamente anche per lui. Soprattutto per lui, anzi.

«Lui fa così, Ariel. Quel mostro ha sempre fatto così» riprese, più duro che mai. «È il metodo che ha usato con me, con Noah, persino con l'unica persona che è stata talmente buona e ingenua da arrivare ad amarlo, e guarda cosa è successo. Io e Noah per miracolo ci siamo salvati dalle sue grinfie e sappiamo che fine abbia fatto, invece, il povero Caelan. Non si è fermato davanti a niente e a nessuno, neppure di fronte a un ragazzo che stava per dargli un figlio. Io sono sangue del suo sangue e mi ha trattato alla stregua di un animale da macellare. Ha disposto che venissi reclamato e seviziato da Dominic pur di diventare la vittima sacrificale perfetta e per poco non faceva del male ai miei figli. Pensi sul serio che trovandosi a una spanna da te avrebbe un minimo di pietà o di esitazione? È molto più probabile che ti uccida senza rimorso e che lo faccia premurandosi che Vargos si trovi lì per vederti morire senza poter salvarti.»

«Casey...»

Leroin si volse per guardare il fidanzato e futuro marito. «Visto che gli piace così tanto fare il testone e il bastian contrario, Noah, non vedo per quale motivo dovrei usare parole gentili. È un testone, proprio come me, e non voglio che debba sbatterci il muso come ho fatto io.» 

Ariel, già sottosopra per tutto quanto e non poco irritato dopo essersi fatto fare il pelo e contropelo da Casey, per giunta nel peggior momento possibile, marciò dritto verso l'uscita del salotto, dicendo che sarebbe andato a prendere una boccata d'aria.

«Siete per caso impazziti?» Ariel si agitò e cercò di divincolarsi dalla ferrea stretta di Ragos e di un combattuto Ellis che tentavano di farlo entrare nella dimora degli Aguillard. 
Quando Crystal era giunto a casa di Noah e Casey in seguito alla chiamata del minore dei fratelli Elimar, il mago era stato chiaro ed esaustivo: prima di partire si sarebbero dovuti assicurare che Ariel venisse tenuto d'occhio per evitare che gli saltasse in testa di seguirli di nascosto e mettere nei casini tutti quanti.

Aveva inquadrato abbastanza bene il figlio dello sceriffo per capire al volo che non se ne sarebbe rimasto zitto e buono, non dopo aver saputo che il compagno fosse probabilmente in pericolo, e visto che non ci teneva a perdere un'occasione d'oro come quella per fare la festa a Olegov era sua intenzione premurarsi che nulla andasse storto né che qualcuno mandasse all'aria l'operazione per improvvisi colpi di genio dell'ultimo secondo.
Se Demetrius si fosse rivelato in compagnia di Stefan, tanto meglio. Avrebbe fatto passare a entrambi la voglia malsana di rompere le scatole come stavano chiaramente facendo.

Vedendo che lo sceriffo ed Elimar stavano avendo non pochi problemi a convincere con le buone Ariel a entrare in casa, Hawthorn sbuffò, alzò gli occhi al cielo e smontò dall'auto; marciò dritto verso il portico, ne risalì i gradini e poi fece spostare senza troppe cerimonie i due uomini. «Sta' a sentire, Harley Queen, non c'è tempo per queste stronzate, okay? Se vuoi rivedere vivo il tuo innamorato allora varca quella cazzo di porta e resta in campana fino a nuovo ordine!» tuonò imperioso, fissando dritto negli occhi l'Omega che, di rimando, lo occhieggiò invelenito. «Ci stai facendo perdere tempo prezioso, lo capisci?»»

«Ho il diritto di venire con voi!» esplose a sua volta Ariel, ormai in preda a una collera irrefrenabile e distruttiva come un uragano. «Non puoi chiedere ai miei genitori di tenermi chiuso là dentro come un prigioniero! Non ne hai l'autorità!»

«Se ben ricordo», ribatté a denti stretti il mago, «è Casey a comandare quando papà Vargos non è in casa e Casey ha detto di tenerti al sicuro a qualsiasi costo, nonché di impedirti di fare una stupidaggine colossale e farti del male con le tue stesse mani. Casey è il capo e devi dargli retta! Io e lui sappiamo più di te che cosa vuol dire trovarsi faccia a faccia con Olegov, Ariel! Fidati della nostra esperienza, se non altro!»

Ellis si fece forza e intervenne, dicendo al figlio: «Ariel, ti prego, è per il tuo bene. Ascolta Crystal e resta qui».

