Prologo
Torino, Febbraio 2017
Il telefono squillava incessante nel bel mezzo della notte.
Milo era sveglio.
Non era riuscito a chiudere occhio e se ne stava avvolto in una calda coperta di pile davanti al davanzale della finestra.
Osservava la notte che copriva la città piemontese ma che non riusciva comunque a celarne la straordinaria bellezza, ornata dalle tante piccole luci che ne illuminavano le strade.
La casa era avvolta nel buio.
Era freddo, nonostante fosse ormai fine febbraio, o forse erano i suoi nervi tesi che gli davano quel senso di gelo che non riusciva a togliersi di dosso.
Guardò il telefono immaginandosi già chi fosse: Eva, sua sorella.
Il nome lampeggiante sul display confermò quella teoria.
Sentì un brivido irradiarsi lungo tutto il corpo.
Non voleva risponderle, ma sapeva di doverlo fare.
Immaginava già cosa gli avrebbe detto e non voleva sentire quelle parole.
Voleva far finta che quella fosse una sera come tutte le altre.
Voleva smettere di pensare, smettere di osservare quel buio che rappresentava il nero che sentiva dentro di sé.
Voleva che quel freddo scomparisse.
Desiderava che qualcuno accendesse la luce e gli dicesse che andava tutto bene, come quando era bambino e si svegliava nel bel mezzo della notte.
Ora era un adulto.
Era un uomo di trentanove anni.
Per molti forse addirittura un vecchio. Ed era solo in quell'appartamento, in quella città così lontana dalla sua Roma.
Dalla sua famiglia e da quella casa che aveva deciso di lasciare a venticinque anni per andarsene il più lontano possibile, pensando, anzi avendo la convinzione, che nulla gli sarebbe mancato del suo passato.
Da un lato era così: scappava dalla sua vecchia vita, dalle sue origini, le rinnegava quasi.
Eppure erano sempre lì, come qualcosa che desiderava cancellare ma che faceva parte di lui, del suo sangue, delle sue ferite, della sua anima.
Il suo passato veniva fuori solo per fargli sentire il dolore che aveva cercato di affossare, come un rigurgito che tentava di ricacciare indietro ma che aveva sempre la meglio.
E quella sera sapeva che quel dolore sarebbe sfociato in tutto il suo impeto appena avrebbe cessato di far squillare quel maledetto cellulare.
Si domandava se fosse meglio lasciarlo vibrare su quel tavolino e continuare a far finta di niente, oppure afferrarlo, ascoltare la voce di sua sorella dall'altra parte della cornetta e finalmente togliersi quel dente.
Forse avrebbe smesso di squillare da solo mentre era ancora intento a prendere una decisione.
O forse no.
Urlava insistente.
Gli stava trapanando le orecchie.
Tentò addirittura di cacciare il viso nella coperta sperando di riuscire ad attutire quel rumore insopportabile.
Ma era inutile, rimaneva lì, cercando di cogliere la sua attenzione.
Quella stronza di sua sorella era assillante come un martello pneumatico.
Decise di afferrarlo e accettare la chiamata.
«Pronto... », disse flebile.
«Milo. Dormivi?», chiese Eva con voce stanca.
«Sì», mentì lui.
«Scusa, mi dispiace ma...»
Seguì una pausa.
Fu breve, ma per Milo sembrò durare un'eternità, forse perché già conosceva le parole che stava per udire.
E la conferma gli arrivò non appena sentì la voce di sua sorella rotta dal pianto.
Teneva il telefono sollevato e attaccato all'orecchio destro, si stringeva ancora di più sotto quella coperta poggiata sulle spalle e chiuse gli occhi aspettando.
"Dillo", pensò tra sé, trattenendo il respiro.
«Se ne è andato», fece finalmente sua sorella.
In un attimo il buio diventò ancora più oscuro, il freddo si fece gelo, Torino si spense sotto i suoi occhi.
Suo padre era morto e un pezzo di Milo lo aveva seguito.
✧∭✧∭✧∰✧∭✧∭✧
Roma.
Eva decise di staccare la telefonata, dal momento che dall'altra parte della cornetta proveniva solo un cupo silenzio.
Suo fratello come sempre non aveva fiatato, non era riuscito a dire nulla.
A dirle nulla in verità.
Avrebbe avuto bisogno di un supporto in quel momento, di condividere la stessa sensazione di vuoto e perdita che solo due figli possono provare nel giorno della morte del proprio padre.
Invece come sempre, Milo aveva lasciato che quel dolore fosse solo il suo, trincerandosi dietro la sua incapacità di esternare ciò che sentiva.
Se sentiva veramente qualcosa.
Lo aveva svegliato, quindi era riuscito a dormire nel suo caldo letto di Torino in quella notte così faticosa.
L'ultima notte del loro papà.
