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Terrore cupo


Premette a fondo il piede sull'acceleratore, senza preoccuparsi di superare il limite. Aveva fretta di concludere.

Arrivò ad una casa isolata in mezzo alla campagna.

Suonò il campanello.

Una faccia emerse dal buio.

«Ce l'hai fatta?», chiese quel volto ancora in ombra, che poi venne illuminato dalla luna. Era una donna giovane con una chioma di capelli di un color nero come la notte che teneva sciolti e fluenti sulle spalle. Era pallida e si reggeva l'enorme pancia con un grande senso di affaticamento. Nel grembo portava un bimbo, che sarebbe nato da lì a poco.

Laura abbracciò la sorella Elena.

«Portiamolo in cantina, ho chiamato Paolo ad aiutarmi», disse a Laura.

Paolo era il loro vicino, un amico un po' strano che si era sempre messo a disposizione e a cui piacevano le situazioni un po' estreme. Aveva problemi mentali, soffriva di deliri di paranoia e di onnipotenza. Ma dopo il ricovero in strutture psichiatriche, che lo avevano curato, era guarito e diventato una persona con una parvenza di normalità, tanto che aveva stretto amicizia con le sue vicine , due sorelle molto graziose, che lui si era offerto di aiutare a più riprese. Questa volta la situazione imponeva un certo sangue freddo, cosa di cui lui disponeva e di cui andava fiero. Era compiaciuto che le sorelle avessero pensato a lui.

Quel poveraccio, certo, non sapeva a cosa sarebbe andato incontro. Quello era solo l'inizio, si sarebbe divertito quella sera, avrebbe sfogato su di lui tutta la rabbia troppe volte trattenuta.

Laura gli fece cenno di seguirlo. L'uomo era in macchina sdraiato, semi incosciente.

Lo adagiarono su di una sedia a rotelle, che avevano in casa e che era servita, negli ultimi anni della sua vita a portare il padre malato delle due donne.

Entrarono nella casa, le luci vennero accese, rivelando ambienti arredati con semplicità, quasi austeri e spartani nella loro minimalità. Tappeti antiquati rendevano l'ambiente un po' anacronistico, mentre alle pareti erano appesi paesaggi grigi di una desolazione infinita. La cantina era in fondo alle scale. Quindi il corpo lo dovevano trasportare di peso. Laura e Paolo lo presero e lo portarono giù, con grande sforzo. Era pesante, nonostante fosse magro.

Era sempre incosciente, a causa dell'alta dose di sonnifero che Laura aveva versato nel suo piatto. Le assi cigolavano, sotto il peso dei loro passi, la scala era vecchia e rotta in più punti.

«Fate piano», intimò la sorella. Scese a sua volta con grande fatica, reggendosi il pancione e aprì loro la porta della cantina. Premette l'interruttore della luce. La stanza fu illuminata debolmente dalla piccola lampadina che pendeva dal soffitto. La cantina era piccola, al centro c'era un tavolo in legno con una morsa, poi delle mensole sempre in legno con tutti gli strumenti che un falegname dovrebbe sempre avere nella sua bottega: martelli, seghe elettriche e a mano, lime, scalpelli, carta vetrata, morsetti. Una finestrella tutta intessuta di ragnatele era collocata in alto a sinistra e attraverso di essa un raggio di luna si proiettava sul tavolo. Misero l'uomo sulla sedia dall'alto schienale, che si trovava proprio di fronte. Lo liberarono dai vestiti, sostituendoli con una tunica lunga e grezza. Gli legarono le mani con delle fascette metalliche e i piedi con della corda rozza. Dopodiché gli tapparono la bocca con del nastro adesivo. Si udì distintamente il grido della civetta, poi il silenzio assurdo, interrotto da una voce, quella di Laura. Si era avvicinata a Rinaldo e gli stava tempestando il viso con dei colpetti, che miravano a svegliarlo.

«Rinaldo, Rinaldo», si sentì chiamare come in un'eco lontana.

Rinaldo annaspava in una sorta di limbo, tra sogno e realtà. Vedeva gli occhi verdi di Laura, vedeva la sua scollatura e sentiva di desiderarla molto di più di ogni altra donna che mai avesse desiderato nella sua vita. Aveva la consapevolezza di stare sognando, ma non riusciva ad aprire gli occhi. Laura lo baciava nel sogno, le sue labbra morbide e rosse mordicchiavano le sue, lasciando una scia di saliva che gli colava sul mento. Le toccò i seni, i capezzoli che diventarono turgidi all'istante. Lei flessuosa, gli si strusciò contro, entrambi vittime di un desiderio incontrollabile. Ma era un sogno. Nella realtà Laura era tutt'altra cosa. Gli pareva di avere gli occhi riempiti di ovatta, non riusciva ad aprirli, i rumori indistinti giungevano alle sue orecchie come un'eco lontana. Non riusciva a trattenerli, non riusciva ad afferrarli e ripiombava in una sorta di vuoto cosmico, simile alla morte.

Cercò di urlare, ma non gli venne fuori niente, anzi più si affannava e più i risultati erano incerti.

Poi piano piano iniziò ad avvertire un formicolio nelle mani, che fino ad allora erano rimaste intorpidite, il suo corpo fu scosso da una corrente elettrica e acquistò di nuovo la padronanza dei muscoli. Riuscì ad aprire gli occhi. La prima cosa che vide fu una macchia indistinta e bianca davanti a sé, poi lentamente quella macchia divenne una forma ben precisa, poi una figura. Strizzò ancora di più gli occhi e la figura prese forma. Una donna alta con un vestito rosso, i cui occhi lo fissavano con ostilità.

«Mmmh», iniziò a mugugnare. Vide altre due persone, una donna in stato interessante e un uomo basso e tarchiato con un camice bianco indosso. Non capiva. Stava sognando forse o magari era precipitato in un incubo. Laura gli tolse lo scotch dalle labbra. Non riusciva a parlare. Provò a dire qualcosa, ma fu inutile. La paura gli serrava la gola.

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