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•4 Confronto•

«Buon viaggio», disse Eva, dando due baci sulle guance alla madre.

Milo, accanto a lei, si sporse per fare lo stesso e per un attimo respirò il profumo della donna, quella fragranza che non era mai mutata nel tempo e che durante quella breve visita di poche ore non aveva percepito, forse troppo distratto dal fiume di pensieri e sensazioni negative che quella giornata aveva rappresentato, per farci caso.
Era il profumo dell'infanzia, del contatto materno a cui non era più abituato da anni, e risentirlo anche per un solo secondo lo fece rituffare nei ricordi, che a volte si appiccicano sotto pelle senza alcun preavviso e riportano indietro nel tempo.

«Ciao mamma», fece staccandosi dal genitore.

Lei sembrò sul punto di dire qualcosa guardandoli entrambi, ma si trattenne abbassando gli occhi e facendo un timido sorriso prima di stringere il trolley, girarsi e incamminarsi verso il gate.
La guardarono mimetizzarsi tra la folla, mentre il brusio generale rompeva il silenzio sorto tra i due fratelli.
Eva osservò l'orologio e disse:

«Bene, andiamo. Sono riuscita ad anticipare l'appuntamento con zia, ci starà aspettando»

Milo la seguì, percorrendo la direzione che li avrebbe condotti all'uscita di Fiumicino.

«Era proprio necessario che venissi anche io? », chiese alla sorella con voce piatta.

«Sì Milo. Era anche casa tua una volta, ed è giusto che tu venga a vedere se c'è qualcosa che vuoi conservare. Sai, funziona così solitamente quando si perde un caro, si cerca sempre qualcosa da tenere per ricordarlo»

«E se io non volessi nulla?»

«Beh nessuno te lo impone. Ma per lo meno io avrò la coscienza a posto e non potrai rinfacciarmi tra qualche anno di aver preso tutto e non averti lasciato nulla», disse Eva diretta senza troppi giri di parole.

Milo decise di non ribattere e si limitò ad alzare gli occhi al cielo e seguirla. Dopotutto la tortura di quella parentesi romana sarebbe terminata presto, altri due giorni di sopportazione e poi se ne sarebbe tornato nella sua amata Torino, ristabilendo le distanze da tutto e da tutti.
Tornando a respirare nuovamente.

Salirono nella Jeep Renegade di Eva in silenzio e partirono.
Lei accese l'aria calda che pian piano cominciò a espandersi nell'abitacolo.
Milo si sentiva soffocare, così decise di abbassare il finestrino per far entrare un po' di fresco.

«Puoi chiudere per favore? », gli chiese Eva d'improvviso.

Milo decise di arrendersi senza ribattere e obbedì.

«La cintura », gli ricordò poi sua sorella, guardandolo di traverso mentre si stava immettendo nel traffico di Roma.

Milo sbuffò. A quasi 40 anni riusciva a farlo sentire di nuovo come un 16enne da ammonire e controllare.
Afferrò la cinta e se l'allacciò con stizza, dicendo:

«Pensi di rompermi i coglioni per il resto della giornata, oppure stai dando il meglio di te adesso? »

«Delicato come sempre. Posso ignorarti se vuoi, proprio come tu fai con me», rispose Eva di getto.

«Bene», fece Milo.

«Bene!», ribatté lei volendo avere l'ultima parola.

Un silenzio opprimente continuò a regnare tra i due.
Nemmeno la radio venne accesa per stemperare l'atmosfera.

Da un lato Milo era consapevole di non essere pienamente dalla parte del giusto. Sapeva di essersi comportato da stronzo con sua sorella in quelle poche ore trascorse insieme, per non parlare della sua assenza nei mesi precedenti.
Dentro di sé però riusciva a trovare degli alibi perfetti per il suo atteggiamento scontroso, delle giustificazioni che non gli permettevano di sviluppare un vero senso di colpa nei confronti di Eva.
Era come una vendetta la sua, per quello che era successo tanti anni addietro. Per lo strappo che non avevano saputo o voluto ricucire nel tempo e che si era pian piano logorato, facendo si che il nodo che li aveva tenuti legati fin dalla nascita non fosse altro che un cencio vecchio e malridotto che non riusciva più a tenerli insieme.

Milo si sentiva così con i componenti della sua famiglia: erano come lavori incompiuti, o peggio, finiti male. Sapeva di non poter buttare giù muri, ridipingere di bianco, trasformare ciò che era ormai vecchio e stantio in qualcosa di nuovo e ancora vivo.
Poteva farlo con i suoi progetti, ma non con loro.
Nel caso della sua famiglia non ci sarebbe potuto essere alcun rinnovamento, ma solo demolizione.

