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1. Lasciate ogne speranza, o voi ch' intrate

Luna piena nel cielo tetro, onde impetuose contro la scogliera, brezza glaciale che sferza il viso.

Le allucinazioni mi piombavano addosso come grandine, imprevedibili flash che si sovrapponevano alla realtà.

Erba alta che graffia le caviglie, terra umida sotto i piedi nudi, una civetta che osserva.

«Signorina, siamo arrivati.»

Sobbalzai e misi a fuoco il paesaggio che si prostrava dinanzi le nubi plumbee: vegetazione che divorava ciascun angolo libero, freddi edifici in tufo, desolazione... Sark non era cambiata di una virgola. Il faro bianco mi guardava in silenzio, in attesa di rimpossessarsi del mio spirito, e la puzza di pesce mi catturava i capelli, bramosa e affamata come ricordavo.

«Signorina» ripeté il traghettatore che con quella barba lattea somigliava davvero a Caronte.

Con un sospiro mi imposi di afferrare la valigia e spostarmi sul molo nonostante ogni mio singolo pelo gridasse il contrario. Un conato mi sconquassò violento e io maledissi quell'unico trasporto per arrivare sull'isola.

«Aspetti, ma lei è...»

«Sì, sono io» tagliai corto dolorante.

Fece una piccola riverenza. «Bentornata all'Inferno

Rabbrividii e mi apprestai a imboccare Harbour Hill, la strada sterrata che conduceva in paese.

Di solito avrei amato passeggiare in mezzo ai campi a quell'ora, accompagnata soltanto dai fringuelli, ma quella mattina l'inquietudine non smise di tormentarmi. L'incubo non smise di tormentarmi: miravo il firmamento e lo vedevo confondersi con le tenebre, avanzavo e percepivo i rami infilzarmi i polpacci, strizzavo le palpebre e trovavo gli occhi gialli della civetta. E scorgere i luoghi noti non aiutò neppure perché davanti al Bel Air Inn rotolavano i bicchieri sporchi della sera prima e l'insegna del ristorante indiano si illuminava a intermittenza come in un dannato film horror.

Mi accorsi tardi della donna che mi fissava con delle cesoie in mano. Era immobile di fronte a un negozio di fiori, indossava abiti scuri e addirittura l'aura la immaginavo della medesima tonalità. Solamente le labbra cremisi facevano eccezione, le stesse che pochi secondi dopo pronunciarono il mio nome e mi mandarono in tilt.

Un vestito a pois, lunghe gambe di porcellana, scie scarlatte sulla pelle.

Mi dileguai. Non avevo idea di chi ella fosse, nella mia memoria non era presente e quello mi angosciava ancora di più. Mi allontanai senza voltarmi nemmeno un attimo, con la sensazione di essere seguita e un cubetto di ghiaccio che mi solcava la schiena.

Cessai di correre solo quando individuai la vecchia cabina telefonica all'esterno della Seigneurie, l'attrazione principale del posto e residenza dei signori di Sark. Casa mia.

Un arco di candide rose decorava il cancello e un sentiero di ghiaia spezzava le aiuole curate, terminando sotto la maestosa facciata di pietra. La punta di diamante era proprio il giardino, vasto e profumatissimo grazie alle differenti specie di piante che vi abitavano. Perfino la regina Vittoria si era fermata a contemplarlo, due secoli precedenti.

Un nitrito mi bloccò prima che potessi attraversare la via: un giovane uomo si stava avvicinando in sella a un magnifico Purosangue inglese. Erano entrambi molto leggiadri nei movimenti e mi parevano familiari, come se mi ci fossi già imbattuta in un sogno lontano. Rallentarono per studiarmi e anch'io potei distinguere nel fantino una carnagione pallida che riluceva pure senza il sole, barba incolta e un folto ciuffo corvino che ricadeva sulla fronte estesa.

Arrestò il cavallo prima che potessi raggiungere ulteriori particolari e scese di colpo, stringendo i pugni con veemenza. Arretrai di riflesso, intimorita dalle sopracciglia corrugate e dal ghigno rancoroso che gli aveva distorto i lineamenti raffinati.

«Scarlett» sputò a denti stretti.

Persi un battito, non mi sembrava affatto di conoscerlo. Inciampai all'indietro per lo stupore, mi graffiai i palmi e una scarica mi percosse da cima a fondo, distruggendo quel debole controllo che ero riuscita a mantenere sino ad allora. Persone a cui chiedere soccorso non ve ne erano, la cancellata era troppo distante e le corde vocali si erano ammutolite come da copione.

«Ti...» Coprii il viso con le dita, le fragilità più profonde che spingevano per affiorare. «Ti prego» soffiai più forte. «Non farmi del male.»

Sguardo famelico, denti scoperti e scintillanti, bava alla bocca.

«Scarlett.»

Odore di letame, ruvidi calli che lacerano, una vergine fragranza che si leva nell'aria.

«Scarlett!»

Riemersi soltanto per finire in altro buio. Non riuscivo a respirare, il tetro bozzolo che mi aveva avvolta non si perforava e così l'ossigeno non poteva salvarmi. Risate beffarde si mischiarono a strilli preoccupati, ossa gelide cominciarono a racchiudere il mio corpo e a reclamare il mio sangue. Un liquido viscoso mi inondò, costringendomi ad annaspare nel vuoto mentre il fluido mi precipitava in gola.