Il ragazzo, finalmente, parve decidersi e abbassò lo sguardo, sconfitto. «Riportate qui Vargos. Riportatelo da me» si limitò a dire, la voce tremante e spezzata. Non aggiunse altro e si fiondò dentro la dimora. Gli altri lo videro superare l'altro genitore e correre direttamente al piano superiore. L'ultima cosa che udirono fu una porta che venne sbattuta con violenza.

Crystal sospirò. «Gli passerà, signor Aguillard» disse allo sceriffo. «E come ha detto lei poco fa, è per il bene di suo figlio e di nessun altro.» Si scostò i capelli dal viso e sbuffò, trasferendo lo sguardo su un abbattuto e preoccupato River. «Meglio non lasciarlo da solo, adesso» aggiunse, consigliandogli implicitamente di recarsi in camera di Ariel per assicurarsi che a quel matto non venisse in mente, magari, di calarsi giù dalla finestra usando i rampicanti a mo' di scala. Qualcosa che, ne era certo, Ariel Aguillard avrebbe di certo potuto fare, se costretto dagli eventi a ingegnarsi pur di dar retta alla propria testa calda.

Il vero motivo per cui aveva deciso di impedire all'Omega di seguire lui e Ragos non era legato soltanto alla sua sicurezza o attuale fragilità, bensì anche alla sua palese impulsività. Ariel dava troppo retta alle sensazioni viscerali, quando era nervoso o arrabbiato, e in quello stato era a dir poco una mina vagante, una variabile impazzita.

River colse subito al volo le parole di Hawthorn e si recò al piano superiore.

Ellis squadrò a turno i due ragazzi. «Fate attenzione, ve ne prego. Se un confronto con Olegov dovesse rivelarsi troppo rischioso, allora cercate di liberare Vargos e Irene in un'altra maniera. Non vendete cara la pelle senza un minimo di criterio, d'accordo?»

Ragos guardò lo sceriffo e mosse il capo in un cenno d'assenso. «Faremo del nostro meglio. Voi abbiate cura di Ariel, nel frattempo, e anche degli altri.» Lui e Crystal rivolsero un veloce gesto di commiato all'uomo e poi, senza perdere altro tempo, corsero alla macchina. Fu Hawthorn a offrirsi di guidare ed Elimar glielo concesse. Era talmente nervoso, al momento, da essere un autentico pericolo per se stesso e per il prossimo a bordo di un'auto. 
Il solo pensiero che potesse esser già accaduto qualcosa di terribile ad Irene e a Vargos lo assillava, ma stava provando in ogni maniera a non essere pessimista né a immaginarsi scenari drammatici. 

«Li salveremo, Ragos» lo apostrofò Crystal, quasi leggendogli nel pensiero. «E avremo tutti e due la vendetta che da anni aspettiamo.»

Elimar lo guardò, indeciso fra il parlare e il restarsene zitto. Optò, alla fine, per dar fiato alla bocca senza filtro alcuno, come sempre era solito fare: «Come avrai capito, io e la mia famiglia non godiamo dell'aiuto di una buona stella, perciò... se dovesse accadere qualcosa a me, qualunque cosa, tu prenderai mio fratello e Irene e te la darai a gambe all'istante, Crystal. Chiaro?»
Non stava scherzando né facendo l'eroe dell'ultimo minuto. Era il suo spirito pratico e consapevole che a volte i sacrifici fossero inevitabili a spingerlo a vagliare ogni opzione, compresa la peggiore per se stesso. Vargos, suo fratello, era la chiave di volta e se veniva tolto di mezzo lui allora Mythfield non avrebbe più avuto scampo né una guida e questo non doveva assolutamente accadere. 

Hawthorn, almeno in apparenza, non parve impressionato dalle sue parole. Sebbene in realtà lo avessero turbato eccome, non era il momento di fare le mammolette. «Rassegnati, Elimar. Non lascerei a Olegov il piacere sconfinato di caricarti un bel po' di calci nel deretano neppure se mi pagasse a peso d'oro, perciò... bel tentativo, dico davvero, ma niente da fare. Se ti sfiora con le sue luride dita lo scuoio vivo e lo faccio rotolare nel sale finché non mi implorerà di ammazzarlo.»

Ragos inarcò un sopracciglio. «Interessante. Quindi... non sono più un Hell's Angel wannabe che a stento tolleri? Perbacco, questo sì che è un progresso!» 

