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6. Il fascino di un vampiro

Novembre era alle porte quando accettai la mia condizione. Alcune specie di rose erano in procinto di ritirarsi quando decisi di gridare aiuto.

Per settimane avevo finto di non accorgermi di come mio padre e Alexander confabulassero sovente, di come la mano del primo finisse puntualmente sulla spalla del secondo per calmarlo. Non ci voleva un genio per intuire l'argomento delle loro discussioni, imparai anche che il giovane si era addirittura spinto a fare ricerche online e che desiderava contattare degli psicologi della Gran Bretagna.

Mi infastidiva che complottassero nelle retrovie, che forse l'avessero sempre fatto, ma mi rincuorava di più l'indifferenza della mamma. Con lei percepivo di navigare in acque sicure, trascorremmo perfino dei momenti insieme al Chief Pleas. Lì venni a conoscenza del fatto che il posto di siniscalco fosse vacante e che, in teoria, spettava proprio al giardiniere occuparlo, una volta superato il lutto.

Ero diretta al ristorante quando Alexander mi fermò. «Devo sistemarti la sella?» domandò con il respiro accelerato dallo scatto. Non l'avevo visto nei pressi del granaio quando mi ci ero addentrata per recuperare la bicicletta decrepita.

Osservai l'unico mezzo di trasporto che riuscivo a usare e constatai che, oltre alle ragnatele, era rimasto tutto come l'avevo lasciato, alla mia altezza. Sogghignai. «Dovresti trovare un metodo di approccio migliore.»

Strabuzzò appena le palpebre. «Oh... Ehm...» farfugliò, ficcandosi le dita in tasca. Il giubbotto che indossava doveva essere molto caldo, si scorgeva del pelo spuntare dal lato interno. «Sei sempre la stessa, eh? Sempre diretta» bofonchiò, incurvando la bocca all'insù e poi immediatamente all'ingiù. «Effettivamente volevo dirti che ho pensato di prendermi una pausa, ormai il prato può essere tagliato con minor frequenza e... avermi lontano ti farà stare più tranquilla.»

I suoi occhi plumbei mi fissarono con intensità e timore mentre la nuvola di condensa che aveva emesso continuava a fluttuare fra di noi. Il viso esprimeva speranza e rassegnazione assieme ed era ammaliante persino così. Per un istante l'idea di soffocare la realtà mi tentò, eppure subito mi sentii scivolare in un oscuro baratro che si serrava sopra il mio capo, riducendo la luce a un fascio sempre più flebile.

Alexander era la luce, costantemente cortese contro la vita ingiusta. Non volevo più che si stressasse, anche solo un poco, per colpa mia.

«No» scandii nonostante il volto ghiacciato. «La vacanza te la meriti, ma tu sei l'unico che può aiutarmi.» Lo stupore lo fece boccheggiare e così perseverai: «Sono stata pessima da quando sono tornata, però vorrei rimediare, se me lo permetti. Quindi... ti va di bere qualcosa dopo il mio turno?»

Mi morsi l'interno guancia, imbarazzata. Ero riaffiorata dagli abissi in cui sembrava volessi annegare per forza e mi sentivo terribilmente sollevata, non mi tremolava nemmeno più la voce. Ero già ridotta parecchio in poltiglia, tanto valeva giocare sino alla fine.

Sembrò indugiare per un attimo, poi non riuscì a contenere il sorriso sincero che gli formò pure una fossetta. «Certo.»

Forse, avevamo appena costruito un piccolo pezzo di idillio.

Non esisteva un luogo migliore dell'isola più buia del mondo per festeggiare Halloween: il tramonto dietro le montagne rendeva ancora più suggestivo il cielo lattiginoso e le ombre facevano meno paura, i ristoranti si affollavano di famiglie, i bambini si travestivano da spiritelli dispettosi e svolazzavano da un anziano all'altro.

Ma era quando le tenebre scendevano sul serio che si comprendeva la vera magia di Samhain. E allora la foschia risaliva dai campi, la luna pareva ingrandirsi, la gelida brezza obbligava le case a serrare gli infissi e per strada non rimanevano che le inquietanti fiaccole degli ubriaconi, dei satanisti che si ritrovavano nei boschi... di una principessa e il suo giardiniere, diretti anch'essi a una qualche bettola.

