•1 Ritorno•
Aeroporto di Roma Fiumicino.
Milo era davanti al tabellone degli arrivi.
Guardava distrattamente la folla che si accalcava tra una fila di un gate e l'altro, ognuno carico dei suoi trolley.
Nei volti di alcuni viaggiatori poteva scorgere esaltazione ed euforia, pronti a partire per raggiungere una nuova meta.
Poi c'erano quelli come lui: grigi, lo sguardo vacuo, quasi annoiati.
Coloro che si trovavano all'aeroporto per questioni ben lontane da un piacevole viaggio.
Aveva fatto tappa a Roma da Torino e si trovava ad attendere il volo di sua madre proveniente da Londra.
Dall'aeroporto si sarebbero recati insieme all'obitorio e quello stesso pomeriggio ci sarebbe stato il funerale.
Eva si era offerta di ospitarli a casa e sua madre aveva accettato.
Milo invece aveva preferito prenotare un B&b poco lontano.
Non voleva essere costretto a passare più tempo del dovuto insieme a tutti loro.
Già sentiva addosso lo sguardo di Eva che lo giudicava, senza però dirlo apertamente: accusato di averla lasciata sola, di essersene fregato di suo padre e della sua malattia, di non essere stato presente neppure nel giorno della sua morte e di farsi vivo solo per il funerale.
Immaginava la freddezza con cui l'avrebbe accolto Paolo.
In qualità di cosa poi?
Non era neppure suo cognato, dal momento che non si decideva a chiedere il divorzio definitivo dalla sua ex moglie e sposare sua sorella.
Aveva sempre quell'aria da tuttologo, da esperto di sto' cazzo, quando invece era solo un fanfarone, un omuncolo che si trincerava dietro la sua brillante carriera da professore universitario e il suo presunto fascino.
Milo era consapevole di piacere a Paolo quanto lui piacesse a lui: ovvero zero, tendente al meno uno.
Si sarebbe sentito come sempre un estraneo in quella casa perfetta tipica della piccola borghesia romana.
Una casa scelta nei minimi particolari da sua sorella, ma che lui avrebbe demolito, ricostruito e riarredato da cima a fondo.
Era un designer d'interni Milo e amava tutto ciò che fosse squadrato, lineare e asettico.
Limpido e chiaro, come era lui.
Amava l'eleganza minimalista, il bianco accecante che illumina le case e che svuota la mente dal grigiore esterno.
Era bravo nel suo lavoro Milo. Lasciava un po' di sé in ognuna delle sue "creazioni", si immaginava vivere in quelle case lussuose della Torino bene e odiava doverle restituire ai legittimi proprietari una volta terminato il suo lavoro, perché non avrebbero mai dato le stesse attenzioni che aveva prestato lui a quegli ambienti.
Li avrebbero insozzati con le loro vite frenetiche e prive di amore per la bellezza.
Milo sarebbe voluto scendere a Roma il giorno dopo la notizia, ma sua madre non aveva trovato nessun volo da Londra e così aveva deciso di aspettarla, ritrovandosi nella capitale solo il giorno stesso della messa.
Dell'ultimo addio.
Ogni tanto Milo veniva percorso da pensieri negativi che cercava in tutti i modi di allontanare: la bara, il corpo di suo padre immobile, il silenzio, i singhiozzi di parenti alla lontana o di sconosciuti.
Sapeva che tutto ciò lo stava aspettando, sapeva che avrebbe dovuto affrontarlo, ma preferiva ritardare e posare la sua attenzione su altro.
Come su quel bel steward di terra che ogni tanto incrociava il suo sguardo. Aveva sempre avuto un debole per le divise, soprattutto se indossate da ragazzi alti e ben piazzati.
«Hi darling!»
La voce di sua madre gli fece interrompere quel gioco di sguardi.
Si era avvicinata a lui senza che nemmeno se ne accorgesse.
Milo pensò che quella donna fosse come sempre la rappresentazione dell'eleganza inglese: alta, slanciata, caschetto argento senza un capello fuori posto, labbra sottili e lo sguardo limpido e ceruleo come il suo.
Stessi occhi color acqua marina di Milo.
Sembrava un angelo, avvolta in un elegante cappotto bianco abbellito da una sottile sciarpa di seta.
Suo figlio la guardava e l'ammirava come sempre.
«Ciao mamma», rispose lui lasciandosi cingere in un rapido abbraccio.
Niente di troppo caloroso o sdolcinato. Non erano abituati a quel genere di contatto "all'italiana".
