•20 Promessa•
1975
Era una domenica come tante altre, ma quella settimana aveva coinciso con il giorno libero di Bruno.
Non aveva un giorno fisso settimanale in cui staccare dal suo lavoro e tornare a Firenze, ma variava in base alle condizioni di salute del signor Carlo.
C'erano settimane buone e altre meno, settimane in cui sembrava fare dei miglioramenti e altre in cui invece la malattia lo portava allo stremo.
Il suo stato fisico era labile, instabile, appeso quasi a un filo sottile.
Tutti si muovevano attorno a lui proprio per non alterare quell' apparente equilibrio, pronto a sgretolarsi per un nonnulla.
Ed era quello che era successo quel giorno: Bruno aveva appena pranzato con la sua famiglia e per l'occasione era stata invitata anche Mara.
L'atmosfera era leggera, spensierata, un tipico pranzo domenicale scandito dalla tv in sottofondo, risate, novità, bis di porzioni sempre più abbondanti, per poi terminare con l'immancabile caffè digestivo.
Bruno guardava i suoi genitori, sua sorella, la sua ragazza e si sentiva in pace. Accarezzava quella che era stata la sua vita di tutti i giorni fino ad allora: semplice, senza pretese, ma vera e genuina. Ripiombava nella sua realtà così lontana dalla vita che conduceva in quella casa, lontano da lì.
Spesso però gli pareva quasi di sdoppiarsi: quando era a Montefioralle, soprattutto durante le giornate più pesanti, gli capitava di rimpiangere casa e di voler tornare al più presto, come per disintossicarsi da quell'ambiente, come per tornare a respirare aria pura.
Ma poi quando si trovava con i suoi parenti, era come se ormai Firenze fosse solo una breve parentesi di villeggiatura perché la sua vita si svolgeva altrove.
Pensava alla villa come a un qualcosa a cui non poteva sfuggire e che inevitabilmente lo richiamava a sé.
E anche quel giorno la chiamata arrivò perentoria, proprio per richiamarlo ai suoi doveri.
Era ancora seduto a tavola: sua madre aveva iniziato a lavare i piatti, Mara stava aiutando Carola a sparecchiare, mentre lui e suo padre erano impegnati a commentare l'andamento della Fiorentina nel campionato, quando il trillo del telefono risuonò nella stanza.
Sua madre si asciugò le mani bagnate sul grembiule e si diresse verso il salotto per andare a rispondere.
Bruno sentì solo il "Pronto?" della madre seguito da un attimo di silenzio prima di:
«Bruno! È per te!»
In un frammento di secondo pensò che potesse trattarsi di Giacomo o di Pietro, i suoi migliori amici, che lo chiamavano a casa per vedersi, ma poi realizzò che quella era la sua vecchia vita, che sua madre non aveva salutato nessuno alla cornetta e che si era limitata a dirgli che qualcuno lo cercava, un qualcuno che lei non conosceva.
No, non potevano essere i suoi amici, sicuramente lo stavano chiamando da Montefioralle.
Si alzò da tavola e si incamminò a passo svelto per raggiungere la madre, che gli passò il telefono con aria preoccupata.
Lui lo prese tra le mani e se lo portò all'orecchio dicendo:
«Pronto?»
«Bruno! Sono la Pina. Scusa se ti disturbo ma è un emergenza... », fece l'inserviente di Villa Alberti con voce concitata.
In un attimo Bruno sentì i battiti del cuore accelerare vertiginosamente per l'ansia.
«Dimmi, è successo qualcosa?», le chiese lui, mentre sua madre continuava a stargli accanto, cercando di capire il motivo di quella chiamata così "strana".
«Il signor Alberti non sta bene. Non sta per niente bene. La signora mi ha chiesto di chiamarti perché ha bisogno del tuo aiuto. Abbiamo anche cercato di contattare il medico, ma non risponde»
«Che cos'ha? », domandò lui per avere un quadro della situazione.
