5. Prime volte
In quei giorni lo stress sembrava essere diminuito e paradossalmente era merito del Nicole's, dove mi ostinavo a passare più ore possibili. La proprietaria non poteva che descriversi felice del mio ardore, secondo lei ero l'eccezione che dimostrava che i nobili non nuotassero solamente negli ozi e inoltre adorava avere l'opportunità di condividere i gossip che aveva imparato nel corso del dì. Tutto sommato a me non dispiaceva il suo caratterino, chiacchierava con me come se avessi avuto la sua età e mi faceva ridere perché non conosceva il benché minimo pudore.
Un lunedì pomeriggio, poco prima di chiudere il locale, notai il ciuffo di Alexander bazzicare per strada. Lo seguii con lo sguardo, stupita di scorgerlo nei pressi di un luogo da me frequentato: non si era fatto molto vedere negli ultimi tempi, o almeno io non l'avevo più beccato a controllare ogni mio spostamento e non avevo neppure più trovato fiori inquietanti.
Lo osservai andare incontro a una fanciulla che poteva essere coetanea di Frances Baker e mi venne d'istinto strabuzzare gli occhi quando la prese fra le braccia. Irrazionalmente mi venne pure da invidiare la lunga chioma pece che ella possedeva, la fissai e immaginai come doveva essere estasiato lui nel tuffarcisi.
Poi alla coppia si aggiunse la fioraia dalle labbra cremisi e io persi un battito.
«Mi fanno così pena» mormorò Nicole, comparendo all'improvviso. «Ohi, ti senti bene?»
Scrollai le spalle e la ricambiai, affondando nelle sue iridi verdi, da gatta. «Perché ti fanno pena?»
Il faccino a forma di cuore si rabbuiò. «Ma come, non lo sai? Sono i famigliari del siniscalco, quello morto da poco» spiegò e dopo congiunse le mani, piegando il capo verso l'alto. «Pace all'anima sua.»
Un altro battito perso.
Riportai l'attenzione sui tre e percepii il cuore incrinarsi. Anche Alexander, con la sua maschera di gentilezza, celava dolore e per me fu come vederlo – vederlo davvero – per la prima volta.
«Dai, muoviamoci a pulire questi tavoli» mi interruppe la collega, sventolando lo straccio bianco. Scossa da ciò che stava avvenendo al mio interno mi abbassai a raccogliere la pezza che mi era caduta e mi allontanai dall'ampia finestra.
Non mi accorsi subito delle figure all'interno del giardino, quella giornata il pubblico non poteva accedere alla tenuta quindi non mi ero preoccupata di guardarmi intorno. La mente suggerì di tirare avanti come d'abitudine, eppure il petto non aveva smesso di dolere per l'intero tragitto.
Ero conscia che entrambi avessero percepito i sassolini che si spostavano sotto le mie suole, tuttavia Alexander proseguì a spazzolare il cavallo con movimenti ipnotici e l'animale continuò a goderne. Soffocai un risolino nel visualizzare che il giardiniere calzava delle appariscenti galosce gialle e perseverai nel mio avvicinamento, registrando anche gli abiti felpati e adatti per le temperature del mese.
Era la prima occasione in cui tentavo di costruire un nuovo ricordo con lui e la timidezza non si fece mancare, così come la presa ferrea sul barattolo di ansiolitici. Mi fermai dal muso del Purosangue, distante una spanna dal fantino. La colonia di quell'ultimo mi arrivò intensa nonostante la puzza di vegetazione e campi. Eravamo di fronte all'uscio del granaio, lontani dalle finestre principali della Seigneurie. Lontani da qualsiasi altra forma di vita a cui ancorarmi nel caso.
«Ti riconosce, sai?» sussurrò il moro nell'istante in cui presi a carezzare l'equino con la mano tremolante. Non perdeva la possibilità di rimembrarmi che avevo un vuoto di memoria e che lui era il candidato ideale per aiutarmi, ma lo faceva con un'estrema naturalezza che sottolineava ancora di più il fatto che solo lui sapeva come prendermi.
Ammutolii dinanzi al suono limpido della sua voce, incredula per la sua particolarità esattamente come la prima volta. I grandi bulbi oculari del cavallo sondarono il mio impaccio e decisero di donarmi ulteriore manto da coccolare, strappandomi un sorriso.
«Anche lui non mi è estraneo, come se lo avessi incrociato in un sogno» ammisi la riflessione che avevo fatto quando lo avevo intravisto il giorno dello sbarco. Il mio timbro, invece, tremava e non mi azzardai a distogliere le pupille dall'animale.