Lo sapevo che non poteva essere vero, che era colpa di quelle grottesche allucinazioni che mi volevano divorare, eppure lo sentivo. Sentivo ogni cosa sull'epidermide, all'interno delle vene e davanti alle palpebre serrate. Le sensazioni mi stavano uccidendo.

Poi, all'improvviso un fascio di luce accecante trapassò le ombre, facendomi intravedere un paio di bellissime e spaventate perle grigie. «Calmati, respira» esclamò il proprietario di quegli occhi. «Concentrati sulla mia voce, va tutto bene.»

La vista era appannata e dei puntini neri riempivano l'intero cono. Il petto mi doleva a causa degli affanni, la saliva era scomparsa e le orecchie mi ronzavano terribilmente. Percepii il ragazzo scuotermi e rivolgersi sia a me sia all'animale allarmato, però l'udito funzionava a sprazzi. Era tutto ovattato, come se una violenta esplosione mi avesse perforato i timpani.

«Per favore, angelo mio. Non ti farei mai del male», mi parve di capire a un tratto. L'apprensione gli faceva tremolare il mento e non si rendeva nemmeno conto che in verità le sue mani stavano premendo troppo forte le mie spalle.

«Le pillole» gracchiai, la faringe mi andava a fuoco. «Nella borsa», mi sforzai di aggiungere.

Agguantò la pochette che tenevo a tracolla e ne rovesciò il contenuto, prelevando veloce il barattolo chiaro. Non fu in grado di consegnarmi subito una pastiglia, le sue dita erano attraversate da tremori.

Mi lasciai cullare dall'effetto placebo che lentamente portò la quiete, silenziando il travolgente galoppo del mio cuore. Ero consapevole che mi sarebbe servita ben più di una dose per tranquillizzarmi sul serio; l'astinenza non graduale non faceva bene, lo avevo svelato.

Azzardai un'occhiata al giovane che si era distanziato e lo trovai avvinghiato al collo del cavallo, piuttosto provato. Del risentimento che all'inizio gli aveva dominato la faccia non vi era più traccia, dolore e turbamento gli increspavano l'espressione. I muscoli erano tesi, eppure non dava l'impressione di volersi mettere in moto.

Il rumore di una bottiglia che si infrangeva ci destò, obbligandoci a squadrare sconcertati il sessantenne al di là del cancello. Disordinate ciocche bionde dondolavano ai lati del suo volto intanto che barcollava verso di noi, scalzo e con indumenti consunti.

«Ehi, ragasci» biascicò. «Shcarlett, quando sei arrivata?»

Mi si congelarono le vene. «Papà» sussurrai smarrita, coi battiti che acceleravano per la seconda occasione. Non ero più tanto certa di voler contraddistinguere la realtà, una parte di me avrebbe quasi preferito il raccapricciante mondo onirico.

Il moro si rianimò come se l'avesse trafitto un fulmine e si fiondò da lui prima che potesse emettere un'altra parola, mormorandogli qualcosa che non captai. Mio padre annuì mesto e lo accolse nella villa, sorreggendosi a lui come a un salvagente.

In un battito di ciglia, come se mi avessero brutalmente catapultata fuori da una bolla, realizzai di dovermi raddrizzare e infilare sotto il braccio libero di papà, ignorando tutto il resto.

«No» balbettò mio padre. «Non voglio che tu mi veda così.»

L'alito che sapeva di whisky mi provocò un conato e la sua schiena era sudatissima addosso al mio arto, però cozzai i denti e dissi: «Tranquillo, una doccia sistemerà tutto.»

Non ebbi il tempo di apprezzare il batacchio all'antica o l'elegante fontana nel fulcro del parco, ci dirigemmo nell'atrio a testa bassa e non percepimmo neanche la presenza della Dama di Sark¹, nascosta in un angolo a esaminarci. I suoi lineamenti duri non si distesero di fronte alla scena.

«Mamma» piagnucolai.

Non mi degnò di uno sguardo. «Alexander, occupatene tu.»

Al ragazzo non rimase che ubbidire senza indugiare e a me non restò che osservare impotente il modo in cui egli si comportava come il fratello che non avevo mai avuto.

Le mie viscere erano completamente a soqquadro e i nervi a fior di pelle. Avevo tante domande, un insostenibile bisogno di assumere altre pasticche e mia madre non si lasciò sfuggire l'opportunità per distruggermi: «Sono cambiate molte cose da quando sei scappata, tesoro».



¹ Appellativo per la linea femminile dei signori di Sark.

Benvenuti a Sark, quest'isola misteriosa e affascinante che scoprirete poco a poco. 

Chi mi conosce sa che Riesumata non è che l'ennesima versione di una storia che va avanti dal 2017, elaborata e rielaborata all'infinito per colpa del mio estremo perfezionismo. 

Dato che al momento mi ritengo abbastanza soddisfatta, vi auguro un buon soggiorno e mi raccomando di prestare attenzione ai dettagli nascosti che ho infilato qua e là. Niente è inserito per caso! <3

Amara

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