«Non lo so. Sembra che respiri a fatica. Bruno per favore, torna»
«Sì, sì certo che torno! Il tempo di arrivare, Pina. Ci vediamo tra poco, parto subito!», disse, tentando di tranquillizzare la donna, il cui tono di voce era seriamente preoccupato e non lasciava trasparire nulla di buono.
«Grazie, Bruno. A dopo!», fece lei, prima di staccare la chiamata.
Agganciò la cornetta del telefono e tentò di riordinare i pensieri che in quel frangente sembravano fare a pugni nella sua testa.
Un attimo prima era sereno e spensierato, pronto a rilassarsi e a godere di quella giornata in famiglia, e ora si ritrovava a dover partire e a gestire una situazione d'emergenza.
«Ti hanno chiamato dalla villa?», gli chiese sua madre, camminandogli dietro mentre lui si era diretto in camera sua per prendere le sue cose e metterle nella sacca.
«Sì mamma, devo andare. Sembra che il signor Alberti non stia bene... », rispose lui, acciuffando magliette, mutande e calzini che sua madre gli aveva lavato e ripiegato sopra il letto.
«Già te ne vai? », lo raggiunse la voce di Mara alle sue spalle.
Si girò e la trovò poggiata allo stipite della porta della sua camera, le braccia conserte, gli occhi inquisitori e le labbra sottili strette in una smorfia.
Lui fece un profondo respiro: tutto ciò di cui non aveva bisogno in quel momento era anche il senso di colpa che la sua ragazza sapeva incutergli con grande maestria.
«Sì mi dispiace, ma devo partire ora», fece risoluto, chiudendo la sacca e dirigendosi verso la porta per uscire dalla sua camera.
Si fece spazio tra le due donne e si diresse verso il corridoio, incontrando nel frattempo suo padre e sua sorella che lo guardavano con la stessa espressione confusa.
«Che è successo?», provò a chiedere suo padre, vedendolo davanti alla porta di casa.
«Bruno deve andare. Vai piano e chiama quando arrivi, mi raccomando», disse sua madre prima di stringerlo in un abbraccio intenso come se stesse per partire per il fronte.
«Sì mamma, stai tranquilla.
Scusate, vado... », disse lui frettolosamente, intercettando per un attimo gli occhi di Mara che lo scrutavano impassibili sotto la frangetta castana.
Aprì il portone di casa e prese la rampa di scale del condominio.
Decise di non guardarsi indietro proprio per non vedere quelle facce sgomente da quel repentino cambio di programma.
Chiuse l'immagine dei suoi e di Mara in un cassetto della sua sua mente, oramai era diventato un maestro a organizzare i suoi pensieri in compartimenti stagni: doveva accantonare la sua vecchia vita perché quella nuova lo richiamava con impazienza.
I volti della sua famiglia in un attimo vennero soppiantati da quelli del signor Carlo, di Lidia, di Eleonora, Gianfranco e della Pina.
Aprì la sua Fiat 126 e buttò malamente la sacca sul sedile posteriore.
Mise in moto, poggiando lo sguardo sullo specchietto retrovisore per guardare il suo palazzo in mattoncini rossi e persiane bianche, la sua strada, la sua città, la sua vecchia esistenza, con l'amara certezza di salutare la sua pace e la sua tranquillità per l'ennesima volta.
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Bruno entrò nella villa che all'apparenza sembrava deserta.
Non sapeva se fosse la consapevolezza che qualcosa non andasse a fargli percepire attorno una strana atmosfera, oppure se l'ambiente circostante fosse cambiato: non si sentiva un rumore, solo silenzio.
Non c'era il vociare dei dipendenti delle villa, né il rumore del trattore tra le vigne in lontananza, nemmeno gli uccelli cinguettavano, nonostante fosse pieno pomeriggio.
Sentiva solo il pulsare del suo cuore agitato battere nelle orecchie.
Attraversò il corridoio, poi il salotto e si diresse verso le scale senza incrociare anima viva.
A grandi falcate raggiunse il primo piano, dove si trovava la camera del signor Carlo, e solo allora vide un piccolo capannello di persone davanti alla porta.
Notò subito la Pina con accanto Cristina e altre due inservienti.