Crystal roteò gli occhi. «Ti piacerebbe» brontolò con aria truce, ma ben presto un angolo della sua bocca si curvò verso l'alto. «Non è il giorno adatto per crepare. Insomma, stai per diventare zio, nonché il cognato di Ariel! Al tuo posto farei i salti di gioia.»

«Non ricordarmelo, ti prego» si lamentò Ragos. «E a proposito di Stronzilla, dici che rimarrà dove lo abbiamo lasciato o farà una cazzata epocale nel puro stile di Ariel Aguillard?»

«Beh, mi sembrava propenso a fare il bravo bambino.»

«Ariel non dà retta a nessuno e mai lo farà, Crystal. Lo conosco da una vita e so di che parlo. Detesta non avere l'ultima parola e ancor di più i divieti. Li vede come degli ottimi ostacoli da saltare per rimanere in esercizio!»

Fu allora che Hawthorn sogghignò con un velo di malizia. «È appunto perché sono un bravo osservatore che prima di mettere in moto l'auto ho mandato un messaggio a Idris chiedendogli di farmi un piccolo favore.»

«Sarebbe?»

«Beh, per uno scrupolo in più gli ho suggerito di lanciare sulla proprietà degli Aguillard un piccolo incantesimo che impedirà a Stronzilla di allontanarsi e cacciarsi in qualche bel pasticcio. Proprio mentre stiamo parlando Idris sta utilizzando una ciocca di capelli o qualche goccia di sangue di Ariel messi da parte per creare i medaglioni e con una delle due cose facendo in modo che solo lui sia impossibilitato ad abbandonare quella casa. Ellis e consorte non avranno problemi a uscire, ma in quanto ad Ariel... insomma, farà meglio a fare incetta di serie televisive e snack finché non torneremo, perché da lì non si muoverà.»

Ragos arcuò le sopracciglia, realmente impressionato. «Figlio di puttana!» commentò. «Sai, Crystal, sei bravo in quello che fai, forse il migliore, ma a volte sei anche un tantino diabolico e terrificante.»

«Sono un genio, hai ragione.»

«Stronzilla non te la perdonerà in tempi brevi, sappilo.»

«Un giorno mi ringrazierà e io sarò lì, pronto a rinfacciargli senza pudore di non avermi perdonato per avergli solamente salvato la vita.»

«Da come parli sembra quasi che accada spesso.»

«Tutte le volte, in realtà. Non è come nei film sui supereroi dove il protagonista, alla fine, viene ringraziato e lodato per il lavoro svolto. È più un discorso basato sul fare del bene, incassare la conseguente ingratitudine cronica del prossimo e proseguire per la propria strada senza prenderla troppo sul personale. La gente è fatta così: vuole che i buoni vincano senza fare del male, senza spargere sangue né mietere vittime, ma la realtà è ben differente e più complicata della fantomatica lotta tra le forze del male e quelle del bene. La verità è che per fare la frittata qualche uovo lo si debba rompere per forza, che piaccia o meno agli altri. È questo che fanno quelli come me, alla fine: si prendono le responsabilità e l'odio che molti non sono disposti ad accettare né a tollerare. Uccidiamo i mostri e le creature abbandonate dalla Natura stessa per consentire a esseri incapaci di badare a se stessi di proseguire indisturbati le loro piatte e quiete esistenze.» 
Lo strego cambiò marcia.
«Se fai il cacciatore devi per forza convivere con la prospettiva che raramente verrai ringraziato. Non facciamo quello che facciamo per essere gli eroi senza macchia e senza paura di turno. Lo facciamo perché qualcuno dovrà pur tenere a bada le tenebre là fuori e sporcarsi le mani, visto che la maggior parte delle persone non ne ha i sacrosanti coglioni o è schizzinosa e si nasconde dietro a scuse patetiche pur di non agire.»

Ragos si morse il labbro inferiore. «Beh, in tal caso... grazie per quello che stai facendo, Crystal. Mythfield ti è sicuramente grata e lo sarà ancora di più quando tornerai con la testa di Olegov issata su quella tua bella e letale lancia da stregone.»

Crystal sogghignò. «Attento, Elimar, o potrei avere un orgasmo qui e ora!»

«Ecco, come al solito devi sempre rovinare tutto.»

«Sei tu a istigarmi e lo sai.» 

Il giovane Elimar tornò serio. «Prima che mi chiamassero e dicessero che mio fratello non rispondeva al telefono e tutto il resto, io... mi trovavo a casa di Jesse.»

Crystal spalancò di poco gli occhi, riuscendo a tenere a bada solo in parte la leggera sorpresa causata da quanto aveva appena udito. «Come mai eri da lui?» incalzò in tono neutrale.

