7. Semplicemente ricordi
Firenze, Italia
14 settembre 1876
Finalmente era arrivata la resa dei conti tra me e Nicola, io contro di lui senza nessuno a mettersi in mezzo.
Ci guardammo a lungo negli occhi, prima di sfoderare le nostre rispettive spade; il suo sguardo di ghiaccio mi fissava con odio mentre ci giravamo attorno come due leoni pronti a scannarsi.
I nostri abiti erano diversi rispetto al solito, meno sfarzosi, nel duello dovevamo essere comodi, agili.
Io indossavo una maglia di un bianco panna, a maniche lunghe e con uno spacco a V sul petto; un paio di calzoni marroni mi ricadevano morbidi sulle gambe e finivano su delle calzature nere.
Lui, invece, aveva una blusa che aveva visto tempi migliori: era abbondante e probabilmente era appartenuta a suo padre. A completare il suo abbigliamento, un paio di pantaloni larghi color crema che sparivano dentro dei gambali scuri come la notte, che richiamavano la tonalità della camicia.
Due dei Nardi erano nella loro uniforme completamente nera: giubba, cappello, brache e stivali. Rappresentavano l'esercito privato nella famiglia Nardini, stavano fermi in fondo a un vicolo in cui si teneva l'incontro. Io avevo rispettato i patti presentandomi da solo, lui a quanto pareva no.
Nicola partì all'attacco per primo.
Schivai il suo colpo e cercai di coglierlo di sorpresa con una contromossa, ma anche lui fu lesto a evitare un mio fendente. Andammo avanti a duellare parandoci iniziative a vicenda per qualche minuto, fino a quando io riuscii a ferirlo a un braccio e a farlo sanguinare.
A essere sincero, la vista di quel liquido cremisi mi disgustava e mi impressionava: di conseguenza distolsi lo sguardo dal suo taglio, dato che era piuttosto profondo.
«È stata solamente fortuna, pezzente! Mi chiedo ancora come mai Federica Marchesi abbia scelto un essere come te», mi disse il mio odiato rivale con rabbia e frustrazione per la ferita subita.
«Nicola, quando accetterai che la tua famiglia sarà sempre di un livello più basso rispetto alla mia? Che tu mi sei inferiore», lo provocai con arroganza.
Egli partì nuovamente all'attacco, ma lo bloccai, costringendolo a una prova di forza, spada contro spada. Eravamo in perfetta parità e, poco dopo, ci staccammo l'uno dall'altro, indietreggiando di qualche metro.
Studiammo l'uno la prossima mossa dell'altro senza staccarci gli occhi di dosso. Il ticchettio dei tacchi dei nostri stivali riecheggiava sull'umido pavimento di pietra calcarea di quel semibuio e desolato spiazzo. Non sapevo cosa si provasse a uccidere un uomo, ma visto l'odio che sentivo per lui quella notte sperai di scoprirlo. Il disprezzo che provavo per quella serpe andava oltre ogni altra emozione negativa che avevo sperimentato in vita mia.
«È solo grazie a tuo padre se hai tutto! Senza di lui non varresti niente, Federica ti degna della sua presenza solo per merito della sua amicizia con Lorenzo Marchesi, altrimenti ora sarebbe nel mio letto a... »
Non gli lasciai il tempo di finire la frase, che con un urlo mi scagliai su di lui.
Nicola schivò il mio assalto, mandandomi così a impattare addosso a un muro nelle immediate vicinanze. Successivamente con un colpo di tacco infertomi a un polpaccio mi fece perdere l'equilibrio e caddi rovinosamente a terra. Infine Con una pedata alla mia mano riuscì a disarmarmi.
«Fine dei giochi», esclamò soddisfatto e compiaciuto alzando la spada, pronto a infliggermi il colpo di grazia.
In quel momento si sentì un'esplosione, delle grida e il rumore di passi di gente che correva.
Entrambi ci girammo meccanicamente verso quel fracasso incessante. Colsi l'attimo di distrazione del mio nemico per sferrargli un poderoso calcio al ginocchio destro, che lo fece crollare a carponi. Gliene diedi un secondo alla mano così da far volare via la spada, e infine un terzo in piena faccia, facendolo rotolare qualche metro più in là.