Si girarono in sincrono verso di lui e Bruno non riuscì a scorgere nei loro volti altro se non sconforto e smarrimento.
Per un attimo pensò di essere arrivato troppo tardi, che la crisi fosse stata troppo forte e che il signor Carlo avesse chiuso gli occhi per l'ultima volta.
Poi vide la Pina venirgli incontro e dire:
«Oh grazie al Signore, eccoti! Sono tutti dentro...»
Lo guardava implorante, come se in lui vedesse l'unica salvezza.
Bruno non aggiunse una parola e si limitò a entrare nella stanza del signor Carlo velocemente, per poter accertarsi il prima possibile di quanto fosse grave la situazione.
Appena entrato si imbatté in Gianfranco Gigli che osservava il letto del suocero in disparte, con le mani in tasca, incapace di poter dare un contributo concreto.
Il signor Carlo era immobile come sempre, ma il silenzio di quella stanza era rotto dall' affanno del suo respiro, scandito da un fischio sinistro.
Accanto a lui Lidia che sembrava intenta a cambiargli delle bende umide e a posizionargliele sulla fronte.
Poco più in là, vicino alla finestra, Eleonora che fissava l'esterno con noncuranza, come se quella scena così angosciante non la riguardasse.
Ogni tanto tirava delle occhiate alla sorella e a quel letto, senza però avvicinarsi.
«Lidia è arrivato...», disse la voce profonda del Gigli non appena Bruno entrò nella stanza.
La donna si girò di scatto verso di lui, intercettando i suoi occhi.
Bruno sentì solo una morsa allo stomaco: una mano conficcataglisi nell'addome che gli aveva afferrato le viscere, stringendogliele per non farlo scappare.
In quegli occhi vide la profondità dell'angoscia, vide il terrore più puro, vide quella donna totalmente prostrata.
E lui sentì nitidamente il peso di quel sentimento angosciante e opprimente che è il senso di colpa.
Non avrebbe dovuto allontanarsi da lì, non sarebbe dovuto tornare, non avrebbe dovuto abbandonarla.
In quell'esatto momento avrebbe voluto correre da lei, prenderle le spalle e stringerla a sé, farle sentire che lui era accanto a lei, che non era sola in quella stanza, ignorata da un marito fedifrago e da una sorella ingrata.
Ma non poteva, e soprattutto doveva ricordare che il suo fine ultimo doveva essere quello di far star bene il signor Carlo, non di consolare la figlia.
Con voce tremante riuscì a chiedere:
«Come sta? Che è successo?»
«Ha la febbre alta dalla scorsa notte e respira a fatica. Non riesco a farlo sfebbrare e il medico non risponde, è domenica», spiegò Lidia con voce roca.
Bruno si avvicinò cautamente al letto, cercando di valutare la situazione.
Il signor Carlo era disteso come sempre ma teneva gli occhi serrati e il respiro era affannato, scandito ogni tanto da alcuni colpi di tosse sinistri.
Bruno poggiò delicatamente il palmo della mano sulla fronte dell'uomo ma la ritrasse subito, rendendosi conto di quanto scottasse.
Capì che la situazione era forse più grave di quella che si aspettava.
Doveva prendere in mano la situazione, nonostante non fosse un medico.
Doveva abbandonare le sue paure e le sue insicurezze e concentrarsi sul suo paziente, perché in quel momento era l'unico che potesse aiutarlo, se non addirittura salvarlo.
«Sembra una broncopolmonite. Ha preso freddo per caso?», chiese Bruno, rivolgendosi a Lidia.
Lei rimase in silenzio, limitandosi a gettare un' occhiata verso la finestra, di fronte alla quale c'era la sorella.
Bruno si girò istintivamente verso Eleonora, sulla quale ormai erano puntati tutti gli occhi dei presenti.
In un attimo, la ragazza senza dire una parola, scattò in avanti, raggiungendo a grandi falcate la porta della stanza per poi superare le cameriere sulla soglia e andarsene.
«Nora...», provò a chiamarla Lidia, senza però sortire alcun effetto.