Dopo circa mezz'ora di mutismo reciproco Eva parcheggiò sotto quella che era stata la loro palazzina nel quartiere Monteverde.
Milo scese dall'auto e si ritrovò a osservare tutti i particolari della via che per tanti anni aveva definito "sua".
Quel palazzo dalla facciata gialla e dai balconi distribuiti uno accanto all'altro, il pino secolare nel cortile sottostante, la cui corteccia era sempre stata la "tana" perfetta per quando giocava a nascondino con gli altri bambini del quartiere, il giornalaio all'angolo da cui andava a comprare il giornale per suo padre e qualche bustina di figurine, il rumore del tram che passava a pochi metri di distanza.
Si perse un attimo nelle sensazioni e nei soliti ricordi che appunto si appiccicano sulla pelle e trascinano indietro, anzi costringono a guardare indietro.

Sua sorella lo aspettava di fianco alla portiera dell'auto: lei non aveva bisogno di osservare ogni singolo dettaglio di quella via, in quanto frequentava assiduamente quel posto.
Milo si destò dai suoi pensieri e incrociò lo sguardo della sorella in attesa.
Si ricompose e si incamminarono verso l'entrata del palazzo.

Milo sentiva un peso al petto che gli serrava il respiro e gli sembrava di non aver abbastanza fiato per percorrere i gradini che conducevano al terzo piano dell'edificio.
Una volta raggiunto, sua sorella di avvicinò al portone sulla loro destra, inserì il mazzo di chiavi e fece scattare tutte le mandate.

"Via il dente, via il dolore", pensò Milo tra sé, attendendo che quel varco si aprisse come il vaso di Pandora.

Sapeva che un solo passo all'interno di quella casa, avrebbe fatto riaffiorare in lui ricordi e sensazioni che negli anni aveva cercato sapientemente di sotterrare.
Eva spinse la porta ed entrò.
Milo fu investito dall'odore tipico di quell'appartamento che non sentiva da tempo. Quando abitava lì era assuefatto a quell'odore perché faceva parte anche di lui, ma ora, vivendo fuori da anni, lo percepiva nitidamente.
La penombra li avvolse.
Il sole trapelava mite dalle tapparelle dei finestroni, trasformando il mobilio in tante sagome inermi e non ben definite.
Sua sorella andò subito verso la finestra del salotto e tirò su la serranda per illuminare la casa, per poi recarsi nelle altre stanze e fare lo stesso.

Milo rimase in mezzo al salotto imbambolato.
Cominciò a guardarsi intorno, riconoscendo ogni dettaglio di quella che era stata la sua quotidianità e sentendosi terribilmente a disagio.
Troppi ricordi, troppi pensieri molesti gli stavano annebbiando la mente e chiudendo lo stomaco.
Se avesse potuto dar retta solo al suo istinto avrebbe afferrato la maniglia della porta e sarebbe corso giù per le scale il più veloce possibile per allontanarsi da quel luogo.
Negli anni era tornato varie volte per qualche breve visita a suo padre, ma oramai era da molto tempo che evitava quel posto, forse perché lì si era sempre sentito un pesce d'acqua salata costretto in una vasca d'acqua dolce, tremendamente nel posto sbagliato.

Venne destato dai suoi pensieri e dalle sue molteplici sensazioni dalla vibrazione del suo cellulare stretto nella tasca posteriore dei pantaloni.
Lo afferrò e notò il nome comparso sul display: Francesco.
Lanciò un'occhiata furtiva verso il corridoio per controllare che sua sorella non stesse tornando in salotto, ed uscì in terrazzo.

«Ehi...», fece rispondendo alla chiamata.

«Buongiorno! Scusa se ti chiamo solo ora, sono in pausa. Come stai? Che fai di bello? »

Al solo suono della voce di Francesco Milo si sentì finalmente a suo agio. Provó una forte nostalgia e la voglia di tornare a Torino il prima possibile.

«Hai qualche domanda di riserva? », disse storcendo il naso e guardando oltre il parapetto.

«Mmmm vediamo.... Mi pensi? », chiese Francesco, addolcendo il tono della voce.

«Sempre, lo sai », ammise Milo sorridendo alla cornetta.

«Anche io. Quando torni da me? »

«Il prima possibile spero », disse Milo sospirando profondamente.

«Non voglio sentirti così giù, hai capito? Risolvi quello che devi e poi gettati tutto alle spalle. Io sarò qui ad aspettarti »

«Penso di tornare venerdì. Mi vieni a prendere in aeroporto? », chiese Milo con una vena di speranza nella voce, sebbene già temesse la risposta.

«Il venerdì sai che non posso. Facciamo domenica pomeriggio, che ne dici? »

Milo sentì la delusione pervaderlo per l'ennesima volta.
Provava sempre a dare a Francesco la possibilità di smentirlo, di sorprenderlo forse, invece puntualmente riceveva la doccia fredda che già aveva preventivato.

«Ok...», rispose stanco.

«Devo andare. Ti amo»

«Anche io », disse in un filo di voce, chiudendo la chiamata.

Rientrò in salotto trovando Eva, in piedi, che lo fissava.
Milo la guardò interrogativo.

«Francesco? Ancora? », gli fece con tono sorpreso.

«Sì e quindi?», rispose lui con aria di sfida.

«Milo continui a gettare la tua vita!»

«Già la mia vita. Quindi vorrei sapere che voce in capitolo hai tu in tutto questo! », fece lui cercando di tirare corto.
Non si capacitava di come sua sorella avesse aperto un discorso del genere.