Mi avvicinai furiosamente a lui, lo presi dal bavero e iniziai a picchiarlo sferrandogli dei pugni al volto.
«Questo è per aver parlato male di me. Questo è per aver nominato mio padre, e questo...» gridai forte per poi fermarmi un istante per guardarlo negli occhi, «questo è per aver osato menzionare Federica!» conclusi ringhiando irato, scandendo le parole a ritmo dei colpi.
I Nardi decisero di intervenire sguainando le spade, ma due uomini sconosciuti li trafissero da dietro prima ancora che potessero avvicinarsi.
I due corpi caddero lentamente proni sul pavimento, rivelando così l'identità dei miei due misteriosi salvatori. Erano Roberto e Pietro, il fedele braccio destro di mio padre.
«La città è in rivolta. I Nardi fronteggiano le guardie cittadine, e degli individui incappucciati di nero danno la caccia a delle persone. Non è sicuro qui. Scappiamo!» blaterò Roberto, agitato e confuso.
«Andate! Qui ci penso io... ci incontreremo alle porte di Firenze. Pietro, dove è la mia famiglia?» volli informarmi poi.
«A palazzo Marchesi, non corrono alcun pericolo, non preoccuparti», mi rispose lui, prima di andare via con il mio amico che lo seguiva a ruota.
Nicola sfruttò il momento di distrazione per estrarre un pugnale dal suo stivale e trafiggermi all'addome, poi si alzò barcollante e mi venne incontro agitando l'arma. Io mi appoggiai al muro coprendomi il taglio con una mano, intanto che lui veniva verso di me cercando di attaccarmi.
Gli bloccai il braccio, ma lui riuscì a farmi cadere a terra, colpendomi dove ero ferito con una forte ginocchiata. Il dolore mi fece crollare al suolo mentre gemevo a denti stretti.
Nicola si mise a cavalcioni su di me, brandendo in aria la lama, e tentò di infilzarmi nuovamente. Stavolta lottai per difendermi e, con le mani, fermai il suo polso. Fu una prova di forza non indifferente: lui aveva una spalla compromessa e io l'addome che perdeva sangue.
Serrando i denti feci pressione con tutta la potenza delle mie braccia, nonostante la sofferenza lancinante, e, grazie al vigore della disperazione, riuscii ad accoltellarlo col suo stesso pugnale. Nicola impugnava l'elsa e guardò incredulo l'arma rivolta verso di lui. Dopo qualche attimo di silenzio, rotto da alcuni flebili lamenti, il ragazzo cadde accanto a me agonizzante.
«Te lo sei meritato, figlio di puttana», esclamai irato, sputandogli con disprezzo.
«A-a-aiutami, ti prego», mi implorò Nicola sempre più dolorante e supplichevole.
Aveva ottenuto la giusta pena: era un ricco viziato, che aveva ucciso persone per futili motivi, aveva approfittato di ragazze che non volevano concedersi a lui, e infangava sempre la mia famiglia con ingiurie e falsità, perciò si era guadagnato la morte.
«Va bene», gli dissi avvicinandomi a lui.
Gli sferrai un calcio con tutta l'energia che avevo in corpo.
«Ti aiuterò, a morire però!» tuonai estraendo il pugnale da lui e preparandomi a finirlo.
Improvvisamente sentii nuovamente il rumore di passi di qualcuno che correva. Un individuo girò l'angolo del vicolo: indossava abiti stracciati, aveva dei capelli scuri che risaltavano dal suo volto pallido e scarno.
Mi guardò e notò il liquido rosso sulla lama, poi fissò i suoi occhi grigi e freddi sul mio addome ferito. Forse il taglio mi stava provocando delle allucinazioni, perché qualcosa in quello strano tipo non andava.
La sua faccia aveva qualcosa di spaventoso, alla vista di tutto quel sangue le sue pupille divennero rosse e i suoi canini si allungarono. Rimasi terrorizzato di fronte a quell'aberrante visione, e indietreggiai farfugliando qualcosa che risuonava bizzarro pure alle mie stesse orecchie.