«Lasciala stare, le passerà... », fece Gianfranco di rimando.
Bruno non capiva cosa stesse succedendo, sentiva una certa tensione nell'aria, ma allontanò le domande che gli affollavano la mente perché in quel momento la priorità doveva essere quella di aiutare il signor Alberti.
Così tentò di prendere in mano la situazione dicendo:
«Dobbiamo fargli abbassare la temperatura»
«Gli ho già dato la Tachipirina ma niente», gli spiegò Lidia.
«Pina, per favore hai del ghiaccio? »chiese Bruno, rivolgendosi all'inserviente sulla soglia della stanza.
«Sì, certo», rispose la donna, facendosi avanti.
«Riempi la vasca da bagno con tutto il ghiaccio che puoi e aggiungi acqua fredda», le ordinò con fermezza, prima che la donna si allontanasse svelta per eseguire la mansione.
«Cristina tu prendi delle lenzuola e falle bollire nell'acqua», disse Bruno alla ragazza.
Poi si girò verso Lidia che lo guardava confusa e smarrita e le disse:
«Prima lo immergeremo rapidamente in acqua ghiacciata e poi lo avvolgeremo nelle lenzuola calde. Questo sbalzo di temperatura dovrebbe fargli abbassare la febbre, intanto.
Poi dobbiamo trovare un modo per farlo respirare meglio», spiegò.
«Non gli prenderà un accidente?», chiese Gianfranco dal suo angolo in disparte.
Lui stava per ribattere, quando la voce di Lidia fu più veloce della sua:
«Bruno sa quello che fa. Se reputa che questo sia il metodo migliore, sicuramente lo è», disse, rivolgendosi al marito.
In quel momento sentì una vampata di calore irradiarsi su tutto il viso: Lidia lo aveva appena difeso, manifestando il fatto che si fidava ciecamente di lui e delle sue capacità, e lui non doveva deluderla... non poteva.
In un attimo il timore di non essere in grado di gestire quella situazione venne spazzato via perché quelle parole erano state in grado di infondergli coraggio e consapevolezza.
«Spogliamolo intanto», suggerì, mentre Lidia cominciò ad aiutarlo in silenzio.
Dopo poco la Pina irruppe nella stanza trafelata, annunciando:
«La vasca e le lenzuola sono pronte»
«Bene. Aiutatemi a trasportarlo in bagno per favore», disse Bruno.
«Ci penso io», esordì il Gigli, facendosi avanti.
Bruno infilò le braccia sotto le ascelle del povero uomo mentre il genero lo reggeva dalle gambe.
Lentamente e con un po' di fatica lo trasportarono nel bagno del primo piano e lo immersero delicatamente nella vasca.
Bruno vide il signor Carlo scosso dai brividi, sintomo che la febbre stesse scendendo rapidamente.
Era diventato ancora più pallido e le labbra sembravano essersi tinte di una sfumatura violacea.
Dopo poco più di due minuti disse:
«Ora riportiamolo di là e stendiamolo sulle lenzuola bollenti»
Gianfranco sì rimboccò le maniche della camicia bianca fino agli avambracci, così da non bagnarsi e issò nuovamente le gambe del suocero.
Lo riportarono in camera e lo adagiarono sulle lenzuola preparate poco prima da Cristina, avvolgendolo come se fossero delle bende.
Rimasero così tutti a osservare il signor Carlo, in silenzio, non sapendo cosa aspettarsi.
Bruno lo guardava, trattenendo il respiro e pregando di non aver peggiorato le cose.
"Dai Carlo, ce la può fare... ce la
deve fare", pensava dentro di sé, osservandolo.
L'uomo smise di tremare e il colorito spento e grigiastro che aveva assunto fino a pochi istanti prima scomparve, sostituito da una tonalità rosata.
Il ragazzo a quella vista tirò un respiro di sollievo.
«Leviamo le lenzuola e rimettiamogli dei vestiti asciutti», suggerì a quel punto Bruno.
Le donne eseguirono l'ordine senza battere ciglio.
Le braccia di Lidia sorreggevano il padre con delicatezza e devozione mentre i suoi occhi continuavano ad essere lucidi e la pelle del viso era tirata.