Desideravo essere carina.
«È una lei» precisò Alexander. «Si chiama Selene» disse con un tono differente che mi indusse a gettargli un'occhiata: un lieve rossore gli aveva colorato le guance.
Analizzai concentrata la sua faccia pulita mentre cercava di reprimere l'imbarazzo, evitando le mie iridi. La barba gli era ricresciuta in maniera disordinata, la peluria si estendeva ben al di là la linea della mascella, e i baffi non erano perfettamente pareggiati. Non volli realizzarlo sul serio, eppure un moto di tenerezza mi scaldò le viscere a causa di quei dettagli che lo rendevano molto umano e innocuo.
«Come la dea della luna», mi limitai a commentare senza indagare oltre. Lui saettò le perle grigie su di me e annuì perplesso.
«Volevo chiederti una cortesia» pronunciai, colta da un'apparente e improvvisa sicurezza che era lui stesso a trasmettermi. Aspettò interdetto, interrompendo lo spazzolamento. «Quelle rose che mi lasci di tanto in tanto mi agitano» completai.
Alexander aggrottò la fronte. «Io non...»
«È tutto a posto qui?»
Ci girammo verso l'intruso e restai di stucco. «Ashby?»
Il biondo alternò sguardi penetranti fra il giardiniere e me, soffermandosi infine sul moro. «Allora ti sei veramente ridotto a questo.» Sogghignò, puntando derisorio gli stivali da pescatore.
L'altro, che per un attimo fu attraversato da un lampo di fastidio, si ravvivò e, signore sino al midollo, come se nessuno avesse parlato, mi fece un cenno e trascinò via la Purosangue, montandola al volo. La simbiosi che li univa riluceva all'orizzonte mentre rincorrevano le tenebre, lambiti dalla raffinatezza che li caratterizzava e pronti per una ronda di sicurezza.
Il cavaliere e il suo destriero a proteggere la fragile principessa.
Dovetti deglutire. «Come sei entrato?» ringhiai al mio ex compagno di classe, irritata dalla sua aria altezzosa.
«È così che si saluta un vecchio amico?» esclamò, fingendo indignazione. Fulminai i suoi dannati riccioli cenere, le lenti da finto intellettuale, le labbra carnose. «Il cancello era spalancato» replicò, facendo spallucce.
Sollevai un sopracciglio. «No, l'avevo chiuso» ribattei, sporgendomi verso il principio del sentiero.
«Che importanza ha?» si lagnò, scocciato dal mio poco riguardo nei suoi confronti.
«Come al solito non capisci» sibilai impulsivamente. Emisi poi un sospiro, massaggiando lo spazio fra gli occhi. «Cosa sei venuto a fare?»
Mi agguantò il polso con il palmo sudaticcio. «Mi dici cosa abbiamo fatto per meritare questo trattamento?» strillò, la sclera arrossata. Non parve nemmeno udire le mie proteste di dolore. «Sei sparita per quattro anni. Quattro anni, cazzo. E adesso spunti fuori così, con un sorriso, come se niente fosse. Ti sembra un comportamento normale? Hai idea di quanto Sibyl si sia disperata?»
«Mi fai male!» Serrai le palpebre contro il suo alito rabbioso, non comprendendo neppure cosa stesse urlando.
Ashby mi stava davvero facendo male, tuttavia non in modo del tutto fisico. Stava evocando dei dubbi che erano rimasti ad aleggiare nell'ombra, in attesa di uno spiraglio. Per un attimo scorsi una testa calva in mezzo alla nebbia benefica dei farmaci, vidi gli occhi della civetta sparire e un teschio comparire.
«Ashby de Carteret» tuonò il vocione del Seigneur.
Tornai a respirare, libera dai rovi in cui il biondo voleva intrappolarmi.
«Fuori da casa mia» dichiarò più che autoritario, utilizzando quel tono a cui nessuno poteva rifiutarsi. Il tono di un capo.
Il ragazzo abbassò il mento, mortificato, e balbettò qualche suono indecifrabile. Levò le tende senza neanche guardarmi, con la schiena dritta e il petto di fuori. Non avrebbe più osato oltrepassare l'arco di fiori sopra il cancello, ero sicura.
Affrontai l'espressione dura di papà che si ammorbidì pian piano, optando per un'emozione che somigliava al risentimento. Si sentiva in colpa per qualcosa, forse non essere intervenuto prima. Nonostante ciò, era ancora nella sua versione migliore, con la chioma pettinata in una coda bassa e i vestiti stirati.
«I de Carteret non sono una buona compagnia, ora mi credi?» scandì.
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