Lei non si ricordava nemmeno più da quanto tempo fosse in piedi.
Era distrutta fisicamente e mentalmente.
Gli occhi rossi e gonfi da interminabili ore di pianto, mentre aspettava che suo padre esalasse l'ultimo respiro, i capelli bruni sporchi legati in alto, con i soliti ciuffi di ricci ribelli che scappavano dall'elastico.
Il senso di nausea che le serrava lo stomaco e che le faceva pensare che non avrebbe più toccato cibo per il resto della vita.
Lo smarrimento generale le offuscava i pensieri: razionalmente era consapevole di tutto ciò che stava vivendo, del fatto che si trovasse al San Camillo di Roma, in una fredda sala d'attesa arredata solo con file e file di sedie in plastica blu, e che stesse attendendo che le infermiere ricomponessero il corpo di suo padre liberandolo da aghi, fili e ossigeno.
Eppure desiderava scacciare quell'orribile realtà, voleva solo chiudere gli occhi e risvegliarsi nel suo letto, pensando che quello fosse solo un bruttissimo incubo.
Si sentiva tremendamente sola, ancora più che negli ultimi mesi passati a seguire il lungo declino di suo padre.
Carcinoma spinocellulare al polmone con metastasi ossee: una dichiarazione di morte quasi certa.
Ma Eva non si era data per vinta: aveva contattato i migliori oncologi di Roma, aveva insistito con suo padre per iniziare le cure, prima la radioterapia e poi la chemio.
Non lo aveva abbandonato nemmeno un giorno.
Sempre lei. Solo lei.
Suo fratello a stento si era dimostrato colpito dalla notizia.
Era sceso a Roma solo qualche mese prima, forse per rendersi conto in prima persona in quali condizioni fosse veramente suo padre.
Ma non l'aveva aiutata, né supportata in alcun modo.
Sua madre era stata lontana fisicamente ed emotivamente come sempre.
Nel suo cottage immerso nella campagna inglese, aveva accolto la notizia della malattia dell'ex marito come qualcosa di lontano, un problema che sicuramente non avrebbe dovuto riguardarla.
Così Eva si era rimboccata le maniche senza aver bisogno di loro, senza dover chiedere nulla agli altri due componenti di quella che doveva essere la sua presunta "famiglia".
Accanto a lei solo Paolo, il suo compagno, l'uomo che amava e che a suo modo era riuscito a farle sentire il suo appoggio.
Voleva chiamarlo, sentire la sua voce, ma al tempo stesso quella sera aveva deciso di rimandarlo a casa e di farlo riposare, non sapendo quanto sarebbe durata la lenta agonia di suo padre.
Si era seduta su una di quelle sedie scomode della stanza e teneva la testa tra le mani tirando su con il naso, quando la voce di un infermiera la destò dall'abisso in cui si trovava:
«Signora Parisi, abbiamo terminato», disse gentilmente, come temendo di essere inopportuna.
Chissà quante volte quella donna doveva essersi rivolta a persone sopraffatte dal dolore.
Chissà quante volte aveva dovuto riportare brutte notizie vedendo i cari del malato in questione rompersi davanti ai suoi occhi in mille pezzi.
Sicuramente l'esperienza aveva forgiato la delicatezza del suo tono di voce e l'umanità che traspariva dai suoi occhi.
Eva fu riconoscente per la sua gentilezza, per essere rimasta un passo indietro al suo dolore e rispettarlo.
Le fece un cenno di assenso con il capo e riuscì giusto a pronunciare un mesto:
«Grazie», prima di seguirla verso la stanza di suo padre.
Entrò e lo vide steso sul letto, immobile.
Le braccia lungo i fianchi e il viso rivolto verso il soffitto.
Eva restò per un attimo sulla soglia della porta, avendo il timore di avvicinarsi e vedere da vicino quello che oramai era solo un involucro.
Tirò un forte sospiro e fece un passo in avanti con gli occhi bassi, arrivando ai lati del letto.
Si fece coraggio e li alzò per guardare il volto di suo padre.
Si sorprese nel vederlo disteso, sereno, come addormentato in un sonno profondo, di quelli rilassanti che non dovrebbero mai aver fine.
I capelli sale e pepe sembravano ben pettinati, le labbra carnose come le sue erano chiuse e rilassate.
La barba incolta gli ricopriva le guance e Eva ne percepì quasi il pizzicore che le faceva solletico ogni qualvolta si avvicinava a lui per scoccargli un bacio.
Il pensiero di quel semplice dettaglio la fece crollare.
Cominciò a singhiozzare davanti al suo papà, pensando che non si sarebbe più potuta avvicinare a lui, che non ci sarebbero stati più né abbracci né baci.
Né attimi da condividere insieme.
Né gioia, né dolore.
Suo padre non ci sarebbe stato più per lei.
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