Bruno avrebbe voluto rassicurarla in qualche modo, anche solo poggiarle una mano sulla spalla e stringerla, ma la presenza del marito dietro di lui lo inibiva.
Una volta rivestito gli misurarono nuovamente la febbre.
«Trentasette e cinque», annunciò Bruno, dopo aver sfilato il termometro dall'ascella del signor Carlo.
«Grazie a Dio!», esordì la Pina sollevata.
Lidia si allungò verso il padre, sorridendo e accarezzandogli la fronte.
«Ora dobbiamo farlo respirare meglio.
Lo metteremo steso a pancia in giù con i piedi sollevati. Portate almeno altri due cuscini», fece Bruno rivolto alle cameriere, poi si girò verso il Gigli chiedendogli:
«Mi da una mano?»
L'uomo si avvicinò immediatamente senza fiatare, seguendo le indicazioni del giovane infermiere.
Posizionarono il signor Carlo a testa in giù, inclinandolo in modo che il busto sporgesse dal letto, mentre le gambe erano tenute alte da diversi cuscini posti uno sopra l'altro.
«Per quanto deve stare così?», chiese Gianfranco, guardando stranito quella scena inusuale.
«Finché non tornerà a respirare meglio. Proveremo a rimetterlo supino domani mattina», rispose Bruno speranzoso.
«Tesoro perché non andiamo un po' di sotto? C'è Bruno adesso, non c'è bisogno che resti qui», chiese il Gigli alla moglie con tono mellifluo, che a Bruno diede il voltastomaco.
Lidia guardò immediatamente il ragazzo, cercando nei suoi occhi un permesso.
«Andate pure. Se dovessi avere bisogno vi chiamerò subito», fece Bruno, abbozzando un sorriso.
Lidia lanciò un occhiata colpevole verso il padre ma poi si fece trasportare dalla mano del marito senza opporre resistenza fuori dalla camera.
Le inservienti fecero lo stesso, lasciando il ragazzo con il suo paziente.
Nel silenzio di quella stanza, Bruno
sentì l'adrenalina che si era impossessata del suo corpo e che gli aveva permesso di reagire prontamente abbandonarlo, come un pesante mantello caduto a terra.
Cercò di sbrogliare la mente e di pensare che tutto si sarebbe risolto, che il signor Carlo sarebbe tornato a respirare bene e che il medico il giorno successivo si sarebbe congratulato con lui per il suo intervento tempestivo.
Si passò una mano tra i capelli neri sfinito.
D'un tratto sentì il cigolio della porta alle sue spalle. Si girò e intravide la sagoma di Eleonora che spuntava da dietro la porta.
Lentamente entrò nella stanza con gli occhi fissi su suo padre.
«Come mai lo avete messo così? », chiese.
«Questa posizione lo aiuterà a respirare meglio. Almeno finché domani potremo contattare il medico»
La solita spavalderia che traspariva dagli occhi verdi della ragazza sembrava essere scomparsa.
Era intimidita, impaurita, scossa, come Bruno non l'aveva mai vista.
«È stata colpa mia», disse lentamente.
Lui la guardò confuso.
«Ieri sera si era alzato il vento e ho tenuto la finestra aperta come sempre, per farlo respirare, per non tenerlo sempre rinchiuso in queste quattro mura», disse lei con voce tremante.
In quel preciso momento Bruno capì del perché fosse fuggita via dalla stanza quando aveva chiesto se il
signor Carlo avesse preso freddo.
Eleonora si reputava colpevole dell'accaduto.
«Potrebbe essere stato anche del cibo che gli è andato di traverso. Le persone che hanno difficoltà a deglutire spesso possono andare incontro anche a infezioni dovute al cibo, che anzi che raggiungere lo stomaco arriva alle vie aeree», ipotizzò, cercando di rassicurarla.
«Lo sai anche tu che è una cazzata», lo incenerì lei.
«Scusa, volevo solo ...»
«Darmi un alibi? Beh, non ne ho bisogno, so assumermi le mie responsabilità!», disse lei, alzando il tono della voce.