«Non lo so. Era parecchio giù di corda al funerale di Dominic e... beh, più o meno ormai lo sai fin dove il lutto e il dolore possono spingere uno della nostra specie. Non ero tranquillo nell'abbandonare praticamente a se stesso Jesse, specie dopo aver saputo che ha chiesto a Cora di tenere a casa propria suo figlio per un po' di giorni. Cora stessa, nel parlare con me, era preoccupata per Jesse. Lo ha visto per pochissimo tempo mentre si trovava da lui per prendere con sé Jamie e mi ha detto che aveva gli occhi gonfi di pianto e una cera terribile. Si è recata in bagno con una scusa e ha visto che nell'armadietto v'erano due flaconi di sonniferi piuttosto forti, di quelli che stordiscono per ore intere.»

«Cristo santo» sospirò il cacciatore. «Cora aveva paura che Jesse cercasse di farla finita, quindi?»

«Sì. Non lo ha detto in maniera diretta, però sì, era il suo timore e ha chiesto aiuto a me, dato che al funerale ero intervenuto per cercare di tenere ancorato al presente Jesse e tutto il resto. Appena l'ho visto coi miei occhi è stato come trovarmi davanti al mio riflesso di qualche tempo fa, ma... invece di provare il desiderio di andarmene, di rifuggire dal ricordo del dolore che provavo e ancora provo, vedere Jesse in quelle condizioni ha avuto su di me l'effetto di un ceffone. Ho cercato come potevo di parlargli, di fargli capire che... insomma... che non era solo e non doveva permettere a ciò che provava di comandare. So bene come ci si può sentire: chiusi dentro una cassaforte di sofferenza e di apatia, a volte di rabbia e sconforto. Ti racconti le peggiori cose, ti ripeti che ormai è finita e che non sarai mai più in grado di essere felice, di sorridere o smettere di piangere. Probabilmente non è servito a granché, ma... prima di venire a sapere che Vargos era nei casini e di recarmi a parlare con Ariel e Casey sono almeno riuscito a convincere Jesse a trasferirsi a sua volta per un po' da Cora, giusto per non farlo rimanere da solo con quei sonniferi.»

Per qualche ragione la mente di Crystal ripercorse a ritroso gli anni, ancora e ancora, fino a quando non si soffermò su un ricordo in parte sbiadito dal tempo: un uomo dal bell'aspetto sciupato che sedeva in totale solitudine in una piccola cucina scolorita sotto la luce fredda di un semplice lampadario mentre l'orologio da muro segnava le dieci di sera passate. Lo vide di nuovo, ma gli dava le spalle ed era del tutto ignaro della sua presenza, del fatto che lui, ridestatosi perché aveva sete, fosse sgusciato fuori dalla propria cameretta e si fosse per caso imbattuto in quella scena che, all'epoca, gli era apparsa inspiegabile e strana, anche se triste. 
Era lì, nascosto dietro allo stipite dell'ingresso della cucina, e guardava Dion Hawthorn, il padre al quale tanto voleva bene e che di giorno era sempre sorridente e di buon umore, piangere sommessamente, quasi temendo che qualcuno, di sicuro lui, potesse udirlo. 
Quella notte Crystal, malgrado in un primo momento avesse optato per entrare in cucina e chiedere a suo padre il motivo di tanta tristezza, aveva infine deciso di tornare in camera e di rimettersi a letto, anche se l'eco di quel pianto non gli aveva dato tregua fino a quando il sonno non era sopraggiunto di nuovo.

Anni dopo, nel ripensarci, si era sentito in colpa nell'aver in qualche senso ignorato il malessere di Dion, abbandonandolo fra le grinfie del cordoglio per la scomparsa di Emery che forse lo aveva accompagnato per dieci lunghi anni fino a quando non era stata la morte ad aver avuto pietà di lui e del suo cuore infranto. Pur consapevole che all'epoca fosse solamente un bambino che ignorava la verità dietro alla propria tragica nascita, non era riuscito a farsene una ragione, a non pensare che non gli sarebbe costato assolutamente nulla correre da suo padre e dirgli di non piangere, che gli voleva bene e che non era da solo. Qualunque cosa pur di far cessare quelle lacrime che negli anni erano tornate a perseguitarlo come un anatema. 
Quando si era bambini faceva uno strano e spiacevole effetto rendersi conto che un papà o una mamma non fossero esseri perfetti e capaci sempre e solo di coccolare, viziare i pargoli e donar loro sempre e solo sorrisi o al massimo rimproveri. Non ci si rendeva conto che fossero persone come tutti quanti e non divinità il cui santuario erano le mura domestiche. Ci si preoccupava spesso e volentieri solamente di ricevere e di prendere, quasi mai del dare qualcosa in cambio. Si pretendevano carezze e attenzioni, ma non sempre ci si curava di ricambiarle. 