Mi limitai a indicare l'essere con un dito e a tremare di paura. Rafforzai la presa sul manico del pugnale e mi tenni il ventre leso che mi doleva.
Lo sconosciuto non si fece intimorire, si mosse qualche passo verso di me e avanzò minaccioso nella mia direzione. Tuttavia, prima che potesse raggiungermi, venne trafitto da un pezzo di legno che era stato lanciato da qualcuno alle sue spalle.
Un uomo con una veste dal cappuccio nero mi osservava, puntandomi contro la balestra che aveva in mano. Non ebbi il tempo di pensare che mi trovai sotto tiro.
«Scusa, ragazzo, sei nel posto sbagliato al momento sbagliato», mi disse dispiaciuto, caricando la sua arma.
L'istinto di sopravvivenza prese il sopravvento e agii anticipandolo. Scagliai verso di lui il pugnale di Nicola, centrandolo in piena fronte. L'individuo stramazzò a terra, colto alla sprovvista. Mi avrebbe sicuramente colpito se non mi fossi difeso.
Chi era quella strana figura con gli occhi rossi?
Cos'era accaduto al suo volto alla vista del sangue?
Chi era l'uomo col cappuccio?
Perché aveva ucciso l'altro?
Cosa stava succedendo a Firenze?
Un'ultima domanda mi posi infine: dove diavolo era sparito Nicola?
I miei pensieri vennero scossi da delle urla femminili, e d'istinto mi precipitai in quella direzione.
Iniziai a correre più svelto che potessi, nonostante la ferita che mi causava delle fitte a ogni passo, ma la mia corsa fu interrotta dal corpo di una persona incappucciata che volò in mezzo alla strada, arrivando da un vicolo alla mia sinistra. Fu seguito da un altro e un altro ancora.
Qualsiasi cosa avesse una forza del genere non sarei stato in grado di affrontarla. Mi voltai, tremando, nella direzione da cui erano stati lanciati i corpi e quello che vidi mi paralizzò per qualche istante.
Di fronte a me vi era una ragazza minuta che indossava una mantella di un blu intenso, con un copricapo che le nascondeva solo gli occhi; sotto portava una camicetta bianca, un paio di pantaloni aderenti neri che andavano a finire dentro a degli stivali marroni.
I suoi lunghi capelli biondi spuntavano dal cappuccio, che non celò però alla mia vista le labbra carnose e il naso minuscolo e perfetto. Non credevo possibile che una creatura tanto piccola e almeno apparentemente indifesa potesse aver fatto quel massacro.
Mi si avvicinò con una velocità fuori dal comune e, in men che non si dica, me la trovai a un palmo dalla faccia. Alzò di poco il viso e riuscii a intravedere le sue iridi azzurre.
«Se cerchi la tua dolce metà, è lì nel vicolo. Ti consiglio di sbrigarti se la vuoi trovare ancora tutta intera», mi sussurrò all'orecchio con tono pacato e suadente.
Rimasi incantato dalla sua voce e spostai la mia attenzione nel punto che mi aveva indicato. Mi girai di nuovo per chiederle spiegazioni, ma era sparita.
Gli avvenimenti di quella notte mi avevano sconvolto nel profondo: non capivo cosa stesse accadendo alla mia città, ma non avevo altro tempo da perdere, dovevo recarmi lì. Sicuramente la ragazza misteriosa stava parlando di Federica.
Quando svoltai l'angolo vidi qualcuno chino sul collo di una giovane. Non riuscii neanche ad avvicinarmi che l'uomo scattò col viso verso di me, mostrandomi la bocca sporca di sangue. Mi fissò con degli occhi rossi bramosi ed esibendo dei canini aguzzi, più lunghi del normale.
La sua faccia era diventata come quella dell'individuo apparso in precedenza. Anche lui indossava il completo nero col cappuccio, e i tratti del suo viso tramutati in quell'orribile maschera mi erano rimasti bene impressi nella mente, nonostante l'avessi visto solo per qualche istante.