Sua mamma era sempre stata presente ma mai asfissiante, vicina ma quanto bastava, non aveva vissuto in funzione dei figli, li aveva tirati su per donarli al mondo e non per tenerli stretti a sé.
Milo era abituato al suo modo anglosassone di dare affetto, era il modo in cui era stato cresciuto e non aveva forse mai sentito l'esigenza di qualcosa di diverso.
Tutto sommato sua madre era la persona con cui era sempre andato più d'accordo in famiglia.
La sentiva molto più simile a lui.
Libera.
Priva di sovrastrutture.
Moderna.
Diversa anni luce da suo padre, tanto che spesso si era ritrovato a pensare cosa mai li avesse potuti unire.
«Andato bene il volo? », le chiese afferrando il suo trolley.
«Sì tutto bene, a parte un po' di turbolenze sopra Londra», rispose sua madre seguendolo mentre si faceva spazio tra la folla per raggiungere una delle uscite.
Trovarono un taxi e salirono nei sedili posteriori, uno accanto all'altra.
Milo cominciò a guardare dal finestrino la strada che scorreva veloce.
Con la coda dell'occhio notò sua madre che si era voltata verso di lui e che lo stava osservando.
Preferì fare finta di niente.
«Did you hear her?»
Sua madre si rivolgeva spesso in inglese quando non voleva farsi capire da chi aveva intorno, in questo caso dal tassista.
«Two days ago», rispose lui indifferente.
«She's not well», continuò sua madre.
«Did you imagine something different?», le chiese Milo volgendosi verso sua madre e alzando le sopracciglia.
«And you? How do you feel?», continuò lei.
Milo rimase sorpreso sentendosi rivolgere una domanda a cui in realtà non sapeva rispondere.
«I don't feel nothing», rispose lui lapidario, voltandosi di nuovo a osservare fuori dal finestrino.
✧∭✧∭✧∰✧∭✧∭✧
Avevano fatto solo una rapida sosta verso un deposito per lasciare i bagagli e il taxi si era poi diretto all'obitorio del San Camillo.
L'aria era frizzante, quasi gelida.
Il cielo plumbeo prometteva una pioggia imminente.
L'umidità colpì Milo fino in fondo alle ossa, facendolo stringere ancora di più nel cappotto nero che indossava.
Mentre stavano raggiungendo l'entrata in silenzio, incrociarono Paolo che stava uscendo, seguito da sua figlia.
Gioia, quindici anni, nata dal precedente matrimonio naufragato di Paolo, con quella che sua sorella Eva definiva "la demente". Una donna il cui senso materno non era poi così spiccato, e che dopo pochi anni dalla nascita della figlia, aveva preferito la carriera da giornalista freelance piuttosto che la vita da mamma e da moglie.
Così Paolo si era ritrovato a crescere Gioia da solo, o meglio con Eva, che era entrata nella sua vita pochi anni dopo la separazione.
Ora vivevano tutti e tre insieme: padre, figlia e "matrigna".
Milo era al corrente che il rapporto tra sua sorella e la ragazza non fosse idilliaco, nonostante Eva tenesse molto a lei e si impegnasse a rivestire i panni di una madre surrogata, che però Gioia non aveva mai accettato fino in fondo.
Perché sua sorella era così: aspirava alla perfezione, si incaponiva nel raggiungimento dei suoi obbiettivi da "donna senza macchia e senza paura" e andava avanti per la sua strada come un bulldozer. Non capendo che lungo il percorso non c'era solo lei, ma anche tanti altri apparenti ostacoli chiamati "persone", con un loro animo e con una propria indole.
Gioia era uno di quegli ostacoli e Milo si sentiva lo stesso. Dei maledetti tasselli che Eva non riusciva ad incastrare nel puzzle della sua vita da manuale.
Gioia li notò in lontananza e sorrise a Milo. Li aveva sempre uniti una certa sintonia caratteriale, forse perché in lui vedeva un outsider come lei.
Paolo invece aveva il solito sguardo altezzoso, gli occhiali da vista con la montatura in metallo calati sulla punta del naso, la mascella squadrata contratta, coperta da una leggera barba sapientemente scolpita.
I suoi occhi azzurri saettarono prima su Milo e poi su sua madre.
«Gayle...Milo. Condoglianze», disse Paolo con sguardo contrito.
Milo lo vide sporsi verso sua madre per darle un rapido abbraccio che lei ricambiò, per poi allungare un braccio verso di lui e dargli due pacche sulle spalle.
Quel gesto lo infastidì.
Un tentativo di apparire fraterno in un momento del genere, quando realmente era distante anni luce da lui.
