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Capitolo 4

"Allyson, questa tua lentezza è molto fastidiosa!" gracchiò mia madre, bussando ripetutamente alla porta della mia stanza.

Osservai la mia immagine riflessa allo specchio e pregai Iddio affinché i miei genitori non comprendessero la ragione di tanto agio, poiché non avrei avuto il coraggio di confessare che avrei preferito rimanere a casa, per non imbattermi nel viso del signor Wilkinson.

"Figliola, apprezzo molto questa tua minuziosità," Mio padre entró in stanza e mi accarezzò una spalla, "ma dobbiamo partire."

Annuii, consapevole che il mio tentativo di guadagnare tempo non sarebbe stato fruttuoso, e mi aggrappai al suo braccio.

Sembrava essere stato particolarmente attento al suo abbigliamento, mio padre, quella mattina. Non gli avevo mai notato indosso una giacca tanto costosa, men che meno uno jabot così lindo da lasciar apparire il suo petto robusto e giovane come una volta.

In cortile, una modesta carrozza attendeva la nostra famiglia, e potei giurare di aver avvertito una fitta al cuore quando la nostra casa sparí in lontananza, avvolta da un turbine di nebbia.
Essa prese a scalpitare ondeggiante sui ciottoli di un viale, per poi danzare con piccoli frastuoni su un sentiero ghiaioso.
Rimasi in silenzio.
"Allyson, non ti comprendo!" Mia madre s'accigliò, osservando il vestito turchese da me indossato." Avresti potuto indossare un abito migliore! Insomma, dobbiamo visitare la dimora del signor Wilkinson!"

"Non reputo questa questione della massima importanza."

I miei genitori grugnirono, mentre io ammiravo il fogliame della vegetazione dei boschi, ignorando i loro sguardi di riprensione.

Forse riuscirete a cambiare la mia opinione riguardo le donne...

Al ricordo, pensai che, invece, era il mio rispetto nei confronti del sesso maschile ad essersi affievolito.

"Fitzwilliam, che ne pensate del giovane Wilkinson?" domandò mia madre, accarezzando il tessuto del suo ampio cappello in piume.

"Esecrando ed impertinente. Oserei dire inverecondo," azzardai.

"Nessuno ha domandato il tuo parere!" ribatté la donna con stizza.
"Un giovane di bell'aspetto, nonché di una cultura invidiabile," rispose mio padre, osservando un punto indistinto in lontananza.

Cultura! Cultura! Che il Cielo potesse perdonarli!
Repressi una risata, quasi meschina, poiché non rammentavo di aver mai udito parole sagge uscire dalle labbra del giovane, bensì ricordai come il suo sguardo investigatore tendesse a scrutare ogni dettaglio a lui circostante.
Era un abile osservatore, forse. Questo non potevo mancare di ammetterlo.
Una voce interiore, tuttavia, mi suggerì di tacere: conoscevo ben poco di lui, non ero in grado di giudicare appieno.
Ma la sua apparenza sembrava reclamare le critiche.

Il palazzo del giovane Wilkinson era meno distante di quanto sperassi e tentai di nascondere il mio stupore dinanzi alla bellezza della sua dimora. Le facciate bianche del palazzo richiamavano il colore delle nuvole, aggrappate al tetto della villa, mentre un ampio cancello in ferro battuto vietava l'entrata a chiunque non disponesse di un'autorizzazione; la casa si affacciava inoltre su un enorme giardino costellato di aiuole variopinte, delle quali riuscivo ad avvertire il profumo sino alla vettura. Potei sorridere grazie al mio unico pensiero positivo: avrei incontrato Bethan, la mia amica più fidata, dopo un lungo periodo di lontananza.

"Oh, dov'è Allyson, signori Stevens?" Riconobbi la voce stridula di Bethan, pronta ad accoglierci con grande affabilità.
La giovane balzellava attorno alla vettura, quando questa prese a rallentare la sua corsa per posteggiarsi dinanzi alla loggia della casa. Rassettò gli orpelli di pizzo delle sue maniche e afferrò le sue gonne in tessuti sobri e primaverili. Un laccio in tulle ocra stringeva la sua esile vita sotto i piccoli seni di ragazza, per poi lasciar trasparire la sinuosità con la quale l'abito scivolava in balze lungo le sue gambe.
Quando scesi dalla carrozza, ella mi avvolse con il suo più caloroso abbraccio. "La mia gioia è indescrivibile!" esclamò. "Spero che tu sia di buon umore."