Mi fermai a riflettere: forse le storie che mi narrava mio padre erano veritiere, il male esisteva, creature che si nutrono di sangue e vivono di notte. Non potevo credere a queste favole dell'orrore, ma ne ero terrorizzato.
Il soggetto mollò quella che scoprii essere Federica, guardò il mio addome sorridendo e si avvicinò sempre di più. Provai a colpirlo, ma non ebbi neanche il tempo di sferrare un pugno che mi fece volare di diversi metri indietro, impattando con la schiena addosso a un muro.
Pensavo solo a come salvare la mia amata, anche se stavo affrontando un mostro a mani nude. Dovevo proteggerla da quell'essere, nonostante fossi ferito e l'urto contro la fredda parete del vicolo mi avesse ridotto a uno straccio.
Strisciai verso la ragazza, che lentamente si accasciava scivolando lungo la parete. Protese una mano verso di me e io feci lo stesso, pronunciammo flebilmente l'uno il nome dell'altra, poco prima che lo strano individuo mi prendesse per il collo, sollevandomi dal suolo.
Poi qualcosa lo distrasse: alle mie spalle sentii anch'io un rumore di passi, e improvvisamente l'uomo mi lasciò per avventarsi sui due incappucciati appena sopraggiunti.
Riuscii ad atterrare carponi e mi voltai per vedere la scena più scioccante di tutta la mia vita.
Quell'essere si mosse a una rapidità inaudita e fece una cosa fuori da ogni possibilità umana: lo fissai sconvolto mentre portava le poderose dita verso il busto dei suoi nemici e, con un gesto secco, le affondava nelle loro casse toraciche estraendone i cuori ancora pulsanti a mani nude.
Tutto ciò che lo caratterizzava aveva del sovrannaturale: la forza, la velocità, il suo stesso volto.
Tuttavia, nella mia testa c'era sempre e solo la volontà di salvare la donna che amavo. Colsi quell'attimo di distrazione del mostro per avvicinarmi a Federica e alzare il suo capo da terra. Era fredda e pallida, i suoi capelli biondo cenere erano scompigliati e i suoi abiti pieni di sangue, il battito era flebile. Mi accarezzò il viso con la punta delle dita e sorrise tristemente, dicendo qualcosa che non capii. Poi chiuse gli occhi.
«No, no, no. Ti prego! Resta con me!» gridai a squarciagola, completamente distrutto da un dolore che mi stritolava il cuore.
Accostai l'orecchio al suo torace, ma non sentii nulla.
Ormai il mio volto era inondato di lacrime, che scendevano a fiumi dai miei occhi appannati e gonfi.
«Ti prego, rispondimi, parlami!» urlai invano, abbracciandola più forte che potevo a me.
Singhiozzavo, un nodo in gola e una morsa di ferro al petto m'impedivano quasi di respirare. Non potevo più fare niente, ormai.
Non sarebbe servito tentare di rianimarla, tuttavia ci provai comunque, perché non riuscivo a guardare in faccia la cruda e devastante verità.
Era morta.
Vaneggiavo sulla possibilità di vederla riaprire gli occhi, mi stavo creando una realtà parallela nella testa... lo shock era troppo grande.
Le accarezzai il viso e le baciai delicatamente le labbra, stringendole la mano, mentre una parte di me se ne andava con lei, lasciandomi completamente vuoto e privo di vita.
Non avevo neanche potuto fermare il suo assassino, che notai si stava avvicinando lentamente a me.
Non potevo colpirlo, mi avrebbe ammazzato in un attimo, data la sua forza, e da morto non avrei potuto vendicare la donna che amavo.
«Tieni questa rabbia per quando sarà necessario, ragazzo, non sfogarla su di me. Tutto questo non è colpa mia, ci rivedremo tra molti anni, o almeno spero.»
Mi disse queste parole prima di dileguarsi nella notte.
Perché non mi aveva ucciso?
Chi era?
Mentre piangevo disperato e devastato dalla scomparsa di Federica, non mi ponevo queste domande, ma lo feci quando, infine, realizzai la sua morte.
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