La notte sortiva uno strano effetto su di me. Mi metteva a mio agio, mi rendeva temeraria, ingenua... però soltanto se prendevo una pastiglia prima di unirmi a lei. Contro ogni logica umana scordavo le precauzioni, gli incubi, il mio essere donna. In un attimo tornavo l'innocente bambina che scorrazzava priva di istinto di conservazione, di diffidenza. Una fanciulla ignara del fatto che Sark fosse l'Inferno e che, come tale, era abitata da peccatori.

Ero davvero un bel caso clinico.

Un gemito fu il primo suono a predire l'arrivo del male.

Le iridi di Alexander balzarono istantaneamente sulla figura accasciata nel vicolo che avevamo imboccato. Il mio sguardo giunse un attimo dopo e credette di essere inciampato in un terribile déjà-vu.

«Ashby?» tentai, avanzando d'impulso.

Il palmo del moro mi impedì di rischiare oltre. «Andiamo via.» La sua dolce voce era sporca di reale preoccupazione.

A quel punto la testa del biondo si girò di colpo e in un battito di ciglia fu a una spanna da noi, le sclere rosse di qualcosa di più di semplice rabbia. «Tu» ringhiò, fulminando il mio accompagnatore. «Sei sempre in mezzo!»

Lo vidi a malapena il pugno che ferì Alexander e lo separò da me. E ancor meno distintamente scorsi quell'ultimo sputare sangue e reagire all'attacco, le mie urla erano tutto ciò che udivo e visualizzavo.

Una porta di servizio si spalancò all'improvviso, liberando due energumeni che si affrettarono a separare i ragazzi. Il bagliore proveniente dal locale da cui erano sbucati mi raccolse e l'ossigeno iniziò a scorrermi di nuovo nelle vene.

«Ehi» gridò l'omone coperto da un grembiule bianco, quello che teneva stretto Alexander. «Non tollero risse nei pressi del mio pub, è chiaro?»

Ashby tentò di sfuggire dalla presa del secondo uomo, che in risposta lo spintonò lontano dalla scena. «De Carteret, mi meraviglio di te. Vattene prima che chiami tuo padre» ordinò sprezzante, voltandosi risoluto per raggiungere l'interno.

«Filate a nanna anche voi, lo spettacolo termina qui» annunciò l'altro, soffermandosi su di me con un'espressione di rimprovero. Sperai che non mi fosse famigliare, ma la sua barba ramata era inconfondibile così come la mia chioma argentea.

«Zio» lo supplicai. Non eravamo veramente parenti, eppure papà mi aveva sempre obbligato a denominarlo in quel modo.

«Non dirò niente a Kenneth, ma tu devi promettere di cambiare compagnia» definì, studiandomi a fondo.

Ottenuto un mio cenno, il proprietario del Bel Air Inn rientrò e i clienti che si erano affacciati dall'angolo si rituffarono sulle proprie birre.

Lanciai un'occhiata al giovane che manteneva il mento abbassato e si torturava le nocche, nervoso e in difficoltà. Gli zigomi brillavano, baciati dalla luna, le ombre descrivevano tracce decise. Non poteva apparire più affascinante di così, lambito da una bellezza angelica e supportato dalle tenebre.

«Forza, ti accompagno a casa» dichiarai, concedendomi di tirarlo per un lembo della giacca. Sollevai poi un sopracciglio nel vederlo indugiare.

«C'è un dettaglio di cui forse non sei a conoscenza...» balbettò, trasalendo per la ferita al labbro. «Io vivo nella dependance.»

Non mostrai particolari reazioni, ero convinta di averne sopportate abbastanza per sconvolgermi per così poco e inoltre il mio subconscio l'aveva sempre saputo. «Oh» esalai solamente, unendo diversi tasselli e creando nuove lacune al contempo. «D'accordo, torniamo alla Seigneurie allora.»