Trovò fastidioso anche il termine "condoglianze": una parola vuota, senza senso che si pronuncia per consuetudine ma che non rispecchia una vera empatia.
Paolo si dimostrava come sempre un uomo fatto di apparenze più che di concretezza.
«Eva è dentro. Scusate ma io devo tornare in facoltà e accompagno Gioia a casa. Ci vediamo questa sera», disse, prima di superarli e raggiungere la sua auto seguito dalla figlia.
Si incamminarono verso l'entrata dell' obitorio in silenzio.
File e file di porte interminabili lungo un corridoio senza fine.
Tante stanzette di dolore, ognuna pronta ad accogliere chi se ne era andato e le lacrime di chi rimaneva.
Avanzando, Milo cominciò a scorgere qualche volto conosciuto, qualche amico di vecchia data del padre e capì di essere arrivato.
Intercettò lo sguardo di sua madre e un suo rapido sorriso di conforto, prima di varcare la porta della stanzetta numero 10.
Sentiva il cuore martellare nel petto, il disagio di quel momento stava scoppiando con tutto il suo impeto.
Il silenzio era opprimente, rotto solo da qualche gemito o pianto sommesso.
La prima cosa che vide non fu la bara, come era facile immaginare, ma sua sorella.
Era seduta su una scomoda seggiolina in plastica. Indossava un cappotto nero che metteva ancora più in risalto il pallore della sua pelle.
Lo sguardo spento e vuoto fisso su un punto indefinito.
Milo non l'aveva mai vista struccata, così poco curata, quasi non sembrava lei.
Mentre la guardava, gli occhi di Eva incrociarono i suoi.
Pensò che erano supplichevoli, sembrava volessero dire "finalmente sei qui, non sono più sola".
Milo sentì lo stomaco serrarsi.
Era assurdo, stava quasi ignorando il corpo di suo padre e soffriva per la vista di sua sorella.
Sua madre si diresse dritta verso Eva e l'abbracciò.
Sua sorella le si aggrappò come un naufrago su uno scoglio, come se quell'abbraccio potesse farla tornare integra, salva, viva.
Scoppiò a piangere sulla sua spalla, sfogando forse tutte le lacrime che aveva trattenuto fino a quel momento.
Milo era rimasto un passo indietro, impietrito e immobile, a disagio nella sua stessa pelle. Gli pareva che tutti gli occhi dei presenti fossero puntati su loro tre, sulla famiglia del morto, quella famiglia così strana e anticonformista che si ritrovava "unita" solo in un momento così tragico.
Si sentiva già sopraffatto da quel momento e non si era concesso di fare ciò che sapeva lo avrebbe distrutto definitivamente: vedere suo padre morto.
Aveva mostrato indifferenza, freddezza, quasi menefreghismo davanti agli occhi di tutti, recitando la parte del figlio ingrato che non lascia trapelare alcuna reazione di fronte alla morte del padre.
Ma quello era ciò che Milo voleva che vedessero tutti.
Non la verità, non che cercava da giorni di reprimere il dolore più grande della sua vita.
Non voleva mostrare che si era e si stava sgretolando in un milione di piccoli pezzi.
No, quello non lo avrebbe mostrato a nessuno, nemmeno a sua madre, nemmeno a Eva che invece non aveva alcun timore di esternare la sua sofferenza.
Quel dolore doveva essere suo, dal momento che lui per primo doveva ancora accettarlo.
Perché Milo se lo era ripromesso tanti anni prima che non avrebbe più versato nemmeno una singola lacrima per quell'uomo, mai più, nemmeno il giorno della sua morte.
Lo aveva amato troppo quel padre che non era mai riuscito a capirlo, quel padre che aveva voluto compiacere in tutti i modi possibili , ma che sembravano non bastare mai.
Aveva semplicemente deciso di archiviarlo dalla sua vita perché gli aveva arrecato troppo dolore e ci stava riuscendo un'ultima volta con la sua morte.
Mosse rapidamente lo sguardo e si sforzò di guardare suo padre: vestito con il suo completo nero elegante, le mani intrecciate sopra il petto, gli occhi serrati che non si sarebbero più aperti per fissarlo in silenzio come era solito fare.
Milo ricacciò indietro le lacrime e decise di distogliere lo sguardo.
Salutò dentro di sé quell'uomo che aveva amato tanto, troppo, fino quasi ad autodistruggersi.
Pensò forse che in quel momento avrebbe potuto mettere un punto a tutto, perdonarlo, fare pace con lui e un po' con se stesso.
Ma la realtà è che quella fine segnava solo l'impossibilità di risolvere quel rapporto, che non erano riusciti a costruire veramente in tutti quegli anni.
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