Da quando aveva poi scoperto cosa accadeva quando un Alphaga perdeva il compagno, continuava a domandarsi se ciò valesse anche per i loro partner di specie differente. Si era chiesto se suo padre, pur essendo uno strego che già di per sé andava incontro a terribili conseguenze in caso di emozioni negative o dolorose perdite, non avesse in qualche maniera risentito alla maniera degli Alphaga dopo la scomparsa di Emery. Forse era sufficiente amare un membro di tale specie per dover poi mettere in conto certi effetti collaterali, forse invece no. Non aveva mai avuto il coraggio di cercare una risposta a tale quesito e non lo ebbe neppure quando, tornato al presente, aprì e richiuse la bocca, rinunciando a porre la fatidica domanda a Ragos che la sapeva lunga in merito a suddetta questione.

Aveva il terrore di scoprire di avere ragione e di tornare a flagellarsi per aver in qualche maniera contribuito a far soffrire Dion ponendolo di fronte a una drammatica scelta: salvare lui e perdere Emery oppure attendere i soccorsi e sperare in un miracolo assai poco probabile.
Doveva esser stata una notte infernale per quell'uomo. La peggiore della sua vita, anzi.
Per consentire al figlio tanto desiderato di vivere aveva dovuto sacrificare l'esistenza della persona che aveva amato di più al mondo.

Serrò le dita sul volante e ricacciò indietro le lacrime. Non voleva piangere né lasciarsi andare alla tristezza. Non poteva permetterselo.

«Hai agito bene» disse rauco. «Sai... a star vicino a Jesse, a dirgli quelle cose e poi a convincerlo a stare per un po' da Cora. Sei più bravo di quanto credi ad aiutare gli altri, Ragos.»

Ragos piegò le labbra in un debole e sardonico sorriso. «Sì, beh... a volte mi capita di farli finire sotto una macchina, mentre provo a fare il bravo cittadino, ma sono i rischi del mestiere, suppongo.»

Hawthorn esitò. «Mi dispiace averti giudicato, all'inizio. Forse... forse è stata anche colpa mia, quella sera. Tu volevi solamente aiutarmi, ma... ero talmente terrorizzato all'idea che magari fosse stato Olegov a metterti alle mie calcagna o che fossi un matto, da aver perso la testa. Non sono abituato più di tanto alla gente che genuinamente cerca solo di migliorare la vita altrui. Mettiamola così.» Guardò Elimar dritto negli occhi. Lo fece solo per pochi attimi, conscio di star guidando, ma fu sufficiente a fargli capire che diceva sul serio. «Grazie per averci almeno provato. Sei una brava persona e ho avuto modo di vederlo coi miei occhi, perciò... grazie, Ragos.» 

I fratelli Elimar si somigliavano più di quanto loro stessi pensassero. Certo, il minore magari era più impulsivo, cupo e insopportabilmente sarcastico, nonché rozzo, ma era innegabile che la gentilezza e la spassionata cura per il benessere del prossimo fossero invece doti di famiglia ereditate da entrambi i rampolli di quella stirpe tanto antica quanto stracolma di tragedie. Fra tante eredità che avrebbero potuto ricevere Vargos e Ragos nessuna era più inestimabile del buon cuore che li caratterizzava.

Crystal iniziava a capire cosa avesse visto il famoso Rory nel ragazzo che poi ne era divenuto il compagno e, oltre a ciò, a rispettare Ragos per chi era, compresi i difetti. 
Nessuno, d'altronde, era perfetto e lui non era il giudice migliore per emettere sentenze circa l'atteggiamento altrui. Si era piazzato sin da subito su un piedistallo, con Ragos, e se ne stava rendendo finalmente conto, purtroppo.

Elimar sbuffò una risata. «Chi sei tu e che ne hai fatto del cacciatore stronzo sempre pronto a darmi sui nervi?»

Lo strego alzò gli occhi al cielo. «Hai ragione, mi sto rammollendo. A pensarci bene sei la persona più insopportabile e stupida che abbia mai avuto la sfortuna di incontrare!»

«Ora sì che ti riconosco.»


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