Per il momento potevo anche non pensare.

Non avevo mai messo piede nella dipendenza, utilizzata in passato dai servitori e come sgabuzzino da mio padre. Non avevo idea di quando l'edificio fosse divenuto la residenza del giardiniere, ormai non conoscevo più nulla del mio paese natale.

«Non serve che entri» mormorò Alexander, accortosi della mia titubanza. «Grazie per...»

Gli impedii di terminare la frase. «Dobbiamo disinfettare quel taglio.» Cozzai i denti e spalancai il portone che lui aveva appena dischiuso.

Un romantico soggiorno con tanto di soppalco mi accolse, cancellando i ragni e gli scatoloni che invece mi ero immaginata. L'odore di ammorbidente e di biscotti mi avvolse, facendomi venire voglia di accoccolarmi di fronte al camino con un panno e la cioccolata calda. L'ambiente mi ricordava l'abitazione della nonna Diana, dove mi ero sempre sentita profondamente amata e al sicuro.

«L'hai arredata tu?» chiesi incantata, tralasciando del tutto l'impaccio.

Era un semplice monolocale, con l'angolo cottura che si univa al piccolo divano. Lo stile era piuttosto minimalista, i colori erano principalmente neutri, eppure mi resi conto di adorare ogni singola minuzia.

Provò a mordicchiarsi la bocca, ma dovette fare una smorfia nel rammentare la lesione. «Il merito è di Gwenhaël» confessò.

Distolsi lo sguardo. Chi accidenti era?

«Una sorta di designer, amica della Dama» spiegò nel medesimo istante in cui io lo interrogai su dove tenesse i cerotti con finta nonchalance.

Con una scrollata chiarì che avrebbe risolto da solo e così rimasi lì, a stuzzicare la memoria per verificare se una certa Gwenhaël fosse presente.

«Potresti salire a prendermi una maglietta pulita, per favore? Questa è sporca di sangue» strillò dal bagno.

Mi spogliai del giaccone e percorsi i gradini di legno che conducevano al letto, affacciato direttamente sul piano inferiore tramite una misera ringhiera. Non ebbi dubbi nel fiondarmi verso l'unico comò, però quando feci scorrere il primo cassetto mi pentii di non aver riflettuto abbastanza: due adolescenti si guardavano in maniera disgustosamente tenera, le braccia di lei allacciate al collo di lui, molto più alto; erano innamorati, era alquanto evidente.

«Non sei riuscita a trovarla?»

Mi irrigidii nell'udire la voce un po' roca di Alexander e impiegai un po' a voltarmi, non ero in grado di staccarmi dalla foto e da quello che vedevo fluire dagli occhi dei rispettivi giovani. No, non era vero che si stavano soltanto guardando, loro si stavano divorando.

«Scarlett...»

«Dammi un secondo» soffiai in balia delle emozioni. Sprofondai sul materasso, frizionando le mani sudate sui pantaloni. Tremavo, ma non di paura. La frustrazione mi stava bruciando. Ero furiosa perché non ero capace di ricordare.

Finalmente mi ancorai alle iridi allarmate del moro, trasmettendogli l'angoscia che provavo. I suoi capelli erano una massa informe, sparati in varie direzioni, e la faccia era stanca, eppure compresi lo stesso che non si sarebbe mai arreso quella sera, che non si sarebbe mai arreso con me.

«Sembravamo felici» sussurrai.

«Lo eravamo davvero» confermò, mantenendosi a distanza. Mi conosceva così bene...

«Aiutami» pregai solamente. Non avevo bisogno di rivelargli che ero dispiaciuta di non rimembrare cosa avesse annullato le nozze e lui non aveva bisogno di dirmi che aveva comunque colto il mio silenzioso rammarico.

Prima che potesse muovere un muscolo un violento colpo contro la finestra di sotto fu il saluto ufficiale del male. Una macchia cremisi disegnava una scia altrettanto vermiglia lungo il vetro esterno e sul terreno, macabramente immobile, scovammo poi un corvo dal petto squarciato.

«Scarlett, non sono io quello delle rose» asserì Alexander.

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