«Sarebbe gradito un "grazie" ma penso che sia pretendere troppo da te, vero? », le chiese lui stizzito.
Se prima tentava di mordersi la lingua e frenare ciò che gli ribolliva dentro, ora aveva raggiunto talmente il
limite della sopportazione che non voleva più censurarsi.
Lei lo fulminò con gli occhi e in quel momento Bruno scorse lo stesso sguardo fiero e insolente che aveva sempre visto in lei.
Poi, d'un tratto, le labbra serrate si trasformarono in una smorfia di dolore, i suoi occhi cominciarono a bagnarsi e far scorrere lunghe scie di lacrime sulle guance appena baciate dal sole.
Eleonora Alberti stava piangendo di fronte a lui. Si portò una mano sulla bocca e si accasciò sulla sedia accanto al letto del padre, scossa dai singhiozzi.
Bruno rimase impalato a fissarla, incapace di dare un senso a quel cambio repentino di umore.
Sebbene non gli facesse piacere vederla in quelle condizioni, non sentiva tuttavia l'istinto di protezione che aveva percepito poco prima nei confronti di Lidia.
E così non si mosse, rimase davanti a lei senza cercare di rincuorarla.
«Non posso perdere anche lui... », disse Eleonora con la voce rotta dal pianto e dai fremiti, tentando di tamponarsi gli occhi con il palmo di una mano.
«Non lo perderai», si limitò a dire Bruno, cercando di sembrare abbastanza convincente.
«Mi dissero la stessa cosa quando avevo sei anni e aspettavo che mia madre aprisse gli occhi.
Invece era già morta», disse Eleonora con tono amaro.
Bruno rimase colpito da quell'esternazione. Più volte si era domandato cosa fosse accaduto alla moglie del signor Carlo, ma mai nessuno gli aveva raccontato nulla.
Aveva intuito che fosse morta ma non credeva da così tanto tempo.
«Lui per lo meno si è ammalato e non ha potuto niente contro l'ictus, ma mia madre ha scelto di andarsene», proseguì la ragazza come in un flusso di pensieri ad alta voce.
«Che è successo?», riuscì a chiedere lui, temendo al contempo di risultare inopportuno.
«Si è alzata una mattina e si è gettata dalla finestra. Così, come se nulla fosse... senza nemmeno lasciare scritto nulla, senza spiegazioni. Non era felice, punto», confessò la ragazza, fissando il pavimento.
«Mi dispiace», sussurrò Bruno avendo un moto di pena per lei.
Pensò a quanto fosse fortunato: aveva appena trascorso un piacevole pranzo in famiglia accanto ai suoi genitori, entrambi in salute, mentre quella ragazza aveva perso la madre da bambina e il padre era un manichino inchiodato a letto, impossibilitato a darle una carezza o un consiglio.
Quanto dolore doveva celare Eleonora dietro il suo sguardo indomito e fiero?
«Non potrei mai perdonarmelo se gli succedesse qualcosa. Papà è tutto per noi... Davvero credi che starà meglio? », gli chiese, puntando gli occhi smeraldo su di lui.
"Lo spero", pensò Bruno, ma invece volle rispondere:
«Sì»
«Promettimelo », fece lei di rimando con lo sguardo ardente.
«Non posso fare questo tipo di promesse»
«Se non prometti vuol dire che non ci credi veramente», gli disse, fissandolo e sfidandolo.
Bruno si sentì alle strette e come sempre provò un senso di disagio in sua presenza.
Non aveva la certezza che il signor Alberti sarebbe stato bene, ma ci voleva credere con ogni fibra del suo corpo.
E così rispose:
«Te lo prometto»
✧∭✧∭✧∰✧∭✧∭✧
Come sempre chiedo perdono per eventuali strafalcioni medici presenti in questo capitolo (oltre a non essere laureata in giurisprudenza non lo sono nemmeno in medicina).
Quindi abbiate pietà e spero solo che possiate comunque apprezzare il mio tentativo di realismo.
A presto!
Bomambo
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