Aggrottai la fronte, incespicando. "Certo," mentii.

Non ricordavo quanto i suoi capelli fossero biondi, ma distinsi nitidamente le sue iridi screziate di un grigio cenere.

Mi guardai attorno, stupita ma anche beata dall'assenza del signor Wilkinson che, ancora, stentavo a credere fosse il cugino di Bethan.

Eppure, ero certa di non poter ritenere questo particolare una colpa da addossare alla fanciulla.

"Ho così tante vicende da raccontarti!" Bethan si strinse al mio fianco, esultante, mentre fiumi di guardie sorvegliavano l'ingresso del palazzo. L'atrio era addobbato con i colori più vivaci, in sintonia con l'ampio pavimento lustrato, il quale provocò in me un lieve sbandamento.

"In tutti questi mesi, Bethan, non ho avuto modo di farti visita nella tua dimora, e devo ammettere che è di una bellezza incatevole," sorrisi.

"Ma oh! Il merito non è mio, cara amica mia! Tra pochi giorni lascerò questa casa..."

"E per quale ragione?"

"Mi sposerò, Allyson."

Il mio cuore perse un battito, un respiro. Rimasi interdetta, sorpresa, pensando con quale coraggio avesse deciso di unirsi in matrimonio ad appena diciassette anni.

Le situazioni mutavano, cambiavano aspetto e natura, correvano incontro al proprio destino, mentre io indugiavo immobile ad osservare.

"Avrò modo di raccontarti ogni singolo dettaglio al riguardo," disse, poi si riprese e iniziò a gesticolare. "Questo palazzo è di mio cugino Bradley! Lui si è occupato del suo decoro, con un impegno tale da rendere questa casa migliore di una reggia!"

Improvvisamente desiderai non aver mai espresso ammirazione nei confronti di quel palazzo. Sfoggiai un viso stupito, mentre, segretamente, lottavo contro il desiderio di fuggire da tanta ricchezza.

"Immagino che tuo... cugino consideri la finezza di una dimora un particolare molto rilevante."

"Esatto, signorina Stevens." Inaspettatamente, udii una voce maschile, seguita da un frenetico tacchettare di scarpe e, quando alzai lo sguardo, notai la figura slanciata del signor Wilkinson scendere da -quelle che appresi fossero- le scale più belle avessi mai visto.

La sua lunga giacca blu cingeva perfettamente le sue spalle e rese la sua immagine ancor più imponente e robusta di quanto ricordassi.

Egli ci raggiunse, sciorinando un sorriso sghembo. "Siete la benvenuta." Portò la mia mano alle sue labbra, baciandola, poi osservò qualcosa alle mie spalle. "O meglio, i benvenuti," si corresse.

Non sorrisi, ma abbassai lo sguardo, tuttavia riuscivo ad avvertire i suoi occhi puntati saldamente sulla mia immagine.

"Credo tu abbia avuto già il piacere di conoscere il mio amato cugino!" Bethan sorrise, estasiata.

Piacere e amato, due parole che cozzavano in una frase simile, pensai.

"Sì, ne ho... avuto l'occasione..." Per la prima volta, guardai il signor Wilkinson negli occhi: essi erano più verdi ed esoterici, ora.
Ci osservammo per un lungo istante: la mia espressione imperscrutabile e quasi cupa fronteggiava la sua, divertita, ammaliata, fiera, orgogliosa, sfacciata, ed immancabilmente tinta dall'ardore giovanile.

"Oh, mio caro signor Wilkinson!" Mia madre fece il suo ingresso. La luce nei suoi occhi confermava l'emozione che provava, mentre ammirava la chioma scarmigliata del giovane.

"Siete elegante come sempre, signora Stevens," si complimentò egli.

Ella sembrò quasi svenire alle sue parole, ma si limitò ad esprimere gratitudine con un sorriso forzato.

Mi chiesi come poterono, i presenti, pendere dalle labbra di un giovane tanto impertinente. Che fossero tutti attratti dal suo indiscutibile bell'aspetto?

"Vorrei, con piacere, mostrarvi la casa." Il signor Wilkinson girò sui tacchi e ben presto fu al mio fianco.
Precedette il gruppo, portò una mano al suo panciotto bianco e vagò con lo sguardo ribelle a constatare se ogni particolare fosse al suo posto. Dopodiché, richiuse le labbra, deglutì e sbatté di un poco le lunghe ciglia, sfiorando con l'altro braccio il corrimano delle scale.