«È un uomo sposato Milo! Con una famiglia e dei figli! E non ha nemmeno il coraggio di ammettere a se stesso e a quelli che lo circondano chi è veramente!
È così da anni, ti illude di qualcosa che non succederà mai.
Perché lui non lascerà mai la moglie per te. Ti rendi conto di quanto continui a farti del male? », rincarò Eva con sguardo severo e ammonitore.

«Nella vita si sceglie di farsi del male in tanti modi, io ho scelto questo.
E mi va bene così, ok?
Perché non pensi a te stessa e alla tua presunta vita da favola! », ribatté Milo incattivito.

«Cosa vorresti dire?»

«Che non mi pare che tu sia nella condizione di poter puntare il dito sulle scelte sbagliate degli altri. Paolo non si accorgerebbe di te nemmeno se gli inciampassi addosso! »

Era stato cattivo, voleva esserlo. Tendeva ad assumere sempre un atteggiamento di difesa quando si trattava della sua vita privata.

«Come ti permetti? », chiese Eva quasi sconvolta.

«Ah, io come mi permetto? E dimmi, che cos'è questa stronzata che Gioia deve chiamarci nonno, nonna e zio? Vuoi giocare alla famigliola felice che non esiste, eh Eva? »

I suoi occhi azzurri si puntarono malevoli in quelli scuri della sorella, che in un attimo erano diventati lucidi.
Si era come bloccata, come se desiderasse ribattere ma non ne avesse il coraggio. Continuava solo a guardarlo sofferente, come a chiedergli la motivazione di così tanto astio gratuito.

Il trillo del citofono ruppe quella faida.
Milo vide Eva sussultare, per poi recarsi ad aprire il portone.
Il silenzio aleggiava teso tra loro due.
Dopo qualche minuto comparve sulla soglia zia Carola, gli occhiali tondi, i capelli sale e pepe corti e il fisico un po' tarchiato.
Si gettò subito su Eva stringendola forte, per poi lasciarla, guardare Milo e fare esattamente lo stesso.

«I miei cittini*. Oh cche brutta cosa che ci tocca ffare oggi...», fece con il suo forte accento fiorentino.

«Zia spogliati, dammi la giacca », disse Eva schiarendosi la voce.

Milo era certo che stesse trattenendo un groppo alla gola e probabilmente voleva prendere la scusa della giacca per nascondersi nell'altra stanza e asciugarsi qualche lacrima di rabbia.

Sua zia obbedì guardandosi intorno con il suo modo teatrale, per poi sedersi sul grande divano marrone al centro della stanza.

Milo rimase solo in salotto con sua zia che lo scrutava sotto gli occhiali da vista.

«Tua mamma? », gli chiese sospirando.

«È ripartita»

«Non avevo dubbi», ribatté polemica.

Milo decise di tacere, sapendo che le due cognate non erano mai andate d'accordo: in generale, la famiglia di suo padre non era mai riuscita ad accogliere la fredda moglie britannica.
Ennesima prova di quanto i suoi genitori non ci azzeccassero niente l'uno con l'altra.

«Quanto ti trattieni a Roma, zia? », chiese Eva tornando in salotto.

«Penso di ripartire domani dopo l'appuntamento con il notaio»

Milo se ne stava quasi per dimenticare: il momento delle spartizioni, della bieca eredità era arrivato. Per quanto lo riguardava non era interessato nemmeno ai soldi di suo padre.

«A proposito ragazzi, spero che non abbiate nulla in contrario se vostro padre mi ha lasciato la sua parte di eredità della casa dei nostri genitori... », fece la zia in tutta onestà.

Milo ripensò a quella casa nella prima periferia fiorentina, alle estati passate lì lontano da Roma, a quanto amasse stare con i suoi nonni, passeggiare lungo l'Arno, farsi insegnare dal nonno tutte le parolacce in toscano e poi farne sfoggio una volta tornato a casa con i compagni di classe. Non tornava neanche in quella casa da tempo, una volta morta la nonna non aveva avuto più nessun motivo per andare lì.
Un altro luogo zeppo di ricordi dolce-amari.

«No zia, ci mancherebbe, ti spetta di diritto », disse Eva parlando anche per lui.

«Non so invece come abbia voluto gestire la villa a Montefioralle... », fece la zia.

Milo sentì pronunciare quel nome per la prima volta e ne rimase sorpreso.
Cercò, in una frazione di secondo, di fare spazio tra i suoi ricordi alla ricerca di indizi che lo portassero a comprendere ciò che aveva appena detto sua zia, ma non ne trovò.
D'istinto guardò Eva alla sua sinistra e scorse sul suo viso la stessa espressione confusa.

«Quale villa? », chiese Milo curioso.

Sua zia strabuzzò gli occhi sorpresa.

«Quella che ha ereditato vostro padre tanti anni fa. Ma non ve ne ha mai parlato? »

Entrambi scossero il capo all'unisono.

*cittini: bambini in dialetto toscano.

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