Egli si chinò, tantoché potei distinguere le sfumature scure dei suoi capelli. "Sarei felice di scortarvi, signorina Stevens." sussurrò al mio orecchio.

"Credevo aveste un'immagine differente per "belle donne"."

Le sue labbra si aprirono in un sorriso. "Vedo che vi ha piccato questo argomento..." concluse, misterioso.

Poi mostrò il braccio e, vista la gioia negli occhi di mia madre, fui costretta a poggiarmi a lui. Potei constatare sotto le dita quanto il suo arto fosse possente.

"Non parlate, signorina?"

"Aspetto di conoscere altre vostre rivelazioni,"dissi.

"Peccato che io, invece, non sappia nulla di voi, se non che sembrate amare penalizzare l'avversario per i suoi difetti." Egli sorrise, divertito.

"Considerate ciò una competizione?"

"Considero competizione ogni risposta di donna che sembra essere alla mia altezza."

Mi maledissi quando arrossii.

"Non avevo dubbi che la vostra dimora somigliasse alla residenza di un monarca, signore."

"E le vostre supposizioni sono fondate, signorina Stevens," affermò, continuando ad avanzare al mio fianco. "Per quanto io sia giovane, non amo rendere i miei possedimenti inezie e bagatelle." Alzò il mento, fiero di quanto aveva appena enunciato.

Entrammo nel salone, non senza aver percorso un dedalo di stanze, e capii all'istante come esso apparisse troppo lussuoso ai miei occhi.

"Che dimora meravigliosa, signor Wilkinson!" Mio padre espresse la sua ammirazione con vigore.

Mi sentii stranamente sollevata quando il giovane si allontanò, per raggiungere i miei genitori.

Pochi secondi dopo, mi lasciai sfuggire un urlo compiaciuto, quando notai un pianoforte in un angolo della sala. "Oh, santo cielo!"
Bradley si voltò in un breve istante, le mani congiunte dietro la schiena e l'espressione allarmata. I suoi occhi verdi erano infatti spalancati e le labbra chiuse così fermamente che credetti potesse balzare in attacco come un felino da un momento all'altro.

"Dovete sapere, signor Wilkinson, che nostra figlia è una valida pianista," spiegò mia madre.

Il signor Wilkinson si avvicinò. "Sarei lieto di ascoltarvi. Suonate per me." Si morse il labbro. "Per noi, volevo dire," balbettò.

"Sì, Allyson, suona." Mio padre socchiuse le palpebre, incitandomi, ligio ad innalzare la nostra considerazione.

"Oh, mio cugino adora la musica, eppure nessuno della nostra famiglia ha il dono di saper suonare..." borbottò Bethan, quasi delusa.

"E per quale ragione, allora, disponete di un pianoforte?" chiesi perplessa.

Il signor Wilkinson assunse il suo solito tono suadente. "Perchè sapevo che, prima o poi, qualcuno avrebbe dato voce, ogni giorno, a questo magnifico strumento."

Aggrottai le sopracciglia, non capendo cosa volesse intendere realmente. Tuttavia mi posizionai al pianoforte e fui inebriata da quelle note, quando le mie mani iniziarono a scivolare sui tasti.

Mi persi completamente in quella sinfonia, e per un breve istante dimenticai di essere in presenza dello stereotipo di giovane che mi ero sempre promessa di evitare.

Il signor Wilkinson era poggiato all'altra estremità dello strumento, i suoi occhi non cessavano di osservarmi e non seppi se mi stesse ammirando o esaminando.
Il suo sguardo era talmente avido, incessante, chiuso, fermo, deliberato, risoluto e focoso che errai nel finale della melodia, turbata.

"Scusate, ma..."

Fui interrotta. "Il mio sguardo vi ha agitata, perdonatemi," disse il giovane, giungendo poi al mio fianco e aiutandomi ad alzarmi.

Mi allontanai da lui, ritirando la mano. "Nient'affatto."

I miei genitori, in silenzio, apparirono delusi, mentre Bethan, come suo solito, si complimentò con me e le sue parole mi furono di conforto.

Mentre tentavo di riacquistare le forze necessarie per sorridere, avvertii una mano sfiorarmi la schiena: il giovane Wilkinson si chinò e sussurrò al mio orecchio, facendomi trasalire: "Non dannatevi l'anima. Avrete, ve lo posso assicurare, molte altre occasioni per suonare questo gioiello."

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